Scritti nell'Anima
Scritti nell'anima
Autore: Eddy Cilìa
 
PREZZO: 8,00€
Scritti nell'Anima

“Scritti nell’Anima: storie di soul, di blues, di jazz”: Ha mai avuto una musica un nome così bello? Anima. Ed è mai riuscita una musica a raccontare meglio, insieme, le vicende di mille individui, ognuno preziosamente unico, e quelle di un popolo? L’immaginario, i sogni, la maledizione e il riscatto di un’esistenza nel ghetto, l’amore, il sesso, la tensione verso qualcosa di Superiore? Musica squisitamente nera, nondimeno universale. Figlia del blues, coetanea del rock’n’roll, ava del funky, della disco, dell’hip hop, infiltrata nella house come nel drum’n’bass e naturalmente in tanto rock. Non è più, eppure è ovunque.
"I Libri di Harry #8" [2007] • 352 pagine

Eddy Cilìa (1961) si occupa professionalmente di musica dal 1983. Ha scritto per quasi tutte le principali riviste specializzate italiane e pubblicato, per Arcana e Giunti, una decina di libri. È presente su Blow Up sin dal numero zero e ne è orgoglioso. Attualmente è anche redattore del mensile Il Mucchio e del trimestrale Extra e collabora ad Audio Review.


“Scritti nell’Anima: storie di soul, di blues, di jazz”: No music has a so beautiful name. Soul. No music has ever told better the life and vicissitudes of an entire people. Imaginery, dreams, malediction and redemption, love and sex. Born out of the blues, coeval to rock’n’roll, grandfather of funk, disco, hip hop, deeply inside house music as drum’n’bass, so black and so universal. It’s no more, but you listen to it everywhere: soul music.
"I Libri di Harry #8" [2007] • 352 pages

Eddy Cilìa (1961) writes about music since 1983. He contributed to almost every italian magazine and wrote many books for Arcana and Giunti publishers. He contributes to Blow Up since the beginnings, and he’s proud of. He contributes to the monthly mag “Il Mucchio” and “Audio Review” too.



Di seguito l’indice e un capitolo del libro:

INDICE
Introduzione
1. I Can’t Get Enough (Of Your Soul)
2. Andando alla Ventura per New Orleans
3. Little Richard: il Re e la Regina del rock’n’roll
4. Robert Johnson e il Diavolo
5. Charley Patton: l’eterno secondo
6. Vita e leggenda di Leadbelly
7. I’m Bad Like John Lee Hooker
8. Muddy Waters: un poeta americano
9. Sonny Boy Williamson II: Rashomon in blues
10. Howlin’ Wolf - Il Presidente
11. Willie Dixon: il blues sono io
12. Sweet Home Chicago: una celebrazione della Chess Records
13. Diddley Daddy: un omaggio a Ellas McDaniel
14. Jesse Fuller: meglio tardi che mai
15. Nessuno canta il blues come Blind Willie McTell
16. Piove nel mio cuore: l’ape re Slim Harpo
17. Lightnin’ Hopkins sull’ascensore per il tredicesimo piano
18. Ted Hawkins: di spiagge e prigioni
19. J.B Lenoir e i blues di Eisenhower
20. Malcolm, Malcolm, Semper Malcolm (X)
21. Twistin’ Cupid: il genio interrotto di Sam Cooke
22. Rispetto! La saga degli Staple Singers
23. Grandi del gospel: Sister Rosetta Tharpe, Mahalia Jackson, Blind Boys Of Alabama  110
24. Non ho mai amato nessuna come ho amato te: Aretha Franklin
25. Le ginocchia sbucciate di Little Esther Phillips
26. Doris Duke: nata per perdere
27. L’amaro raccolto di Billie Holiday
28. La dinastia dei Mingus: Charles ed Eric
29. Nina Simone: illuminazioni d’immenso
30. James Carr sul lato oscuro della strada della vita
31. Il sogno di Otis e Jerry (Butler)
32. Curtis Mayfield e gli Impressions sul treno per il Giordano
33. Tre tragedie in un atto
34. Ascesa e cadute di Gil Scott-Heron
35. Starr. Il mio nome è Edwin Starr
36. Temptations: vita, morti, qualche prodigio
37. I Miracoli di Smokey Robinson
38. Terry Callier: di che colore è la musica?
39. Orioles: dalla race ballad al rock’n’roll
40. Fratelli da un altro pianeta: i Manhattan Brothers
41. Brother Genius: un ricordo di Ray Charles
42. Bobby Bland: un segreto afroamericano
43. L’eterno adolescente Rufus Thomas
44. Stax: la casa del soul
45. Otis Redding: da Macon a Memphis, a Monterey
46. Sam & Dave: i Blues Brothers originali
47. Il Mosé nero Isaac Hayes
48. Minori maggiori: Johnny Adams e Arthur Conley
49. Il negro bianco Steve Cropper
50. Jerry Ragovoy & Howard Tate Co.
51. Jerry prima di Janis: Garnet Mimms e Lorraine Ellison
52. Ann Peebles: Lady Rain sings the blues
53. Nella carnale chiesa del Reverendo Al Green
54. Giù al fiume con Syl Johnson
55. Johnnie (B. Goode) Taylor
56. Il rapper Joe Tex
57. Il vescovo Solomon Burke
58. Dillo forte! Sono bianco e me ne vanto! Eddie Hinton e altri visi pallidi
59. Il poeta nero numero uno: James Brown
60. Le donne di James Brown: Lyn Collins, Vicky Anderson, Marva Whitney
61. Re e regine: l’arte del duetto
62. Marvin Gaye: un po’ di amore qui, oggi
63. Sly Stone: voglio portarti più in alto
64. P-funk’s not dead! Un’apologia di George Clinton
65. L’età aurea di Stevie Wonder
66. Re Prince
Discografia citata


Nessuno canta il blues come Blind Willie McTell
“Ho visto la freccia in cima alla porta./Diceva: ‘Questa terra è condannata,/da New Orleans a Gerusalemme’./Ho attraversato l’East Texas/dove molti martiri sono caduti/e so che nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell./Ho sentito il verso della civetta risuonare/mentre smontavano le tende/le stelle sopra gli alberi spogli/suo unico pubblico./Le ragazze zingare che portano il carbone/sanno bene come pavoneggiarsi/ma nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell.”

Per bizzarra coincidenza è un 5 maggio il giorno in cui Bob Dylan registra Blind Willie McTell, o meglio la versione - ne esiste una precedente, del 18 aprile sempre del 1983 - di cui ci ha graziato otto anni più tardi includendola nella prima uscita delle “Bootleg Series”. È alle prese con “Infidels”, il disco che segnerà la sua rinascita dopo l’era fosca e ottusa di un’altra rinascita, quella cristiana, ed è incerto sul valore di un brano a proposito del quale dichiarerà che “non conosco nessuno che faccia questo tipo di canzoni” e, sant’iddio, sta parlando il signore che ha firmato una bazzecola come Like A Rolling Stone e rivoluzionato la storia della canzone popolare quel paio di volte. Talmente incerto – “non è incisa bene” e “non si è sviluppata come avrebbe dovuto” altre due inverosimili scuse – che in ultima istanza deciderà di escluderla dall’album, preferendole il comizio sionista di Neighborhood Bully: scelta fra le più autolesioniste in una vicenda che in materia di autolesionismo nulla si è fatta mancare. Ma il nastro passa di mano in mano (ne arriva una copia a Steve Wynn e sarà per tramite dei Dream Syndicate, artefici di una versione di elettrico, apocalittico fulgore, che avrò modo di ascoltarlo per la prima volta) e cresce la sua fama. Quando vedrà la luce ufficialmente al mondo toccherà interrogarsi sulla sanità mentale dell’autore, incapace di riconoscere la grandezza di una canzone come non ne componeva (né ne ha più composte) dai mezzi Settanta di “Blood On The Tracks”, se non dai mezzi Sessanta di “Blonde On Blonde”. Però in una cosa aveva ragione: nessuno scrive canzoni così. Siamo al sovrumano, nell’afflato come nella qualità, e mi sia concesso citare al riguardo quel finissimo esegeta di Alessandro Carrera quando annota che Blind Willie McTell è “una conversazione desolata fra Dylan e lo spirito della terra, condotto sull’orlo della fine del tempo, davanti alla concreta e terrificante possibilità che anche l’immortalità stia per morire”. E con il bardo di Duluth la faccio finita qui, o quasi.

“Ho guardato le grandi piantagioni bruciare/sentito le fruste schioccare/aspirato il dolce profumo delle magnolie in fiore/e ho visto i fantasmi delle navi negriere./Posso ancora ascoltare i lamenti delle tribù/posso ancora ascoltare la campana del padrone/e nessuno canta il blues/ come Blind Willie McTell.”

Dicevo di una coincidenza: fosse stato ancora vivo, quel 5 maggio il bluesman georgiano avrebbe festeggiato l’ottantacinquesimo compleanno, oppure l’ottantaduesimo visto che sull’anno di nascita - 1898 o 1901 - le fonti sono discordi. Non l’unico dettaglio rimasto oscuro, avrete inteso se con il blues avete frequentazioni appena più che occasionali. Nemmeno si sa in verità quale fosse il suo vero nome. Per Carrera era nato Willy Samuel McTier, ma a prestar fede a Greg Ward sulla sua pietra tombale sta scritto “Eddie McTier”. Né è chiaro se fosse nato cieco o lo sia divenuto intorno ai vent’anni. Inoltre: confusi i resoconti intorno alle circostanze di una morte che lo colse – il 19 agosto 1959, pare - a tal punto dimenticato che solamente alcuni mesi dopo la notizia trapelava fra gli appassionati. Usciva un 33 giri su Bluesville, “Last Session”, quando mai in vita Blind Willie McTell aveva avuto la soddisfazione di avere un suo LP nei negozi. Presto il blues revival avrebbe regalato fama e denaro ai coetanei sopravvissutigli e fra costoro a diversi a lui inferiori. E nel 1971 la Allman Brothers Band avrebbe posto Statesboro Blues a incipit del classico e vendutissimo “At Fillmore East”. Ma fatemici arrivare e innanzitutto dicendovi perché sono qui a parlarvi di Willie il Cieco. È in circolazione dalla scorsa estate un cofanetto su JSP, “The Classic Years 1927-1940”. È economico, eccellentemente annotato, suona bene quanto si può pretendere da registrazioni così vetuste. Ed è una delle più monumentali raccolte di blues, non solo pre-bellico, che siano mai state pubblicate, giusto un pollice sotto l’opera omnia di Robert Johnson e pari al Charley Patton di recente esplorato fin nelle minuzie, a Big Bill Broonzy, a Son House, a Blind Lemon Jefferson. Compendio mozzafiato di attestati di immortalità. Un’ottantina.
Il primo è Writin’ Paper Blues, registrato ad Atlanta con altri tre brani il 18 ottobre 1927. Poker di meraviglie, tappeti di accordi e arpeggi sui quali elegantissima danza una voce slanciata e nasale, timbro che rasenta il femmineo. Resterà la terza delle caratteristiche del nostro eroe, essendo la seconda la prodigiosa tecnica chitarristica – prestate orecchio al gioco della slide in Mama, ’Tain’t Long Fo’ Day; ascoltate in Atlanta Strut, una faccenda di due anni dopo, la magistrale mimesi operata di basso e corno, mandolino e trombone – e la prima la personalità spiccatissima che permea un repertorio nel quale i prestiti, che indubbiamente ci sono, risultano indistinguibili dagli originali, collante un autobiografismo che fa sì che sia il Mito a parlarci (esemplare l’epopea assai più tarda di The Dyin’ Crapshooter’s Blues, influenza diretta e visibile su Dylan) ma sempre e comunque un uomo, carne e ossa, sangue e sperma, e gioia, e dolore. Per la leggenda già ci saremmo, queste prime quattro canzoni (le restanti uno Stole Rider Blues in punta di dita e una Mr. McTell Got The Blues di quieta ipnosi) sufficienti a consegnarle il giovanotto, se anche non avesse più dato notizie di sé. Attendete. Il meglio deve venire.
È una casa discografica importante, la Victor, che ha pagato per queste quattro facciate, che vendono zero meno di zero meno di zero. Ci credereste? Sono talmente convinti da quelle parti del talento di questo giovanotto inusualmente colto e fieramente indipendente, mai minimamente limitato dalla menomazione fisica nel suo continuo girovagare suonando, che esattamente un anno dopo lo riconvocano e gliene fanno incidere altre quattro. Fra esse, un Dark Night Blues che preconizza Robert Johnson e quello Statesboro Blues già menzionato. Ne sono talmente innamorati che fan finta di niente quando l’anno dopo prende a registrare con un altro alias, Blind Sammie, per la Columbia e ugualmente ignoreranno alcune scappatelle, datate 1931 e come Georgia Bill, con la OKeh. Quasi quasi ci si dispiace per loro, oltre che per l’artista, gustando la secca e incalzante Love Changing Blues e interrogandosi su perché mai non riscosse il successo che avrebbe meritato. Si arrenderanno soltanto quando nel 1932, con l’industria sulle ginocchia per via del crollo in borsa di tre anni prima, la sensazionale accoppiata fra la malinconica Lonesome Day Blues e la birichina Searching The Desert For The Blues, entrambe a due voci con la bravissima Ruby Glaze (uno pseudonimo di Ruthy Kate, futura signora Williams), totalizzerà la miseria di centoventiquattro copie.
Sistemato in ordine cronologico, “The Classic Years” parte altissimo e resta a quote olimpiche, quando non ascende ulteriormente verso il cielo, Icaro che sfida gli dei. Nel secondo CD, diviso pressoché esattamente a metà fra le ultime sedute per Victor e OKeh e le prime per la ARC, del settembre 1933, capita nel duetto di dolcezza ammiccante con Ruth Willis di Experience Blues e in un Georgia Rag che è eufemistico dire frizzante, in una It’s A Good Little Thing che è un anticipo di rock’n’roll (vent’anni prima!), nell’adeguatamente minacciosa You Was Born To Die, in una Lord Have Mercy If You Please in cui per la prima volta balenano spiritual e gospel. Influenza nettamente più marcata – basti in tal senso citare titoli come Ain’t It Grand To Be A Christian, We Got To Meet Death One Day, God Don’t Like It e I Got Religion, I’m So Glad - in un terzo dischetto scisso fra 1933 e 1935, ARC e Decca. Astrale in quasi tutti i numeri sacrali e nell’accoratezza di Bell Street Lightnin’ e East St. Louis Blues, ma anche in una sublimemente sboccata Let Me Play With Yo’ Yo-Yo. Con tanti saluti alla bigotta dicotomia anima/corpo.
Negli otto anni della sua prima e in fondo unica carriera discografica, Blind Willie McTell ha saputo gestirsi bene, tenendo il piede in più case e strappando compensi cospicui (fino a cento dollari a pezzo in un’epoca in cui non si è ancora affermato il concetto del diritto d’autore) a dispetto di prestazioni commerciali di nessuna rilevanza. Che sia fra le vittime della Grande Depressione rientra nel naturale ordine delle cose. Quando John Lomax nel 1940 lo registra per la Library Of Congress – incisioni recuperate in toto nel quarto e ultimo CD di “The Classic Years” (ascoltate Delia e ditemi se là dentro, da qualche parte, già non si aggira Elvis) – e gli allunga un deca si indigna e decide che mai più. Ci ripensa una prima volta a fine decennio, quando arriva un’offerta dalla neonata Atlantic. Ahmet Ertegun è un suo fan e tantopiù ci si stupisce dunque che dei quindici brani registrati solamente due vengano pubblicati e il resto debba attendere il 1972 e il postumo e capitale “Atlanta Twelve String”. Ci ripensa una seconda volta nel 1956 ed è una seduta assai inusuale. Al tempo si è ridotto a campare suonando per strada, perlopiù intrattenendo le coppie che si appartano nel parcheggio di un club nella solita Atlanta. Il proprietario di un negozio di dischi lo corteggia. Gli andrebbe di incidere qualcosa? Dice sempre no, fino a un giorno dell’autunno 1956. Gli allungano una bottiglia di whiskey e lui fra i clienti stupiti per tre quarti d’ora canta e racconta. Tutto quanto finirà in “Last Session”, casualissimo capolavoro immane nella festosa Baby, It Must Be Love come nella tagliente That Will Never Happen No More, nella stentorea A To Z Blues piuttosto che in una Wabash Cannonball che ha il respiro del Woody Guthrie migliore. Scolata la bottiglia, se ne va. Lo stesso Edward Rhodes, che l’ha registrato, si dimenticherà di quel nastro fino al giorno in cui verrà a sapere della morte del Nostro e allora miracolosamente lo recupererà, fra scatoloni sopravvissuti a più di un repulisti da trasloco. Sugli anni dal 1956 al 1959 esistono versioni contrapposte. Secondo una, si era lasciato alle spalle il blues, era diventato pastore di una chiesa locale e fu stroncato da un ictus. Secondo l’altra, non resistendo al dolore per l’improvvisa scomparsa della seconda moglie, Helen Edwards, si diede all’alcool e al fatale abbraccio soccombette.

“C’è una donna laggiù al fiume/con un bel giovane/vestito da nobile/whiskey di contrabbando in mano./C’è una fila di detenuti per strada/posso sentirne le grida ribelli/e so che nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell./Dio sta su in cielo/e noi tutti vogliamo ciò che è suo/ma oltre a potere, avarizia e seme mortale/sembra non ci sia altro./Guardo dalla finestra/ del St. James Hotel/e so che nessuno canta il blues/come Blind Willie McTell.”

© Tuttle Edizioni 2008
Tag: Scritti nell'Anima
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