House Music
House music
Autore: Christian ZingalesPREZZO: 14,00€
"House Music 1985-2005" ripercorre nomi, suoni ed estetiche di venti anni di musica house, attraverso gli artisti e i dischi che ne hanno fatto la storia, dalle leggende agli artisti di culto da riscoprire, in un percorso che parte dalle origini del suono negli anni ’70, passa attraverso la nascita del genere a Chicago e la successiva esplosione planetaria, per arrivare nel ventunesimo secolo, a testimoniare l’inizio di una nuova fase e di un nuovo mondo.
"I Libri di Harry #4" [2005] • 260 pagine
Christian Zingales è nato a Cantù (Co) nel 1972. È giornalista musicale dal 1992 e dal 1998 scrive su Blow Up, rivista per cui si occupa del coordinamento redazionale. Collabora con XL, il mensile musicale di Repubblica. Nel 2002 ha pubblicato il manuale “Electronica” (Giunti), nel 2003 è stato tra i coordinatori e i collaboratori di “Rock e altre contaminazioni: 600 album fondamentali” (Tuttle Edizioni) e nel 2005 ha pubblicato “House Music 1985-2005” (Tuttle Edizioni).
“House Music 1985-2005” covers the names, sounds and aesthetics of twenty years of house music, through the artists and records that made the genre’s history. In this book the legends and cult icons of “house” are rediscovered. It starts with the origins of “house” sounds in the Seventies to the official birth of House Music in Chicago and the it’s explosion across the planet, ending with the first great signs of the 21st Century, testifying the start of a new beginning and of a new world.
"I Libri di Harry #4" [2005] • 260 pages
Christian Zingales was born in Cantù (Co) in 1972. He has been a music journalist since 1992, collaborating with different magazines and newspapers like La Provincia, Rumore, Tutto, Acid Jazz, Il Giornale della Musica and Rodeo. He has been writing for Blow Up since 1998. In 2002 he published “Electronica” (Giunti Editore) and in 2003 was one of the contributors and coordinators of “Rock e altre contaminazioni: 600 album fondamentali” for Tuttle Edizioni. In 2005 he published “House Music”.
Di seguito l'indice e un estratto dal primo capitolo del libro:
Introduzione
Capitolo 1: LE ORIGINI
Capitolo 2: HOUSE MUSIC 1985-2005
Capitolo 3: CHICAGO
Capitolo 4: NEW YORK
Capitolo 5: DETROIT
Capitolo 6: ITALIA
Capitolo 7: INGHILTERRA
Capitolo 8: FRANCIA
Capitolo 9: GERMANIA
Capitolo 10: RESTO DEL MONDO
Appendice 1: DISCOGRAFIA
Appendice 2: VITA MORTE MIRACOLI
Appendice 3: PASSATO PRESENTE FUTURO
Appendice 4: IN DA CLUB
New York: l’utopia
In una geografia mentale della musica dance il posto che spetta a New York è centrale. A lato le spinte eversive di Chicago e Detroit e in mezzo il luogo della tradizione mutante, dove vanno a intrecciarsi in modo compiuto edonismo e spiritualità. Nello specifico la house non esisterebbe come la conosciamo oggi senza New York. La rivoluzione house nasce a Chicago e finisce per riconoscere se stessa, per trovare un’identità nella grande mela, perdendo l’innocenza con la spregiudicata tecnica di campionamento di Todd Terry. È uno sguardo quello di New York sempre sgravato dal peso ammorbante della conservazione, anche nel suo alveo garage, dove le tradizioni soul, latin e disco dettano legge, uno sguardo sempre capace di disgregarsi nello stesso momento in cui si rivendica, per poi riformularsi e ritrovare negazione. Un percorso concentrico che avanza tra luci dai primi anni ’70, quando un ragazzo di Brooklyn appassionato di soul e funk, Lawrence Philpot, inizia la sua carriera nei club della città. La storia di Larry Levan - questo l’affusolato nome scelto come pseudonimo - è un concentrato di umanità e di passione. Il suo cammino è quello dell’uomo che vede la luce ma è costretto, quasi cinto da un’aura sacrificale, a cadere. Nell’87, subito dopo l’esperienza che segnerà la sua vita e quella della house music, quella del Paradise Garage, e nel preciso momento in cui le sue intuizioni stilistiche già erano maturate nell’house, il club londinese Ministry Of Sound lo chiama per tre giorni e lui rimarrà per tre mesi. Ma se la gloria in musica è sempre lì ad alleviarlo, la fatica non lo abbandona. Arriva infatti a Londra otto giorni dopo la data prefissata e con sé non ha neanche un disco. Alle domande di chi l’aveva invitato risponde candidamente di aver venduto tutti i dischi. Dopo anni di feroce dipendenza dalla cocaina Larry in quel periodo tira avanti sparandosi tonnellate di eroina. Puntualmente compra dischi nuovi e li rivende appena dopo averli suonati per assicurarsi dosi a sufficienza. Alcuni amici che capiscono l’andazzo altrettanto puntualmente vanno a ricomprare i dischi dove Larry li vende e glieli riportano. Larry li rivende, e gli amici desistono.
“Due mesi prima che Larry morisse, siamo andati in tour insieme in Giappone. Lui ha suonato un set di classici di Philadelfia che ricordo così struggente e così emotivo perché il messaggio di ciascuna di quelle canzoni era che stava veramente male. Noi lo capivamo in quel periodo, e penso che lui sapesse di stare morendo. Tutte le canzoni che suonava erano un riferimento continuo a come va la vita. Ha suonato Time Waits For No One di Jean Carne e Where Do We Go From Here dei Trammps e ho capito che era uno dei più bei momenti di grandezza a cui abbia potuto testimoniare in vita mia. Un momento così evidente, così splendido e drammatico, che potevi capire.”
(Francois Kevorkian su Larry Levan)
Lawrence Philpot, nato nel 1954, viene folgorato intorno ai 15 anni quando vede un vicino di casa armeggiare con un mixer. L’idea di un mezzo che possa prolungare la musica all’infinito lo segna. Inizia a mixare e viene incoraggiato da David Mancuso, DJ del Loft, a credere nelle proprie possibilità. Quasi subito ha il suo primo incarico in una discoteca. Nel 1971 un altro newyorchese, il giovane Frankie Knuckles, convince Nicky Siano, DJ e padrone del Gallery, locale dove soprattutto presta lavoro di manovalanza, ad affiancargli “un amico pazzo ma talentuoso”. Frankie e il ribattezzato Larry lavorano occupandosi delle luci e in generale coprendo lavori di fatica. Nelle serate più tranquille i due scodinzolano tra i culi dei danzatori corroborando con delle gocce d’acido lisergico le energetiche bevande alla frutta del bar. È la passione per la musica a bruciare i due però. La prima occasione per Larry di suonare da DJ arriva l’anno dopo, al Continental Baths, un’esperienza breve e costruttiva che lo traghetta al volo al Soho Place di Broadway: “Ho iniziato a lavorarci e presto è diventato così pieno di gente che avevo preso l’abitudine di aprire le finestre e sprigionare il suono nelle strade. Quando il club ha dovuto chiudere per problemi di capienza mi hanno pregato di non suonare da nessuna altra parte prima che aprisse il nuovo club”. E l’occasione di tradire quell’ambiente felicemente rodato arriva intorno a metà ’70. A Larry offrono il ruolo di DJ resident in un nuovo club di Chicago con grandi ambizioni, la Warehouse, creato in un grande capannone abbandonato. Non se la sente di tradire più che altro la sua natura da animale newyorchese e gira l’invito all’amico Frankie Knuckles. Frankie accetta la proposta e viene arruolato da quelli della Warehouse. Per Chicago è l’inizio dell’epopea house. A New York nel frattempo è pronto il club che rimpiazza il Soho Place. In parallelo alla Warehouse si tratta di un grosso garage abbandonato e riadattato. L’impianto viene messo a punto nei dettagli dallo stesso Levan e dal suo collaboratore Richard Long. Il locale apre nel ’76 all’84 di King Street. Il suo nome è Paradise Garage. Quattromila persone di capienza, dentro puoi mangiare frutta fresca e bere succhi analcolici (l’alcool è tassativamente vietato), guardare film, incontrare gente e rilassarti. Ma quello che impressiona dalle cronache sul Paradise Garage è la sacralità con cui se ne parla. Danny Tenaglia e Francois Kevorkian, due DJ cresciuti al Garage, ricordano come la fortuna del club sia stata la passione pura. Larry e l’entourage, diretto dal suo boyfriend Michael Brody, erano riusciti a creare una grande famiglia. Potevano entrare solo i tesserati, e ogni settimana duemila persone si ritrovavano per passare quelli che sarebbero diventati tra i migliori momenti delle loro vite. David De Pino, DJ e migliore amico di Larry dice che “era come trovarsi sull’arcobaleno”. L’immagine che ci arriva dalle cronache è quella del club perfetto, scena di perfetti momenti di celebrazione. Una scena creata grazie al calore di tutti quelli che lavorano nel club, da Larry (tanto appassionato che una volta smise di mettere dischi per pulire personalmente le palle di vetro che non luccicavano come avrebbero dovuto, o che mentre andava un disco scendeva in mezzo alla gente a ballare) fino all’ultimo buttafuori. Un ambiente familiare dove l’unica cosa che contava era la possibilità di raggiungere un clima di estasi e di comunione. Su duemila persone mille si conoscevano per nome. Il locale teneva aperto fino a quando non se n’era andata l’ultima persona, fosse stata anche la sera dopo, e una volta raggiunto questo tipo di successo, da rimandare più alla sfera umana che non a quella economica, la politica era di evitare ogni tipo di pubblicità e di custodire gelosamente quel tesoro, quel paradiso terrestre dove Mick Jagger, Grace Jones, Keith Haring e Diana Ross ballavano fianco a fianco con tanti uomini della strada. Un club basato sulla musica, in contrasto con altri club come lo Studio 54, più artificioso fin dall’arredamento, dove si andava a guardare e a farsi guardare. Quello che contava al Paradise era il party e non i soldi. La portata rivoluzionaria si giocava poi su un piano socio-musicale. Nel ’76 la Salsoul pubblica quello che è da ricordare come il primo 12 pollici dell’industria musicale, Ten Percent di Double Exposure nella versione remixata da Walter Gibbons, il quale trasforma il pezzo in un colosso di 11 minuti che con i suoi ritmi ripetitivi diventa il prototipo della nuova musica da club. Quello è anche il momento in cui si afferma la figura del DJ - e di un unico DJ per club - dopo che molti locali da ballo avevano basato le loro insonorizzazioni su materiale registrato. Questo apporto di umanità - di feticistica umanizzazione della meccanizzazione - era accompagnato da una grande svolta a livello sociale. Per la prima volta si mescolavano pacificamente in un locale razze e sessualità diverse. Bianchi, neri, ispanici, eterosessuali, gay, sadomaso ipnotizzati da una sola luce, persi nel gioco dell’unità. “Molti prendevano droghe per amplificare quell’esperienza, ma il club stesso era la più grande esperienza, senza alcolici e con un’atmosfera che non trovavi da nessun’altra parte. Era una comunità di cui sono stata fortunata di far parte” ricorda Tina Paul, vera e propria memoria storica del Paradise Garage, rappresentando il punto di vista di migliaia di altre persone. E il motore di tante estasi collettive non poteva essere che uno sguardo musicale nuovo. Levan approccia la musica con gli occhi giusti, quelli del bambino. Se un pezzo lo emoziona lo mette, non gli importa il genere, non ragiona per compartimenti stagni, segue solo il suo cuore. Il suo mixaggio è imperfetto ma sa far venire a galla le emotività più nascoste dei pezzi, sa creare accostamenti che ti toccano nel profondo. Sa raccontare per immagini sonore. Dicono che, essendo amore, speranza e libertà temi ricorrenti delle canzoni da lui suonate, se dopo una sequenza di pezzi generici doveva mettere un pezzo sulla libertà, lo precedeva da qualche secondo di silenzio. È ancora Tina a parlare: “Non ho mai sentito un altro DJ mixare come Larry, era sensazionale. Era geniale il modo in cui mixava rock’n’roll e dance. Capiva la musica nel profondo, la usava come linguaggio”. Se guardiamo gli archivi delle classiche canzoni del Paradise Garage nei suoi dieci anni di vita - sempre presieduti da Levan - possiamo tracciare un DJ set ideale e rappresentativo dove pulsano in un grande caleidoscopio Bohannon (Let’s Start The Dance) e Cat Stevens (Was Dog A Doughnut), Grace Jones (La Via En Rose) e Marianne Faithfull (Why Did You Do It), Kraftwerk (Trans Europe Express) e Loleatta Holloway (Love Sensation), Giorgio Moroder (I Wanna Rock You) e Ian Dury (Hit Me With Your Rhythm Stick), Candido (Jingo) e Queen (Another One Bites The Dust), ESG (Moody) e Kate Bush (Running Up That Hill), Blondie (Rapture) e Donald Fagen (New Frontier), MFSB (Love Is The Message) e Talking Heads (Once In A Lifetime), Nina Hagen (Cosmic Shiva) e Mick Jagger (Lucky In Love), Yoko Ono (Walking On Thin Ice) e Quando Quango (Love Tempo). In pratica un incontro tra le più splendide stelle del suono nero tra disco e soul e i cosmi più luccicanti del pop, in una scena sempre percorsa dai nuovi standard elettronici. Larry è il primo a cogliere la spiritualità nuova di un pezzo come E2-E4 di Manuel Gottsching, una cosa apparentemente fuori contesto, e sarà il primo a suonare le cose di un pioniere dell’house di Chicago come Larry Heard, e a capire prima che diventasse tale l’allucinazione Madonna, i suoi occhi pronti a scorgere il sublime tra plastiche. Madonna si esibisce al Paradise Garage in una storica serata dei primi ’80. Affronta la folla annunciando “Questa è per voi figli di puttana!”, la gente applaude e batte i piedi e parte Holiday. Levan stesso inizia sul finire dei ’70 una carriera parallela di remixatore e produttore che sarà meno ricordata della sua attività da DJ ma che non avrà meno importanza. Dal ’79 ai primissimi ’90 remixa moltissimo, dando il suo tocco a molte delle cose più classiche di etichette cruciali nell’evoluzione del suono newyorchese come la Salsoul, la West End, la Prelude. Nell’82 produce con la supervisione di Sly And Robbie la seminale Don’t Make Me Wait dei Peech Boys, introducendo tecniche dub in una produzione dance, portando a compimento quel percorso di sperimentazione sul corpo dance iniziato anni prima da Walter Gibbons. È un vero periodo d’oro per Larry fino alla metà degli ’80. Ma nessun mixer può prolungare la musica in eterno. Michael Brody si ammala di AIDS e il 27 settembre del 1987 (in una serata indimenticabile con la madre di Larry in lacrime che abbraccia la gente del club dicendo “il Paradise è morto, dove andremo ora?”) il Paradise Garage chiude i battenti, dieci anni abbondanti dopo l’apertura. Larry è allo sbando.Venuta a mancare quell’illusione di calore spinge l’acceleratore sull’abuso di droghe. Da un lato è una superstar e viene coperto d’oro in lunghe tournèe in Inghilterra e in Giappone, dall’altro è un uomo sempre più solo. La dissolutezza e l’abbandono diventano importanti. In un locale lo trovano addormentato sotto il mixer, riverso nel suo vomito. A metà ’92 s’imbarca in un tour giapponese con Francois Kevorkian. Prima di partire dice alla madre di sentire di avere poco tempo da vivere, massimo sei mesi. Quattro mesi dopo, l’8 novembre muore per la degenerazione di un’endocardite, un’infiammazione cardiaca provocata dagli abusi. Al funerale si contano 758 persone, di cui 150 parenti, il resto la gente del Paradise Garage.
La rivoluzione del Garage e della Warehouse di Chicago trovano fondamenta in un’altra utopia newyorchese, quella del Loft di David Mancuso, frequentato da Levan e da Knuckles prima che lasciasse la città. Il nome non era stato scelto a caso. Mancuso ogni sabato sera organizzava party nel suo accogliente appartamento di Soho al 99 di Prince Street. Centinaia di palloncini colorati, cibo e succhi di frutta per tutti, nessun alcolico. Solo inviti. Circa 500 ogni settimana. Un sound system, griffato Paul Klipsch per l’impianto, Mark Levinson per gli amplificatori, Mitchell Cotter per i piatti e Koestu per le testine del giradischi fatte a mano, ritenuto tra i migliori mai assemblati. David mixava rigorosamente senza cuffie e senza mixer, semplicemente esibendo nella loro nuda flagranza i pezzi. Uno dopo l’altro. Il giornalista Steven Harvey, in un articolo su Mancuso scritto nel 1983 per Collusion Magazine, dice di averlo intervistato mentre insieme alla moglie cucinava un barbecue in Prince Street. Gli ospiti andavano e venivano e l’atmosfera era molto rilassata. Un clima con un che di anni ’60, puntualizza Harvey. Mancuso racconta nell’intervista di essere orfano e di aver ricreato con il Loft un clima familiare che gli permette di vivere “un weekend che parte il mercoledì sera e finisce il mercoledì dopo”. E la poetica di Mancuso e del Loft era molto influenzata dalla cultura hippy: un inno come Love Is The Message di M.F.S.B. veniva suonato a fianco al Van Morrison di “Astral Weeks”. Le selezioni, rispetto a quelle di Levan al Garage, erano se si vuole più conservatrici e attaccate a un ideale di classicità, tanta cultura black, afro, funk e soul, senza ignorare però le le propaggini più radicali della nuova dance. Pochissime le concessioni al glam, al pop o a qualsiasi altro alleggerimento di forma. È il Loft, una casa, il posto dove inizia a delinearsi l’idea stessa di house...
© Tuttle Edizioni 2008
TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000