Il Liscio
Il liscio
Autore: Federico SaviniPREZZO: 12,00€
Il Liscio. Antropologia musicale dei romagnoli a ritmo di zum-pa-pà
Director's Cut #22 (aprile 2021) • 160 pagine b/n • 12,00 euro
Il liscio romagnolo è la pecora nera della musica italiana. Identitario e cialtronesco in egual misura, questo genere profondamente provinciale e orgogliosamente superato ha formato migliaia di musicisti, edificato un'industria del divertimento, sonorizzato le vacanze di tutti gli italiani e liberato l'estro di un intero popolo. Come ha fatto? Semplice: facendo ballare la gente, senza lasciare indietro nessuno. La storia del liscio - dalle danze contadine agli eccessi del boom, fino al rilancio "bello e straniero" degli ultimi anni - attraversa tre secoli di slanci e nostalgie, di purezza e di mercato, di finte tradizioni e appassionate falsità. E risuona ancora nelle orecchie di chi con il valzer, la polka e la mazurka ci costruiva i sogni.
Federico Savini, classe 1977, vive da sempre da Russi, centro della Romagna conosciuta. Laureato in filosofia della scienza e per anni fiero lavoratore dell'industria saccarifera, è appassionato di mondi preteriti (ma non è con questo che paga le bollette). Nel 2004 ha co-fondato il podcast Radio NK, il più antico e meno chiacchierato d'Italia. Imbratta le pagine di Blow Up dal 2005, divagando su facezie musicali che non interessano agli altri, e dallo stesso anno scrive sul settimanale romagnolo Settesere, occupandosi di tutto ma facendo principalmente il redattore delle pagine degli spettacoli e delle tradizioni. Quando ascolta la musica country piange un po'.
[di seguito parte dell'Introduzione]
[...] Inutile negare che si trattò di un azzardo. Il liscio era (e forse resta) la musica più bistrattata in assoluto fra quelle italiane che vengono annoverate nel disordinato calderone della “tradizione”. Il suo carattere irrisolvibilmente “bastardo”, la natura per lo meno dubbia della sua origine folklorica, l’assenza di figure che ne abbiano espanso in senso “piazzolliano” le possibilità espressive o che ne abbiano veicolato nel presente il fascino antico (sul modello taranta), nonché il plateale sputtanamento commerciale incorso dagli anni ’80 in avanti hanno concorso a fare del liscio la pecora nera della musica italiana.
Ricordo bene che alla timida mail di proposta che inviai al direttore nel settembre del 2012, non senza qualche tentennamento, seguì una risposta subitanea. Che non era il licenziamento, ma un entusiasmo così verace da suonare un po’ folle! Blow Up non aveva mai mancato di suscitare polemiche sul carattere particolarmente “liberale” della propria linea editoriale, nella quale slanci arditi nei reami para-accademici convivono con visionarie esegesi sui cascami pop dello stardom più sfacciato. Però una cosa seria sul liscio - lo sottolineo: “una cosa seria e approfonditissima”, fu l’unico diktat che pervenne dalla direzione - non l’aveva mai tentata nessuno. Per lo meno su una rivista musicale; una rivista “rock”, avremmo detto un tempo.
Banalmente, avevo scoperto che la storia del liscio era interessante. Punto. Non era una musica “veramente” popolare e ricostruirne le vicende era possibile solo per un romagnolo, che almeno un po’ avesse “odorato” quel mondo (nel mio caso non c’era alcun retaggio da balera, ma di Feste dell’Unità degli anni ’80 con l’orchestra in scena giorno e notte me ne sono sciroppate parecchie…). Se non altro perché di fonti di informazioni, sic et simpliciter, non ce n’erano.
O almeno non ce n’erano prima che Franco Dell’Amore e l’appassionato collezionista Gianni Siroli cominciassero a documentare, classificare e dare un ordine a quell’ammasso di cartellonistica vintage, borderò della Siae, cartoline consunte di balere chiuse da anni, ridicoli vestiti di scena e persino fanzine autoprodotte dalle orchestre che tutto insieme costituiva un tesoro sgangherato ma irresistibilmente sexy per chiunque goda nel ravanare fra i capitoli preteriti della storia della musica.
Se ne poteva parlare a un pubblico nuovo, insomma. Ma sapevamo anche che molti lettori avevano comprensibili pregiudizi nel merito. Remore riconducibili all’età (il liscio si macchiò a lungo di una retorica e di una sovraesposizione davvero sfiancante, giusto gli under 50 possono guardarlo oggi con bonaria tolleranza), ma dovute anche a percezioni approssimative di una vicenda musicale più ricca e sfaccettata di quanto i più non sospettassero. Era, insomma, non tanto “ai giovani” quanto ai divoratori di dischi che Blow Up scelse di sottoporre la mirabiliosa e scalcagnata storia del liscio romagnolo; offrendole una nuova opportunità.
In Romagna, a dire il vero, in certi ambienti nessuno aveva mai smesso di confrontarsi animatamente sul liscio, e in particolare sul suo futuro, dal quale dipendevano e dipendono centinaia di famiglie (siamo un popolo pragmatico e la dimensione “industriale” di una musica che ha creato un preciso e redditizio indotto ne ha influenzato eccome le derive per così dire “artistiche”). Nella cerchia degli appassionati true, che va restringendosi ma fa sempre una certa cagnara, le polemiche montano di continuo su argomenti e spigolature deliziose, precluse al resto del mondo musicale: dall’obbrobrio dei concerti in playback fino alla ricetta magica per alternare nel giusto ordine valzer e mazurke, per tacere dell’ultima spiaggia che prevedeva l’organizzazione della settimana in balera studiata in modo che il massimo introito corrispondesse al “mercoledì delle badanti”…
Questo era lo scenario prima che, nel 2013, irrompesse in questo piccolo mondo antico il Ravenna Festival, kermesse culturale di rilievo internazionale, organizzata da Cristina Muti con abbondante presenza del marito Riccardo, che venne dedicata alla musica popolare e in sostanza al liscio, con numerosi eventi in collaborazione con Casadei Sonora e in tributo a Secondo Casadei, la figura più illustre e influente della musica da ballo romagnola. Pronto a entrare nel pantheon della musica colta a 42 anni dalla morte. [...]
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