Oh Christ!. Volti di Gesù nella canzone americana: scorci e deviazioni teologiche
Director's Cut #35 (luglio/agosto 2024) • 132 pagine b/n • 13,00 euro
La figura di Cristo attraversa in lungo e in largo la cultura americana, a volte forzatamente al centro, a volte altrettanto forzatamente ai margini. Eccovi quattro percorsi, a mo' di sondaggio, che cercano di scrutare il volto di Gesù nella canzone rock , che di quella cultura è una delle forme più tipiche, attraverso alcuni dei suoi protagonisti: dai precursori cantanti blues dell'anteguerra al Nobel Bob Dylan, che da quella tradizione è partito, da un inatteso Lou Reed mistico all'ultimo struggente Johnny Cash. L'attenzione sarà data soprattutto ai testi e - come suggerisce nell'invito alla lettura Matteo Moca - agli spazi vuoti che li attraversano.
► Girolamo Dal Maso (Vicenza, 1967) si occupa - a partire dal suo interesse per il Seicento - degli intrighi fra teologia e arte, studio della marginalità e moderne scienze del linguaggio. Scrive su Blow Up e ha pubblicato, oltre che ad articoli su Bach, Couperin, Buxtehude e Bernini, “Dieu seul. Scrittura mistica e teologia in S. Louis-Marie Grignion de Montfort” e “Selvaggi. Grazia e disgrazia nei romanzi di Flannery O'Connor”. Vive a Napoli da oltre 20 anni.
[di seguito una parte del primo capitolo]
1. Personal Jesus: la fede nell’ultimo Cash
C’è una poesia di Mariangela Gualtieri – Preghiera a sua madre perché muoia – che ha dei versi toccanti e lucidi, di dolente pietà, sulla vecchiaia: “Gesù non sa niente di questo / essere vecchi – non sa / lo spavento lungo e un martirio al rallentatore” (M. Gualtieri, “Le giovani parole”, Torino 2015, 46-47). Anche Johnny Cash ha avuto a che fare con la vecchiaia, la sua stessa vecchiaia, sopravvissuto a sé stesso e rinato chissà quante volte. “Un martirio al rallentatore”: potrebbe essere un commento alla struggente versione di Hurt, nell’ultimo disco da lui pubblicato in vita, una delle più straordinarie cover dell’intera storia del rock. Ci sono musicisti che sono bravissimi nel coverizzare pezzi altrui, che riescono a essere se stessi pur rispettando in qualche modo l’originale. Mi vengono in mente i Thin White Rope e Caetano Veloso. Johnny Cash, l’ultimo Johnny Cash, è sicuramente tra questi. Le versioni sparpagliate nell’ultima fase della sua produzione, quella per l’American Recordings con Rick Rubin, sono un percorso di una omogeneità (per lo stile) e di una varietà (per gli originali scelti) che non smette di stupire anche dopo svariati ascolti. Hurt non parla di Gesù, ma Cash, in qualche modo, la rende cristologica. La sua versione ha una “vibrazione” cristologica. Ritornando ai versi della Gualtieri, possiamo sentire o intuire nella sofferenza cantata da Cash, la sua propria sofferenza, ma – insieme – quella di tanti poveri cristi (a partire da quella di Trent Reznor) e anche quella di Cristo che soffre sulla croce e, attraverso Cash, arriva fino alla vecchiaia. Fabio Cerbone ha messo in evidenza questo tratto, evidenziando (alla fine) il passaggio dal racconto alla fede: “The Man Comes Around raccontava la lotta dello spirito umano per sopravvivere, ma anche l’accettazione della decadenza, senza nessuna vergogna di mostrarla. Un brano in particolare, Hurt, metteva a nudo la sua esistenza. Veniva apparentemente da lontano, da un mondo musicale, quello di Trent Reznor, che l’aveva scritta, e del suo gruppo, i Nine Inch Nails, che nessuno avrebbe mai scommesso Johnny potesse dominare. Eppure, come sempre, l’aveva piegata alla sua voce, l’aveva fatta sanguinare. Parlava del dolore che avevi procurato a te stesso e di quello che avresti trasmesso anche a chi ti stava attorno, per colpa dei tuoi errori e delle tue meschine dipendenze. Hurt sarebbe divenuta l’allegoria della sua vita, della sua malattia, della sua morte e di una fede profonda che all’ultimo momento lo avrebbe sostenuto, anche quando June, l’amata June (…) lo aveva lasciato prima del tempo.” (F. Cerbone, “Fuorilegge d’America”, Selene, Milano 2007).
Nella versione di Cash, Hurt non è solo una canzone di dolore ma anche, e forse soprattutto, una canzone di fede, che è un modo per (sop)portare il dolore, di caricarsi della croce, propria e altrui. Così è pure per l’ultimo disco dell’Uomo in Nero, “The Man Comes Around”, uno di quei dischi che sono semplicemente “belli”. Li si può analizzare da mille punti di vista, ma ogni discorso non potrà mai rendere pienamente ragione della bellezza che vi si trova. Che genere di bellezza? Già a partire dalla grafica del disco gli spunti non mancano, con quell’essenziale bianco e nero, che non si capisce se mette al centro il nero dello sfondo o il bianco del nome (“CASH”). Il volto pensoso del vecchio leggermente chinato in avanti sembra essere assorbito da quello stesso nero che lo circonda e di cui, in qualche modo, è nello stesso tempo fatto (“This thing of darkness I aknowledge mine” come il Prospero de “La Tempesta” nei confronti di Calibano; W. Shakespeare, “The Tempest”, Act V Scene 1). Nei toni del grigio del ritratto, il bianco e il nero si confondono, mentre si contrastano nel titolo (figura/sfondo). Johnny Cash non ha paura di ostendersi per quello che è, non l’ha mai fatto, non si è mai tirato indietro, nella buona come nella cattiva sorte. La vecchiaia fa parte della buona o della cattiva? Ciò che mi ha sempre colpito nell’ultimo Cash, in quello vecchio, ormai vicino alla morte, è la voce, quella sua voce una volta così potente e decisa, ormai quasi sfatta, tremolante. Non indecisa, ma provata, segnata da tutta una vita, che in realtà potrebbero essere molte vite, più di una, vissute fino in fondo da un solo uomo. Per un cantante la voce non è solo uno strumento, e la straordinaria intuizione di Rubin è stata quella di ridurre all’osso tutto l’apparato musicale per mettere al centro la voce, Johnny Cash nella sua voce, le sue canzoni nella sua voce, l’America tutta nella sua voce. E ora, alla fine, questa voce è tremolante. [...]
Prezzo: 13 €