Rockabilly. Gioventù, ritmo e sesso
Director's Cut #29 (gennaio 2023) • 132 pagine b/n • 13,00 euro
Fu rivoluzionario nello stile e nel suono, battezzò l’estetica del ‘ribelle senza causa’, fornì il modello-base a cui tutti si sarebbero ispirati per tornare alle radici più autentiche del rock. Fu un fenomeno che coinvolse pochi grandissimi nomi e una miriade di carneadi da un singolo e via. Durò lo spazio di tre o quattro anni ma la sua influenza è ancora oggi evidentissima, se non nel suono, nella way of life di chiunque abbia diciotto anni, imbracci una chitarra e senta pulsare il ritmo nel sangue. Si chiamava rockabilly.
“È qui che il punk rock iniziò. Selvaggio, pericoloso, fuori dagli schemi, stravolto, fradicio d’eco, saturo di rabbia adolescenziale e umido di brillantina. E certo, rifinito con alcuni dei migliori guitar breaks mai registrati. Ragazzi bianchi che parlano di sesso, ribellione e rock’n’roll”. [James Austin]
► Stefano Isidoro Bianchi (Cortona, 1961) è direttore della rivista Blow Up. Ha pubblicato Post Rock e oltre: introduzione alle musiche del nuovo millennio (con Eddy Cilìa, Giunti 1999), Prewar Folk: The Old, Weird America (1900-1940) (Tuttle Edizioni 2007), Suicide (Tuttle 2017), The Red Crayola (Tuttle 2018), Bruce Springsteen (Tuttle 2019) e Spacemen 3 (Tuttle 2021) e ha curato Rock e altre contaminazioni (Tuttle 2003) e The Desert Island Records (Tuttle 2009). Nel 2004 ha partecipato al convegno internazionale “Nuovo e Utile”, i cui atti sono stati pubblicati nel volume La creatività a più voci, a cura di Annamaria Testa (Laterza, 2005).
[di seguito l'Introduzione]
Una domenica a Memphis, Tennessee
Era una domenica pomeriggio caldissima e senza un filo di vento ma almeno l’afa non ci opprimeva. Il parco era piccolo, pulito, ben tenuto. In quell’angolino i tre neri, tutti robusti e piuttosto attempati, suonavano con grinta un onesto blues mediamente ritmato e schitarrato davanti a una trentina di persone. Il ragazzino, bianco e biondissimo, all’incirca undici-dodici anni, stava lì davanti a loro, primo della piccola folla, con gli occhi fissi e una tromba più grande di lui tra le mani. Mi divertivo a guardarlo immaginando cosa stesse pensando quando d’un tratto, nel mezzo di una specie di jam, il massiccio cantante aprì un mezzo sorriso, lo guardò, fece segno con la testa e l’occhiolino e si spostò di lato facendogli spazio. Il ragazzino saltò come una molla, si posizionò davanti a quel microfono troppo alto, puntò lo strumento e fece il suo assolo. Tre note in fila per cinque o sei secondi, non di più, poi tornò indietro dalla madre, lei lo abbracciò e lui si rimise a guardare con gli occhi sgranati, una gioia pura sulle labbra e un po’ di rossore alle guance. Riuscii a fare una foto; è uno dei ricordi più belli che ho di Memphis, Tennessee, ottobre 1993.
Elvis me l’immagino così, a osservare ogni piccola mossa e ogni minimo gesto di musicisti neri che suonano, a desiderare quasi fisicamente di farsi possedere da loro per impararne i segreti, e loro felici e paterni a concedersi con un sorriso. I neri, i bianchi, il caldo. Memphis. La Sun Records. La sede della Sun Records, ecco un’altra foto a immortalare il ricordo doloroso di vederla ridotta a capannone semiabbandonato e non credere a quello che mi dicevano gli occhi. Il rockabilly. “We’re gonna rock this town, rock it inside out / We’re gonna rock this town, make ‘em scream and shout”. “Ribalteremo questa città, la ribalteremo da cima a fondo / Ribalteremo questa città, la faremo urlare e gridare”. E Graceland, dove religiosamente mi recai il giorno seguente uscendone con la stessa espressione che avevo visto negli occhi di quel ragazzino.
Mi avvicinai al rockabilly qualche decennio fa – diciamo poco più di quattro – per colpa dei Cramps, che amavo come poche altre band nella mia vita. Per me si trattava di un gruppo new wave come tutti gli altri che mi avevano già fulminato l’esistenza, ma un giorno lessi – forse su Musica 80 – che facevano psychobilly, cioè una versione malata e dissonante di questo rockabilly che peraltro non avevo idea di cosa fosse. Allora comprai un paio di compilation a tema, cercai di informarmi meglio sulle riviste e indagai tra i dischi della radio in cui trasmettevo. Senza però arrivare a capo di nulla: mi sembrava che quello che veniva definito in quel modo altro non fosse che rock’n’roll, e che i due termini tendessero a essere confusi e sovrapposti anche nelle parole dei critici; tanto Elvis Presley che gli Stray Cats, eroi del ‘nuovo rockabilly’ che all’epoca andavano alla grande ed erano più vicini a me per età e sensibilità, mi sembravano solo rock’n’roll. Per qualche tempo tutto rimase avvolto nella nebbia, ma almeno una cosa la capii rapidamente: le canzoni che venivano considerate rockabilly potevano essere definite anche rock’n’roll, ma non tutte quelle che erano rock’n’roll potevano essere definite rockabilly. Quindi il rock’n’roll doveva essere una specie di ombrello sotto il quale stava anche il rockabilly, presumibilmente assieme a qualcos’altro. Già, ma come distinguerli?
Ci vollero un po’ d’esperienza, molti ascolti e qualche ricerca in più per comprendere meglio come funzionava tutta la faccenda. Alla fine mi resi conto che i pezzi rock’n’roll che preferivo erano proprio quelli che rientravano nel ‘genere rockabilly’, mentre gli altri mi piacevano, sì, ma alle mie orecchie suonavano più vecchi e datati. È possibile che fosse l’influenza esercitata dagli Stray Cats, dato che erano ragazzi come me, mi piacevano da matti e in definitiva mi dettero l’imprinting. Più probabile però, alla luce di quello che ho amato nel corso della mia vita, che fosse quel suono così secco, così ossuto e così interamente e solamente e irresistibilmente ritmo ritmo ritmo a catturarmi e ipnotizzarmi. Da allora io sono sempre stato dalla parte dei billies e lo sono tuttora: per la loro stringatezza rispetto al grasso che trasuda dai rockers, per quel quid di agreste che li caratterizza rispetto all’urbanità degli altri. E poi, ma certo, anche per quel minoritarismo e quella marginalità alquanto teppistica che ne fanno qualcosa di più underground e ispido rispetto a qualunque altra declinazione del r’n’r.
Prezzo: 13 €