WES ANDERSON
WES ANDERSON
Roberto Curti
Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore, il nuovo film di WES ANDERSON
ALL’EPOCA DI Rushmore e I Tenenbaum molti avevano accolto Wes Anderson come un nuovo idolo chic per critici e masse elette: salvo storcere il naso davanti ai film successivi, non tanto perché troppo simili l’un l’altro, ma piuttosto per l’evidente e cocciuta scelta del regista di rinchiudersi sempre più nelle sue fisse formaliste, con un incaponimento a tratti imbarazzante. Perché quello di Anderson è un cinema privato e addirittura scontroso, che enfatizza l’autoconsapevolezza (per i detrattori, l’autocompiacimento) formale a mo’ di coperta di Linus, o se vogliamo di barriera ben visibile da contrapporre tra sé e il pubblico, necessario contrappunto alla nudità disarmante dei temi messi in campo, alla stessa maniera in cui l’umorismo freddo e a tratti sgradevole fa da sordina alla naturale tendenza al tragico. Un cinema autistico, come lo sono in maniera più o meno esplicita molti alter ego del regista (su tutti il quasi-autoritratto di Dudley, il ragazzo studiato da Bill Murray ne I Tenenbaum).
Con 45 milioni di dollari guadagnati negli Usa nella stagione estiva, Moonrise Kingdom è stato accolto, a sorpresa, decisamente meglio dei lavori precedenti, i cui incassi erano andati rovinosamente in calando – dai 52 milioni di I Tenenbaum, a fronte di un budget di 21, ai 24 di Le avventure acquatiche di Steve Zissou (che ne era costati 50…) ai 12 scarsi di Il treno per il Darjeeling, fino ai 20 di The Fantastic Mr. Fox (flop ancor più cocente, trattandosi di un film d’animazione, perdipiù costosissimo). Eppure non rappresenta, almeno in apparenza, una svolta rispetto ai film passati. Si vedano le sequenze iniziali, in cui la cinepresa si muove nella casa della famiglia Bishop in una serie di perfette carrellate, isolandone i membri nei vari ambienti dell’edificio e mostrandone le abitudini e le reciproche relazioni attraverso la ripetizione ossessiva di traiettorie prima laterali, in un senso e nell’altro, quindi verticali, poi in profondità, come in una (autistica, appunto) coazione a ripetere uno schema ritmico/visivo noto solo a chi sta dietro alla cinepresa: parrebbe il prodromo a un’ulteriore chiusura a riccio, con un’ossessione formale mai così totalizzante. Ma è proprio questa ouverture a segnalare che, in realtà, Moonrise Kingdom è qualcosa di più del solito film “alla Anderson”. [...]
…segue per 3 pagine nel numero 175 di Blow Up [speciale 196 pagine], in edicola nel mese di Dicembre 2012 al costo di 8 euro.
• Se non lo trovate in edicola potete ordinarlo direttamente dal nostro sito (BU#175) al costo di 10 euro - spese postali incluse - e vi verrà spedito immediatamente via posta prioritaria. Se lo richiedete dopo il mese di riferimento dell’uscita vi verrà spedito, come ogni altro arretrato, con l’invio mensile di abbonamenti e arretrati.
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
ALL’EPOCA DI Rushmore e I Tenenbaum molti avevano accolto Wes Anderson come un nuovo idolo chic per critici e masse elette: salvo storcere il naso davanti ai film successivi, non tanto perché troppo simili l’un l’altro, ma piuttosto per l’evidente e cocciuta scelta del regista di rinchiudersi sempre più nelle sue fisse formaliste, con un incaponimento a tratti imbarazzante. Perché quello di Anderson è un cinema privato e addirittura scontroso, che enfatizza l’autoconsapevolezza (per i detrattori, l’autocompiacimento) formale a mo’ di coperta di Linus, o se vogliamo di barriera ben visibile da contrapporre tra sé e il pubblico, necessario contrappunto alla nudità disarmante dei temi messi in campo, alla stessa maniera in cui l’umorismo freddo e a tratti sgradevole fa da sordina alla naturale tendenza al tragico. Un cinema autistico, come lo sono in maniera più o meno esplicita molti alter ego del regista (su tutti il quasi-autoritratto di Dudley, il ragazzo studiato da Bill Murray ne I Tenenbaum).
Con 45 milioni di dollari guadagnati negli Usa nella stagione estiva, Moonrise Kingdom è stato accolto, a sorpresa, decisamente meglio dei lavori precedenti, i cui incassi erano andati rovinosamente in calando – dai 52 milioni di I Tenenbaum, a fronte di un budget di 21, ai 24 di Le avventure acquatiche di Steve Zissou (che ne era costati 50…) ai 12 scarsi di Il treno per il Darjeeling, fino ai 20 di The Fantastic Mr. Fox (flop ancor più cocente, trattandosi di un film d’animazione, perdipiù costosissimo). Eppure non rappresenta, almeno in apparenza, una svolta rispetto ai film passati. Si vedano le sequenze iniziali, in cui la cinepresa si muove nella casa della famiglia Bishop in una serie di perfette carrellate, isolandone i membri nei vari ambienti dell’edificio e mostrandone le abitudini e le reciproche relazioni attraverso la ripetizione ossessiva di traiettorie prima laterali, in un senso e nell’altro, quindi verticali, poi in profondità, come in una (autistica, appunto) coazione a ripetere uno schema ritmico/visivo noto solo a chi sta dietro alla cinepresa: parrebbe il prodromo a un’ulteriore chiusura a riccio, con un’ossessione formale mai così totalizzante. Ma è proprio questa ouverture a segnalare che, in realtà, Moonrise Kingdom è qualcosa di più del solito film “alla Anderson”. [...]
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000