TRICKY
TRICKY
di Christian Zingales, Stefano I. Bianchi, Eddy Cilìa

Dub’n’Blues e altre fogne
di Christian Zingales

INTRO
Il dub è una sorta di stagnazione blues. Musica della profondità massima, trasfigurazione psichedelica dei passi della musica nera, idilliaca sospensione. La sua forma sgraziata e compatta, la sua pulsante natura di suono insieme avveniristico e quanto mai legato alle radici, ne hanno fatto una delle influenze principali della musica degli ultimi venti anni. Soprattutto nelle strutture sonore, sempre più dense e compatte, e nel metodo produttivo. Basta vedere l’importanza che riveste l’uso del banco del mixer nei lavori techno della scuola Basic Channel/Chain Reaction, o in molta house recente. Quadri sonori fissi esplorati nelle mutazioni cromatiche, nei micro-dettagli.
Un suono, il dub, dalla notevole componente allucinatoria, capace di dilatare la percezione con le sue pulsazioni che richiamano il cuore/la terra/l’utero, con i suoi movimenti puntuali, inesorabili, che ai bianchi possono sembrare buffi tanto sono puri.
Proprio dei bianchi, degli inglesi, ebbero la felice intuizione di sposare la forza del dub a una musica rock, nello specifico ai vomiti del dopo-punk. I primi PIL, Londra, quelli degli epocali primi due album con Jah Wobble al basso, e Mark Stewart, Bristol.
Nei primi la fusione assume i toni di una perfezione assoluta. Si pensi a Metal Box (‘79), dove la cadenza ipnotica del dub amplifica il senso di spleen e i toni desolati che contraddistinguono il lavoro, proiettandoli dritti al centro del sistema nervoso.
Nel secondo vengono operate le tecniche dub, personalizzate con randagie manovre electro, scene industriali e affondi di blues post-atomico, fatte rimbalzare in definitiva a un nuovo livello. Si sentano i primi due lavori di Stewart, Learning To Cope With Cowardice (‘82)e As The Veneer Of Democracy Starts To Fade (‘85), il banco del mixer usato in modo selvaggio e rivoluzionario, un suono brutale e multiforme che manda in sbattimento il cervello, la flipperanza electro nel suo nascere. È una musica poi quella di Stewart che, tra le prime bianche, riflette la cultura hip-hop/electro nero-americana che si stava affermando in quel tempo, aprendo la strada a un’idea di contaminazione sonora multirazziale che ha trovato terreno fertile proprio a Bristol, dove qualche anno dopo queste tensioni sono state determinanti nella nascita nell’esperienza Massive Attack.
A salutare i ‘90 il loro classico Blue Lines (‘91) fa sua un’affascinante fusione di soul, hip-hop, dub, decadenza urbana inglese. È lì che Tricky muove i primi passi musicalmente e il seguito è una storia che conosciamo abbastanza bene.
Ci interessa vedere in che modo questo tipo di influenze sono andate a germogliare nel Tricky solista in un suono che a tratti ha saputo porsi come una delle più dirompenti forme blues degli anni ‘90.

ECCO
La forza di Tricky è stata quella di mettere a fuoco il lato sofferente della musica nera intorno a un suono che ne incorpora gli elementi pop conservandoli insieme alla lezione visionaria del dopo-punk bianco che abbiamo visto sopra e, forse anche inconsapevolmente, del rock (vedremo come, pur non avendo Tricky un retroterra rock e ignorando probabilmente molte pagine classiche, il suo suono vada a interessare molte scene della vita dopo la morte del rock).
La sua riuscita è stata nel poter mettere a servizio di queste intuizioni musicali una testa davvero in fiamme. Il senso di devastazione che percorre i tratti della musica di Tricky è così assoluto da dare un senso pieno a titoli a rischio di retorica come Pre-Millennium Tension e Hell Is Round The Corner. È una musica che descrive lo stress da livello di soglia che caratterizza questi anni, e trova quiete, indifferentemente, nel ricordo del soul e della positività della musica nera o nell’idea dell’oblio, della morte. È la sofferenza, o meglio quanto c’è oltre la sofferenza, a fare la differenza.
Nella sua discografia ci sono momenti che dipingono in modo straordinario questo stato di cose. A partire dalla collaborazione con RZA, testa del Wu-Tang Clan, ensemble hip-hop a cui si deve un’analoga ridefinizione del blues in questo decennio. Tra le tante sigle e le tante partnership con cui RZA ha prodotto il suo hip-hop cupo e psicotico, quella dei Gravediggaz (“i becchini”, il gruppo è formato insieme a Poetic, Frukwan e al produttore dei De La Soul Prince Paul) è la formazione che meglio descrive quel punto di rottura che tutti temiamo (sogniamo?).
Dalle arie orrorifiche del debutto 6 Feet Deep (‘94) alle scene di decadenza urbana delle metropoli americane di fine secolo di The Pick, The Sickle And The Shovel (‘97), i Gravediggaz disegnano in certi loro excursus intensi affreschi di blues moderno, quello delle Dangerous Mindz, come recita l’hip-hop psichedelico dell’omonimo pezzo, che sono le menti nere intelligenti del ghetto che non hanno la possibilità di esprimersi. Quando queste menti ancora oppresse trovano un modo per esprimersi il risultato è febbrile e ancora pericoloso. C’è un pezzo chiamato Pit Of Snakes in The Pick… che è esemplare: struttura hip-hop compatta, pulsante linea di basso, arie inquietanti, urgentissime, il rapping a tratti ebete e giullaresco, a tratti minaccioso. È un pezzo di una forza brutale, qualcosa che in un contesto hip-hop trattiene con le cadenze ipnotiche e la compattezza del dub la tensione incendiaria del rock avvelenato dal blues.
La collaborazione con Tricky è di due anni prima, del ‘95. Tra i singoli tratti da Maxinquaye esce The Hell EP, vinile rosso, che contiene Hell Is Round The Corner e due pezzi a nome Tricky VS The Gravediggaz.
Psychosis sbuca di botto dal mixer già in pieno svolgimento. Afa, rumore di carrelli e beats che echeggiano più che una scena industriale un campo di lavori forzati all’inferno, un becchino che ripete morboso “Is falling / Is slowly falling / Jesus Christ is falling”. Entra Tricky spossato, arie operistiche in lontananza. Stacco e rapping assatanato di altri becchini, lamenti di abominevoli voci rallentate, Tricky che conclude dicendo qualcosa sulla “compagnia del diavolo”. Tonite Is A Special Nite è una cosa più pacifica, soprattutto dovendola sentire in successione dopo Psychosis che è impressionante, ed è un pezzo che condensa molta angoscia di quello che di lì a breve sarà Nearly God.
Un lavoro che introduce più chiaramente la vena blues di Tricky, a partire dalla copertina, un uomo che striscia per le nebbie psichiche di un corridoio verso una porta rosso fuoco con sopra la scritta al neon “Heaven”. E poi i pezzi, scarni e malaticci, una cover di Tatoo di Siouxsie che sembra una versione svuotata dei primi PIL, Poems, rarefatta come pop oltretombale, I Be The Prophet, stilizzati disegni d’archi e fluttuanti giochi di prospettive, I Sing For You, cosa di psichismi incantati e desolazioni sublimi, Yoga, jazz ipnagogico cantato da Bjork. È musica che viene dai recessi più intimi di una mente plasmata con abbondantissime dosi di hashish, è pura sublimazione della paranoia e della desolazione. Qualcosa molto oltre il dolore. E poi c’è Make A Change cantata da Alison Moyet, beats scarnificati e leggermente distorti simili a quelli di Psychosis (scene di derelitti ai lavori forzati), linea di basso blues in loop, la Moyet che viaggia dolorante come non mai. È ancora un anticipo, stavolta di quello che verrà rivelato a pieno l’anno dopo (‘97) in Pre-Millennium Tension.
Vent, Bad Dreams, Sex Drive, Bad Things e My Evil Is Strong, in un lavoro che ha comunque altri ottimi momenti, mettono a fuoco definitivamente il lato blues di Tricky. Le prime tre in particolare sono il prototipo del dub’n’blues. Bad Dreams è esemplare: loop di basso distorto in primo piano, chitarre indemoniate in lontananza, ritmica sconnessa e incalzante, tensione abbagliante, struttura compatta.
Un suono assassino, come di metallo fuso, che influenzerà non poco un pezzo come Kowalski dei Primal Scream, terrificante saga post-Suicide che comparirà qualche mese dopo in Vanishing Point, disco della band scozzese fin dal titolo allineato a quest’estetica dell’ultra-disagio. Dal disco verrà tratto come terzo singolo If They Move Kill’Em e il My Bloody Valentine Arkestra remix di Kevin Shields (BW#6) porta tutto a un nuovo livello: tonanti hip-hop beats di bella funkitudine, sax coltraniani che affiorano in una giostra infernale di wah-wah, distorsioni, fiati e reverse che si inseguono fino alla pazzia. Il capolavoro assoluto di Shields insieme a Glider (pezzo comparso nella sua estesa versione originale solo come retro del Glider EP dei My Bloody Valentine,’91), un monumentale affondo al cuore del blues con la forsennata reiterazione di chitarre d’amianto che sembra vadano a strappare le viscere agli angeli. Un pezzo che già nel ‘91 ridefiniva plasticamente la forma del blues cercando di guardarne come con una lente d’ingrandimento l’essenza.
Solo un anno prima i Sonic Youth pubblicavano in Goo (‘90), che è il loro album più pop, un pezzo intitolato Mote. Una cosa di una bellezza da far tremare. Una creatura che sembra rappresentare l’ultima, drammatica corsa del rock’n’roll. Una canzone che porta con sé il senso della nascita del rock’n’roll ma si trasfigura in movimento, bruciandosi come supernova ‘50-’90 proiettata verso i ghiacci del futuro. A metà del pezzo la canzone si lascia morire in un letto di feedback, distorsioni e clangori metallici, che portano la visione a compimento. È lo stesso metallo slabbrato che anni dopo vedremo muoversi in pezzi di Pre-Millennium Tension come Bad Dreams e in Kowalski dei Primal Scream.
Nello stesso 1990 di Mote parlando di morte del rock usciva tra l’altro Twin Infinitives dei Royal Trux (disco che pur essendo lontanissimo per background e campo d’azione condivide molti giochi di morte di Nearly God) e Kurt Cobain si preparava al sacrificio.
Nel vicino ‘98 i giochi sono fatti ed esce Mezzanine, il terzo album dei Massive Attack, il primo senza Tricky ma quello dove è più chiara la sua presenza. Almeno a livello di influenze, a giudicare dal taglio più rock del disco e da numeri dub’n’blues come Angel, Rising Son, Inertia Creeps.
Nel frattempo Tricky aveva dato una direzione precisa ai suoi concerti. I suoi live sono complementari alla musica dei dischi. Un’abitudine, quella di dare un senso al suonare dal vivo, sempre più rara. Nei concerti è riflessa tutta la schizofrenia di Tricky. Alcuni pezzi, quelli più morbidi soprattutto, hanno una resa quasi più scialba che su disco, altri, in particolare quelli di matrice blues, vengono trasfigurati. In una progressione iniziata col tour di Pre-Millennium Tension che ha toccato apice in quello dopo Angels With Dirty Faces (‘98), i live sono diventati sempre più incandescenti, con i pezzi di Pre-Millennium dilatati, tirati allo spasimo. Ci vedi tanti triphoppari confusi accennare danze da club in momenti di blues tanto ossessivo che sembra di essere precipitati in un loop di Funhouse degli Stooges. Il Nostro si fa gli spini, mima movimenti di boxe, si fissa e muove la testa come un frullatore, come posseduto. L’esibizione ad Arezzo Wave dei primi di luglio è stata in qualche modo memorabile. Se ne è uscito mezzo nudo, con solo una maglietta e una mezza mutanda svolazzante, e ha spiegato bene che tipo di esperienza discontinua ed eccitante siano i suoi live. Il concerto per tre quarti non è stato eccezionale, faticava a decollare, colpa di arrangiamenti quasi da band di pub-rock. Chitarre elettriche in botta ma poco sangue. E poi, verso la fine è uscita una versione di Vent spaventosa. La triade originaria del dub’n’blues, Vent, Bad Dreams e Sex Drive, insieme a bombe tratte da Angels With Dirty Faces come Money Greedy e Record Companies, vengono sempre eseguite in versioni da una decina di minuti l’una, una di queste di solito è graziata dal massimo dello slancio ossessivo. Quella sera è toccato a Vent, diventata scioccante momento di coraggio, graziata da un’incredibile ostinazione.
Tricky agita la testa come divorato, “don’t push me / cause I’m close to the edge / trying hard / not to lose my head / can’t hardly breathe” dice mentre il riff blues inizia a prendere una forma mostruosa, lacerato dal feedback, reiterato oltre ogni limite, fino a suonare quasi come una presenza corporea, rivelando nuove facce, vibrando come il suono di tutti i tuoni del mondo risucchiati dall’alto, scintillando come sputo sofferente rivolto al cielo. “Lose My Head” ripete la voce di Tricky, perdendosi negli abissi del suono, facendosi riflesso satanico, come quella di Iggy, negli ultimissimi secondi di Your Pretty Face Is Going To Hell degli Stooges, ripeteva “Hell” alla pazzia, risucchiata dal mixer.

OUTRO
Molte reazioni ha suscitato negli anni ‘90 il termine post-rock. Dapprima lo si è abbracciato, riflettendoci un preciso filone musicale, poi ci si è interrogati sulla giustezza di tale definizione, avvertendoci un fondo di ambiguità.
In effetti, pur avendo già fatto intravedere il rock il suo dopo, pur essendosi sempre arricchito del suo disfacimento, delle sue mutazioni, in sostanza del suo avvicinamento alla morte, sono gli anni ‘90 quelli del dopo definitivo, del punto di non ritorno. Come già accennato parlando dei Royal Trux questi sono stati anni di musiche che hanno dovuto riorganizzarsi dal basso, nutrendosi di scorie. Dovendo riflettere l’innalzamento del livello di sopportazione del vivere e dovendo prima ancora plasmare i cervelli perché l’innalzamento potesse avvenire, queste musiche si sono allora dovute potenziare organizzandosi in nuove manifestazioni plastiche, celebrando nuovi umori. Post-rock è tutto quello che musicalmente viviamo da molti anni a questa parte, compreso Tricky. Musica per una nuova società, parafrasando il titolo di un classico lavoro di John Cale (Music For A New Society, John Cale 1982, disco tagliente di implosioni emotive, reso maestoso da un senso di disincanto massimo, dalla consapevolezza agghiacciata dei limiti reali del vivere).
La vita dopo la morte del rock riflette una nuova società dove l’uomo tende ad avere una concezione esasperata dell’idea della morte, dove l’urto emozionale è amplificato ma insieme impietrito, costretto nei movimenti. Tricky dice nell’intervista che segue: “Mi fa ridere chi dice che il rock è morto... Nessuna musica muore, siamo noi a morire, non la musica”. La morte del rock, il suo rivivere sonnambulo, il perpetuarsi di una tradizione blues testimoniano nella stessa musica di Tricky la giustezza di questa frase. Mutazioni di forma, vita e non-vita non fermano l’eterno lamento, la celebrazione sonora della caduta dell’uomo. We Will Fall cantava Iggy guidato da Cale nel primo disco degli Stooges. Eravamo già tra fogne, persi nel buio, abbagliati dalla consapevolezza.


Intervista
di Stefano I. Bianchi
Non ho mai parlato con Tom Waits ma scommetterei che la sua voce è molto simile a quella di Tricky: catramosa, scura, profonda, vetriolica, piena di squame e catarri. Ci avviciniamo a lui con un po’ di timore (le storie sul suo rapporto con i giornalisti sono quasi leggenda...) ma scopriamo subito una persona estremamente gentile e loquace. Magrissimo, ricurvo e vagamente rachitico ma agile e scattante, faccia da pugile, occhi profondi che ti fissano e ti studiano. È un uomo consapevole delle proprie possibilità, Tricky, chiaro, deciso, intelligente, spesso furbo. Sa cosa dire e cosa non dire, dice con astuzia, porta il discorso dove vuole, sguscia tra le domande ed evita polemiche dirette, eccetto quando parla della responsabilità che deve avere un musicista sopra il palco e se la prende ferocemente col gangsta rap. Alla fine, un uomo che verrebbe da definire ‘maturo e consapevole’, non fosse per l’ingiustificabile sgarbo che farà più tardi a un fotografo che l’aveva atteso tutto il giorno, così, tanto per non smentire che il Tricky Kid, sotto sotto, è sempre lo stesso di sempre. O come quando smette d’improvviso, un paio di volte, di parlare della responsabilità di avere un figlio e della violenza dei gangsta rappers per osservare compiaciuto la perfezione delle curve delle ragazze che passano davanti a noi...

Parlami del primo periodo della tua storia; hai detto che quello che ti ha cambiato la vita non è stato né reggae né il punk ma l’hip hop. Vuoi raccontare?
Be’... Quando sei giovane non ti rendi conto di quello che ti accade intorno, non metti a fuoco niente di quello che vuoi o vorresti, te ne stai a zonzo come facevo io con i miei amici. Non volevo lavorare e non avevo alcuna ambizione, l’unica cosa che volevo era farmi qualche canna e stare in giro tutto il giorno. Quando arrivò l’hip hop, era qualcosa in cui potevi identificarti, diventavi parte di un gruppo, eri un b-boy, e i tuoi amici erano b-boy, e i tuoi amici formavano la tua famiglia. Soprattutto nelle parti più povere delle città, dove i ragazzi non hanno nulla da fare ogni giorno, si è trattata di una faccenda privata ancor prima che musicale. Ci ha fatto venir voglia di ascoltare musica, poi di comporre musica. Si è trattato di un’identificazione immediata. Cose come Billie Holiday sarebbero state impossibili da cantare per me, non raccontavano la mia vita, non mi appartenevano. Quando arrivò l’hip hop dissi ‘Hey! Questo posso farlo anch’io!’...
Però non hai iniziato facendo hip hop...
Sì, è vero, può sembrare molto strano... Diventando più grande ascolti cose differenti ma quando ero giovane ascoltavo solo hip hop. Poi però iniziai ad ascoltare Prince, cose sempre diverse... Quando feci il mio primo disco ormai avevo dentro così tante influenze che non avevo più lo stesso interesse per il solo hip hop, non ero più un b-boy, non mi sentivo più legato a quell’ambiente. A quel punto avevo imparato ad amare la musica, tutta la musica, cercavo di comporre dei testi più profondi, non volevo apparire un rapper, non amavo l’idea del rapper con le pistole e quelle menate lì, non mi appartenevano, mi sembravano solo stupide, non erano parte della mia vita. Volevo esser considerato solo un musicista, senza altre etichette.
E i Massive?
Eravamo solo dei ragazzi, giocavamo e basta. Mark Stewart dei Tackhead è stata la prima persona in assoluto ad avermi voluto sopra un palco. Ho sempre amato la sua musica e quando un giorno lo incontrai gli dissi ‘Sono un rapper’ anche se non sapevo fare nulla. Lui mi disse solo ‘Sì, sì...’ e il seguito è veramente divertente... La settimana seguente infatti mi chiamò per un concerto, salì sul palco e mi presentò... Dovevo fare il mio primo rap di fronte al pubblico!... Però andò bene e da lì in avanti cominciarono a chiamarmi nei club, e anche gli stessi Massive Attack mi chiamavano, mi davano dei soldi e mi mettevano in mano il microfono. Un giorno ero in un bar a far niente come al solito quando notai una locandina che annunciava un concerto dei Massive Attack: c’erano i nomi di tutti quanti, e c’era anche il mio, e io non ne sapevo proprio nulla! Toh, mi dissi, anch’io sono nei Massive Attack... Quindi il mio amore totale è per Mark Stewart, un genio, un vero genio della musica. Quando la gente mi dice che la mia musica è buona, rispondo sempre che lo è solo perché ho vissuto con lui per qualche tempo
Ho sempre pensato che anche tu come lui cercassi di fare della musica ‘globale’, dalle mille influenze diverse...
Mark non è una popstar, non è un trendy, non vive come una popstar perché non ha soldi, è un personaggio incredibile... Sembra refrattario ai soldi, ha vissuto momenti in cui avrebbe potuto far soldi ma le ha sempre distrutte... Costruisce e poi distrugge tutte le situazioni in cui potrebbe far soldi... Ho vissuto due anni con lui e posso dirti che è veramente pazzo. Quando deve firmare un contratto per un nuovo album con un’etichetta invece di una firma lui fa giurare gli interlocutori sulla Bibbia che tutto venga fatto esattamente come vuole lui... Una volta mi chiamò quando doveva firmare per uno dei suoi ultimi album; c’era un tipo seduto al tavolo con lui che osservava stupito; bene, mi chiamò e disse “Giura su questa Bibbia, Giura, tu mi sei testimone! Tu sei il mio testimone, giura! Tutto sarà come dico io o non se ne fa nulla”. Non gli importa niente dei soldi, spende tutto immediatamente. Una volta sputtanò tutto quello che aveva avuto in un club, si mise sdraiato sulla pista e chiamò tutti a fumare con lui. Alla fine eravamo in venticinque tutti stesi per terra, e lui si era già bruciato tutti i soldi... È pazzo, è veramente pazzo... Ma è stata la presenza più importante della mia vita, la più importante in assoluto.
Poi tu e i Massive vi separaste...
Certo, erano troppo diversi da Mark. Mi piacciono molto i Massive, sono cool, sono dei veri amici ancora oggi. Ma io volevo stare con Mark, volevo essere un punk rocker. Volevo fare i dischi come mi pareva, come lui. Lui mi ha insegnato la strada. La gente oggi giudica i Massive una band che ha soul, ed è giusto, io però non avevo soul, io ero arrabbiato, non volevo fare intrattenimento ma punk. Fare dischi come mi pare, questo è punk rock, questo mi ha insegnato Mark.
Dopo le major, nel nuovo album, nel pezzo For Real, te la prendi con i musicisti...
Con gli artisti in generale... Farò un video come Tricky dove entrerò in un club insieme a Tricky... Quello che voglio dire è che tutti si prendono troppo seriamente, e questo non è reale... Tutti diventano dei personaggi, delle star intoccabili, delle celebrità, e si sentono tali. Io voglio essere quello che sono sempre stato, un tricky kid, perché tutto il resto è solo una posa, quella delle popstar è solo una posa. Il successo deve esser felicità, non vendita di dischi. Voglio potermi guardare allo specchio e dire ‘Sono felice’, non ‘Ho molti soldi’. E se il successo domani finisce? Non voglio entrare in questo meccanismo. Il record business è un supermarket, niente altro.
E così le compagnie discografiche...
Certo, ma le cose stanno cambiando. Adesso sarebbe importante diventare indipendenti dalle compagnie discografiche, essere indipendenti, ecco la parola giusta. Molti ragazzi giovani vendono da soli le proprie cose, si sono fatti furbi. Se io vendessi da solo i miei dischi adesso sarei milionario, non vedo perché in futuro non debba fare così...
Hai visto quello che hanno fatto i Public Enemy?...
Eccoci! Parlo con Chuck quasi tutte le sere, cazzeggiamo, ci raccontiamo come ci vanno le cose. Lui è un tipo molto intelligente, mi ha detto un sacco di cose interessanti...
Come la storia delle vendite attraverso Internet?....
...Bravo, esatto. Spero che tutto fili liscio, spero che tutto funzioni...
Il problema magari è che ci potrebbe essere un intasamento, troppe uscite...
E solo i più forti sopravviveranno...
E chi saranno i più forti? Non torneranno a essere quelli che hanno una forte spinta pubblicitaria alle spalle?...
Sopravviveranno quelli che faranno buona musica. Sopravviverà la buona musica, come quella della cantante dei Ten Thousand Maniacs, come si chiamava...
Natalie Marchant...
Esatto, Natalie... Non cerca di apparire carina, fa buone canzoni e si interessa solo alla musica. Sopravviverà gente come Kurt Cobain, capisci? O Bob Marley, buona musica. Dovremo tornare alle buone canzoni dopo tutta questa elettronica, elettronica, elettronica... Dobbiamo tornare alle chitarre, alle canzoni...
Che mi dici del Trip Hop? I Massive sostengono che è solo un’invenzione dei media...
Sono fortunato, direi che personalmente mi è stato abbastanza lontano... Credo che si possa dire che esiste se vivi a Londra, dove è una cosa molto alla moda. Tutti produttori, popstar, DJ... Esiste solo nel cerchio dei trendisti. Tutto è costruito dalle riviste pettegolezzo che ci sono in Inghilterra, che oggi ti considerano e domani ti stracciano, secondo il trend che torna loro comodo lanciare al momento.
Il tuo nuovo album?...
È il mio disco più commerciale, anzi non tanto commerciale, diciamo che è un disco fatto di canzoni, soprattutto canzoni. Te lo dico chiaro: ho bisogno di fare un po’ di soldi perché l’anno scorso ho perduto quasi tutto. Ho bisogno di far soldi per poter fare quello che voglio. Non voglio far compromessi e neppure questo album ne fa. È un disco di canzoni, forse più facilmente accessibile dei precedenti, ma ancora un gran disco, io credo.
Come è avvenuto l’incontro con DJ Muggs?
Facile, perché siamo fatti della stessa pasta. Volevo fare un disco che comunicasse la stessa energia dei Public Enemy. Avevamo registrato l’album ma ancora mancava qualcosa, mancava un po’ di comunicazione. Volevo fare un album ‘veloce’ come quelli dei Cypress Hill e ‘forte’ come quelli dei Public Enemy.
La prima cosa che ho pensato quando l’ho ascoltato è stata ‘rock’, un disco di canzoni che sembrano costruite sulle chitarre, soprattutto le prime tre... Nel secondo pezzo c’è anche un assolo...
Direi che è insieme un album hip hop e un album rock, definitivamente un album rock. Quello che mi interessava era fare ‘canzoni’ e fare canzoni con le chitarre significa fare rock, fare un pezzo come For Real. Però è anche un album hip hop, ha la forza della parola dell’hip hop. Mi fa ridere chi dice che il rock è morto... Nessuna musica muore, siamo noi a morire, non la musica. Io non voglio fare questa musica elettronica che c’è in giro oggi... In America dicono tutti che sta arrivando l’elettronica, quando ero in Inghilterra dicevano tutti che era l’epoca del trip hop, adesso su MTV dicono che è l’epoca dell’elettronica. E io voglio fare musica rock, voglio fare esattamente quello che l’industria musicale dice che non è alla moda. La musica rock non può morire, è stupido pensare questo... Dicono tutti che la musica deve essere ballata, bene, si può ballare anche con le chitarre!... Questo è vivo, quello è morto, tutte cazzate...
Com’è stato lavorare con musicisti americani?
In America sono pazzi, sono tutti pazzi. Sono tutti ossessionati dal successo, anche i ragazzini per strada, tutti ossessionati dall’idea di far soldi e avere successo. Ma c’è una grossa differenza con l’Inghilterra, negli Stati Uniti chi fa la fame la fa veramente, per strada...
Condividi la mentalità del gangsta rap?...
No, assolutamente, per niente. Non va bene per i bambini, io non amo le armi e non è educativo far vedere tutte quelle armi in giro, soprattutto in America, dove si possono acquistare a ogni angolo. Io sono una persona normale e non amo le armi, come non amo quei film dove c’è tutta quella violenza. Il gangsta rap dice che è cool esser violenti e avere un’arma in mano, poi i ragazzini che ascoltano i dischi se ne convincono e... bum! Sparano come se niente fosse, si convincono che è cool farlo. Sono molto incazzato col gangsta rap... Se anche tu vieni da un background di violenza e povertà e poi arrivi al successo devi esser felice di esserci riuscito, non è una buona scusa per seminare violenza a tua volta. Non puoi dire ai ragazzini che ti ascoltano che è bene sparare a quello e quell’altro, i ragazzi imitano i loro idoli. Io mi sento responsabile delle cose che dico e che faccio, un artista deve esser consapevole che i ragazzini lo ascoltano e lo imitano. Si tratta di educazione, accidenti, così facendo si educa un popolo alla violenza e poi quello educherà i propri figli alla violenza, in una spirale infinita. Dieci anni fa poteva essere un esperimento con la ‘parte oscura’ della vita ma quando i ragazzini iniziano a sparare nelle scuole è tempo di ripensare a tutto quanto, io credo. È tempo di tirarsene fuori. Molti continuano a fare rap di questo tipo solo perché dà loro una credibilità nel proprio ambiente, ma sono solo degli avvoltoi...
Quindi un musicista, come qualsiasi artista, ha una responsabilità, diciamo così, educativa...
Assolutamente, totalmente. Dieci anni fa forse no ma adesso nella maniera più assoluta. Dire no alla violenza significa insegnare a chi ti ascolta, ai ragazzi che seguono quello che fai e che dici. I film e i media hanno una grossa responsabilità. Come anche i film di Tarantino, che sono divertenti a vedersi ma non li capisco, fanno della violenza una cosa futile, facile, banale. Non lo capisco, non riesco proprio a capirlo, e non ho alcun rispetto per lui. Guardi tutto quel sangue e lui te lo fa apparire divertente, facile, banale. È solo un cinico. Io mi diverto a guardare le commedie, i film divertenti, non quelli pieni di violenza... Io ho un figlio adesso e avere un bambino ti cambia la vita, amico, avere un figlio ti fa capire quanto è fragile la sua personalità, ti fa capire che è importante insegnargli a non essere violento, a non portare addosso armi, a non fare del male agli altri. Non possiamo nasconderci dietro la barzelletta che “si racconterebbe la vita com’è realmente”. Cazzate. Dovremmo esser felici di essere arrivati al successo, ecco cosa. Tutti sono responsabili, tutti i media, i giornali, la televisione, il cinema, la musica. I ragazzi per le strade di Los Angeles e New York si sparano come fossero in un film, perché riflettono quello che vedono, si comportano come dicono loro i musicisti, come scrivono i giornali. Tutti siamo responsabili di quello che sta accadendo. Tutto questo deve cambiare al più presto perché questo stato di cose non va bene, né per me né per tutti i ragazzi e i bambini.
È una libertà che non è più tale, dici?...
Esatto, non è vera libertà, non è libertà di espressione. Qualche volta non capisco che cazzo di atteggiamento sia quello dei governanti. Se dai al popolo troppa libertà ti ritrovi con pornografia, stupri, violenza gratuita e basta. Libertà, libertà, che razza di libertà è quella in cui si trovano in giro tutte queste armi? È solo la libertà del più forte, chi è più forte diventa padrone delle strade e i bambini non possono più giocare perché rischiano di farsi ammazzare... Non è libertà reale, sono solo soldi reali.
Prima dicevi della felicità... Questo nuovo mi sembra l’album di un uomo finalmente felice...
Certamente, è vero, perché ho scoperto che la felicità non è il successo, non sta nelle vendite degli album. La felicità non sta nell’esser trasmesso continuamente alla radio, anche se io lo sono. La felicità è essere in pace con te stesso, avere un figlio da crescere, fare quello che vuoi e farlo secondo le tue idee.
Ci sarà un altro album come Nearly God?
Certamente. Ho già un mucchio di pezzi scritti, devo ancora solo scegliere, rimettere a posto i dettagli. Ma voglio iniziare a lavorarci presto, molto presto.
Domandina stupida: qualche album da isola deserta...
Uno qualsiasi dei Public Enemy, il primo degli Specials, uno di Bob Marley, uno di John Lennon...

È solo il manager, a questo punto, a interrompere la nostra conversazione. Salutiamo Tricky ricordandogli che dopo di noi sarà la volta di un’intervistatrice che si chiama Asia Argento, è la figlia di un noto regista horror italiano (che lui peraltro non conosce) ed è veramente molto carina... Apprezza molto la segnalazione e poi, pare, apprezzerà anche l’intervistatrice, con la quale si intratterrà a chiacchierare per un paio d’ore... Vecchia pelle d’un tricky kid...


Il gruppo Pop, il Mucchio Selvaggio e altre storie
di Eddy Cilìa
C’è una Saint Paul’s a Londra: la cattedrale imponente e brutta, con quella facciata in cui si mescolano mezza dozzina di stili, che ogni turista in visita per la prima volta nella capitale britannica non sa fare a meno di andare a vedere, se non altro per constatare di persona “l’orrore! l’orrore!”. Finita nei primi anni del XVIII secolo, è uno dei tanti lasciti dell'Impero. C’è una Saint Paul’s pure a Bristol: un angolo di ghetto in pieno centro nel quale nel 1980 esplosero violenti disordini razziali. Anch’essi un lascito dell’Impero con radici nel XVIII secolo, quando la città era uno dei nodi principali del traffico di schiavi. Oggi Bristol, rimessasi dalle conseguenze devastanti della chiusura delle manifatture di tabacco che furono a lungo la spina dorsale della sua economia, produce aeroplani, motori di Rolls-Royce, denaro (vi ha sede la Lloyds Bank) e il più bel pop bastardo del pianeta. Contrariamente all’architettura, alla musica i miscugli stilistici fanno bene. E molto di quanto ci è arrivato da Bristol è giunto da Saint Paul’s, coacervo di cento etnie dove si concentrano povertà, prostituzione, spaccio di droga, club e discoteche, a due passi dal quartiere delle banche, degli uffici, dei negozi eleganti.
Nel porto di Bristol, negli anni Sessanta, con quanti arrivavano dalle Indie Occidentali e andavano a confondersi con flussi migratori precedenti (africani, asiatici, irlandesi, italiani) sbarcò lo ska. Che poi divenne rocksteady. Che poi divenne reggae. Da una sua mutazione ulteriore nasceva il dub.
Si chiamava Pop Group e poche ragioni sociali sono state tanto bugiarde. In canzoni che vent’anni dopo risultano ancora altamente abrasive frullava punk e free jazz, funk, reggae e - appunto - dub. Il suo album d’esordio, Y, veniva non a caso prodotto da Dennis Bovell, già allora braccio destro del poeta del dub Linton Kwesi Johnson. Se il successivo For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder, che usciva l’anno della rivolta di Saint Paul’s, risulterà più efficace sotto il profilo dell’invettiva politica, Y è rimasto insuperato per quanto attiene alle musiche. Benché in superficie Blue Lines - l’album che più di ogni altro ha definito gli anni Novanta, punto - sembri molto lontano ne è in realtà un diretto discendente.
L’implosione del Pop Group generava una galassia di nuove formazioni. Se riascoltati oggi paiono poca cosa tanto i Maximum Joy di John Waddington e Danny Katsis che i Pigbag di Simon Underwood, gli uni e gli altri votati a un suono banale fra funky e soul, i Rip Rig + Panic di Gareth Sager e Bruce Smith (nelle loro fila una giovanissima Neneh Cherry, fra i collaboratori Nellee Hooper) suonano ancora freschi. Nei due doppi EP God e I Am Cold e nel 33 giri Attitude, pubblicati fra il 1981 e il 1983, le dissonanze che avevano caratterizzato il Pop Group sfumano in tambureggianti ritmi afro e raffinate scale jazz. Direzione opposta a quella verso cui si muoveva Mark Stewart che nel 1982, con il devastante Learning To Cope With Cowardice, sceglieva invece di radicalizzare, se possibile, il suono di Y. Una pietra miliare fragorosamente isolazionista e uno dei pochi punti di raccordo fra la Bristol che oggi tutti conoscono e quella, rimasta sotterranea e che possiamo definire genericamente post-rock, di Flying Saucer Attack e Third Eye Foundation, sulla quale “Blow Up” ha già svolto estese indagini.
Funk, soul, jazz, reggae, dub, ambient: mancava ancora un elemento perché fosse possibile Blue Lines. Arrivava a Bristol nel 1983, ancora una volta da oltre Atlantico, sotto forma di un film documentario sull’hip hop, Wild Style. La sua visione ispirava una ghenga di adolescenti a dar vita a un sound system, The Wild Bunch, la cui storia è avvolta da un alone di Mito. Ve n’è ben donde! Ne facevano parte tanto il futuro Soul II Soul Nellee Hooper che Grant Marshall, Robert Del Naja e Andrew Vowles, ossia i Massive Attack. Il Mucchio Selvaggio rompeva le righe (ne ereditavano attitudine e posizione Smith & Mighty) nel 1988, dopo avere seminato moltissimo, in serate danzanti affollate di graffitisti e b-boys e fra i cui frequentatori c’erano un certo Adrian Thaws (oggi meglio noto come Tricky) e Geoff Barrow (che fonderà i Portishead), e prodotto la miseria di un introvabile 12”. Sul lato B, una versione di The Look Of Love di Burt Bacharach scarnificata a melodia vocale, basso e batteria: prototipo di tutto il Bristol Sound a venire.
Arrivano da lì i Soul II Soul di Club Classics Vol. One (quando si dice un titolo programmatico!), manifesto di tutto il soul anni Novanta in anticipo sul calendario (usciva nel 1989), come i Massive Attack, da cui si distaccherà Tricky, e che in Blue Lines e in Protection perfezioneranno il modello addizionandolo di new wave e psichedelia, influenza quest’ultima tanto meglio individuabile nelle chitarre salite improvvisamente alla ribalta in Mezzanine. Viene da lì pure Roni Size, artefice del drum’n’bass più stiloso, meticcio e swingante che si sia mai udito. Prodotto esemplare della città che lo ha generato.

Bristol On The Tracks
Tredici album fondamentali
Massive Attack - Blue Lines (Circa/Virgin, 1991)
Massive Attack - Protection (Circa/Virgin, 1994)
Massive Attack - Mezzanine (Circa/Virgin, 1998)
Pop Group - Y (Radar, 1979)
Portishead - Dummy (Go! Beat, 1994)
Rip Rig + Panic - Knee Deep In Hits (Virgin, 1990; ant)
Roni Size - Reprazent New Forms (Talkin’ Loud, 1997; 2CD)
Smith & Mighty - DJ Kicks (!K7, 1998)
Soul II Soul - Club Classics Vol.One (10/Virgin, 1989)
Mark Stewart - Learning To Cope With Cowardice (On-U Sound, 1982)
Tricky - Maxinquaye (Island, 1995)
Tricky - Pre-Millennium Tension (Island, 1996)
Tricky - Angels With Dirty Faces (Island, 1998)

[pubblicato su Blow Up #16, Settembre 1999]
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Tag: TRICKY
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