The Velvet Underground [Todd Haynes]
The Velvet Underground [Todd Haynes]
di Roberto Curti

Raccontare cosa siano stati i Velvet Underground, sviscerarne il ruolo e l’importanza nella musica e nella cultura popolare degli ultimi cinquanta e passa anni, e spiegare perché la loro breve esistenza abbia alimentato un culto devoto andato ben oltre i proverbiali quindici minuti di fama, era impresa da far tremare le vene e i polsi. Non che Todd Haynes fosse nuovo a progetti impegnativi quando non impervi, dal biopic su Karen Carpenter realizzato con bambole Barbie (Superstar – The Karen Carpenter Story) alla rilettura dell’epopea glam come una versione fantascientifica di Quarto potere di Velvet Goldmine, fino alla decostruzione dell’universo-Dylan in Io non sono qui. Mai prima d’ora, però, abdicando alla narrazione di finzione.
Partendo dalla superficie, The Velvet Underground (su Apple+ dal 15 ottobre scorso, dopo l’anteprima a Cannes) è, innanzitutto, un eccellente documentario musicale. Lo è perché offre al neofita gli strumenti per muoversi nell’universo di un gruppo che, a detta dello stesso Lou Reed, voleva fare con chitarra e batteria quello che William Burroughs e Hubert Selby Jr. avevano fatto con le parole, rimarcandone con intelligenza e precisione la portata innovativa, sonora e tematica. Si veda, ad esempio, il ripescaggio del materiale inciso in precedenza da Reed (con pezzi come Your Love, dove canta banalità tipo «non pensavo di essere un vero uomo prima di amarti»: tutt’altra cosa rispetto alle crude storie di spacciatori, droga e sesso omo che verranno di lì a breve) e di versioni embrionali di alcuni brani-simbolo: esemplare l’evoluzione del suono da una registrazione primigenia, country e dylaniata di I’m Waiting for the Man allo sferragliante, ossessivo proto-punk di quella finita su disco; come è significativo che il film ci faccia ascoltare Heroin per la prima volta in versione spoken dalla voce di Reed, a evidenziare la forza delle parole nude e crude. […]

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