The Jesus & Mary Chain
The Jesus & Mary Chain
di Christian Zingales
Vegetables
Quando a metà Eighties adempiono all’opera di macellazione per cui sono stati convocati dalle alte sfere, i fratelli Reid sono due debosciati e rappresentano una vera e propria cesura nell’immagine del rock. Prima ancora che sonora è una rivoluzione estetica e generazionale la loro, uno degli inconfondibili segni degli anni ‘80. Gli stronzetti arrivano in nero pelle Velvet ma con quel tot di cotone nei ciuffi per capitalizzare tutto il post dark goth video friendly e sedendo nell’esatta dimensione speculare all’edonismo di quei tempi rampanti, una privata nuvola di cinismo poseur e ribellismo annoiato, ma ehi, lo fanno portandosi un fardello di vera verità e una missione sonora assassina. Sono figli della televisione: “per noi era come un terzo genitore” racconteranno, “i nostri due andavano a lavorare e ci piazzavano lì davanti per tutto il giorno”. E questo gli dà subito quel carattere da creature in vitro, germi post-moderni, animali da cameretta, plastiche mortificazioni atte a manovre d’artificio, là dove gli eroi del punk a cui loro - annunciati come la band più di rottura dai tempi dei Sex Pistols - vengono accostati, uscivano dalle strade, ancora incarnati tra miasmi e spaventi della vita. È una cesura tra organico e ricreato. La seconda droga dopo la TV è la musica, accaniti di Stooges e Sex Pistols quanto di Beach Boys e Phil Spector. Già nel ’77 William rimedia un basso elettrico, che rimarrà inattivo per qualche anno. A inizio ’80 scoprono i Velvet Underground, una band dove convivono tutti i tasselli del puzzle, rock’n’roll fottuto di testa e pop di caratura aurea, rumorismo e sensualità, eversione e classicità. Passano miliardi di ore nel loro appartamento a East Kilbride, 15 chilometri a sud di Glasgow, a complottare su come si sarebbe chiamata la band, e come avrebbe dovuto suonare il primo album, e cosa avrebbero dovuto dire nelle interviste, tutta una premeditazione fanciullesca. Dopo una serie di nomi embrionali la cosa quaglia quando William indica un Daisy Chain che diventa Mary Chain e poi Jesus And Mary Chain. È Jim il primo a concretizzare, un demo con versione embrionale di Upside Down. Il primo a unirsi al progetto è Douglas Hart, amico fin dalla prima adolescenza, quando dimostrava molti meno anni e mamma Reid vedendolo girare per casa sempre più frequentemente ebbe a temere che i figlioli stessero diventandole pedofili. Sviluppatosi Douglas, eccolo accomodarsi al basso: ha solo tre corde e ne perde presto un’altra, ma nelle sue parole “Due sono più che sufficienti. Che senso ha spendere soldi per altre due?”. William visto che Jim lo aveva preceduto capisce che deve muovere il culo e prende possesso della chitarra. Lo schivo Jim detesta la cosa ma deve fare a pugni con la sua timidezza, sobbarcarsi il ruolo di frontman e cantare. L’ultimo tassello è Bobby Gillespie, già allora il vero re dei debosciati, a cui arriva il demo di Upside Down di Jim da un DJ radiofonico. Gliel’aveva agevolato perché sul retro avevano messo una selezione di Syd Barrett che allora negli ’80 era la prima chimera da conquistare per ogni soldatino dell’underground. Ma è Upside Down a mandare in fregola Bobby. Telefona subito a Douglas – c’era il suo contatto sul nastro - con cui sta delle ore a parlare di musica, e dopo conosce i Reid. I ragazzi si trovano e camminano per Glasgow senza meta parlando ancora di musica, e di musica ancora. Bobby annuncia, vi metto in contatto con un mio amico che è a Londra e vi farà suonare, si chiama Alan McGee. Ok, e alla batteria? Alla batteria c’è un certo Murray Dalglish, ma ai Reid non va giù perché fa un po’ troppo il batterista. Vengono a sapere che Bobby in un’occasione aveva sostituito il batterista degli Altered Images, gli propongono di prendere possesso dei tamburi, lui si schermisce, so appena tenere in mano le bacchette e pestare un po’ a caso. Perfettissimo. Lui si posiziona à la Moe Tucker in piedi davanti ai tamburi e li percuote, ciuffo e occhiali tuckeriani, una presenza che sarà il fiocco sul look della gang. Nelle parole di Jim: “Voglio che quando la gente ci guarda ci sia lo stesso effetto di quando guardava i Velvet Underground. Le fotografie di loro alla Factory di Andy Warhol contengono tutto quello che rendeva la loro musica incredibile. È quello che cerchiamo di fare, tutto rientra in un pacchetto unico, la musica, le parole, le immagini. Per esempio tutto il filone surf aveva un sacco di potenziale sprecato. Voglio dire, pensa alle brillanti canzoni dei Beach Boys, c’è una sproporzione tra come vestivano e come producevano i dischi. Avrebbe dovuto essere una gang di Hell’s Angels a produrre quella roba”. […]
…segue per 10 pagine nel numero 226 di Blow Up, in edicola a Marzo 2017 al costo di 6 euro
• Se non lo trovate in edicola potete ordinarlo direttamente dal nostro sito (BU#226) al costo di 10 euro - spese postali incluse - e vi verrà spedito immediatamente via posta prioritaria. Se lo richiedete dopo il mese di riferimento dell’uscita vi verrà spedito, come ogni altro arretrato, con il primo invio mensile di abbonamenti e arretrati.
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
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Quando a metà Eighties adempiono all’opera di macellazione per cui sono stati convocati dalle alte sfere, i fratelli Reid sono due debosciati e rappresentano una vera e propria cesura nell’immagine del rock. Prima ancora che sonora è una rivoluzione estetica e generazionale la loro, uno degli inconfondibili segni degli anni ‘80. Gli stronzetti arrivano in nero pelle Velvet ma con quel tot di cotone nei ciuffi per capitalizzare tutto il post dark goth video friendly e sedendo nell’esatta dimensione speculare all’edonismo di quei tempi rampanti, una privata nuvola di cinismo poseur e ribellismo annoiato, ma ehi, lo fanno portandosi un fardello di vera verità e una missione sonora assassina. Sono figli della televisione: “per noi era come un terzo genitore” racconteranno, “i nostri due andavano a lavorare e ci piazzavano lì davanti per tutto il giorno”. E questo gli dà subito quel carattere da creature in vitro, germi post-moderni, animali da cameretta, plastiche mortificazioni atte a manovre d’artificio, là dove gli eroi del punk a cui loro - annunciati come la band più di rottura dai tempi dei Sex Pistols - vengono accostati, uscivano dalle strade, ancora incarnati tra miasmi e spaventi della vita. È una cesura tra organico e ricreato. La seconda droga dopo la TV è la musica, accaniti di Stooges e Sex Pistols quanto di Beach Boys e Phil Spector. Già nel ’77 William rimedia un basso elettrico, che rimarrà inattivo per qualche anno. A inizio ’80 scoprono i Velvet Underground, una band dove convivono tutti i tasselli del puzzle, rock’n’roll fottuto di testa e pop di caratura aurea, rumorismo e sensualità, eversione e classicità. Passano miliardi di ore nel loro appartamento a East Kilbride, 15 chilometri a sud di Glasgow, a complottare su come si sarebbe chiamata la band, e come avrebbe dovuto suonare il primo album, e cosa avrebbero dovuto dire nelle interviste, tutta una premeditazione fanciullesca. Dopo una serie di nomi embrionali la cosa quaglia quando William indica un Daisy Chain che diventa Mary Chain e poi Jesus And Mary Chain. È Jim il primo a concretizzare, un demo con versione embrionale di Upside Down. Il primo a unirsi al progetto è Douglas Hart, amico fin dalla prima adolescenza, quando dimostrava molti meno anni e mamma Reid vedendolo girare per casa sempre più frequentemente ebbe a temere che i figlioli stessero diventandole pedofili. Sviluppatosi Douglas, eccolo accomodarsi al basso: ha solo tre corde e ne perde presto un’altra, ma nelle sue parole “Due sono più che sufficienti. Che senso ha spendere soldi per altre due?”. William visto che Jim lo aveva preceduto capisce che deve muovere il culo e prende possesso della chitarra. Lo schivo Jim detesta la cosa ma deve fare a pugni con la sua timidezza, sobbarcarsi il ruolo di frontman e cantare. L’ultimo tassello è Bobby Gillespie, già allora il vero re dei debosciati, a cui arriva il demo di Upside Down di Jim da un DJ radiofonico. Gliel’aveva agevolato perché sul retro avevano messo una selezione di Syd Barrett che allora negli ’80 era la prima chimera da conquistare per ogni soldatino dell’underground. Ma è Upside Down a mandare in fregola Bobby. Telefona subito a Douglas – c’era il suo contatto sul nastro - con cui sta delle ore a parlare di musica, e dopo conosce i Reid. I ragazzi si trovano e camminano per Glasgow senza meta parlando ancora di musica, e di musica ancora. Bobby annuncia, vi metto in contatto con un mio amico che è a Londra e vi farà suonare, si chiama Alan McGee. Ok, e alla batteria? Alla batteria c’è un certo Murray Dalglish, ma ai Reid non va giù perché fa un po’ troppo il batterista. Vengono a sapere che Bobby in un’occasione aveva sostituito il batterista degli Altered Images, gli propongono di prendere possesso dei tamburi, lui si schermisce, so appena tenere in mano le bacchette e pestare un po’ a caso. Perfettissimo. Lui si posiziona à la Moe Tucker in piedi davanti ai tamburi e li percuote, ciuffo e occhiali tuckeriani, una presenza che sarà il fiocco sul look della gang. Nelle parole di Jim: “Voglio che quando la gente ci guarda ci sia lo stesso effetto di quando guardava i Velvet Underground. Le fotografie di loro alla Factory di Andy Warhol contengono tutto quello che rendeva la loro musica incredibile. È quello che cerchiamo di fare, tutto rientra in un pacchetto unico, la musica, le parole, le immagini. Per esempio tutto il filone surf aveva un sacco di potenziale sprecato. Voglio dire, pensa alle brillanti canzoni dei Beach Boys, c’è una sproporzione tra come vestivano e come producevano i dischi. Avrebbe dovuto essere una gang di Hell’s Angels a produrre quella roba”. […]
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000