THE FUTURE IS UNWRITTEN
THE FUTURE IS UNWRITTEN
Luca Malavasi, Roy Menarini, Massimiliano Spanu

Con PROMETHEUS Ridley Scott torna alla fantascienza, a cui regalò capolavori come ALIEN e BLADE RUNNER. Intanto se ne è andato uno dei padri del genere, RAY BRADBURY. Tra un ritorno e un addio, facciamo il punto sullo stato della science fiction oggi. Cioè domani.


STILL SEARCHING
Prometheus di Ridley Scott
di Luca Malavasi

[…] IL TENENTE LAWRENCE (poi, d’Arabia) diverte i suoi commilitoni spegnendo tra le dita un cerino acceso. Con grazia, e senza patire dolore. Ci prova allora Potter, ma l’esito è bruciante: “It damn well hurts!”. Certo che fa male, eccome; e allora, qual è il trucco?: “The trick, William Potter, is not minding that it hurts”.
A David (Michael Fassbender) questa scena piace, come tutto il film (Lawrence d’Arabia, David Lean, 1962), proiettato in grande e mandato a memoria mentre si occupa della Prometheus, in viaggio da due anni (ma ci siamo quasi; è il 2093). Forse lo diverte il fatto che lui, nato androide in un laboratorio della Weyland Corporation, potrebbe ripetere il giochino e fingere senza alcun problema di non sentire dolore (anzi, non dovrebbe neppure fingere, o fingere di fingere). Forse, nella compostezza british di Peter O’Toole intravede un umano non proprio umano, più simile a lui – e, come lui, abituato a giocare doppio, e con qualche disturbo da maniaco del controllo. Forse quella scena e tutto il film gli servono a capire qualcosa in più degli esseri umani, soprattutto i loro comportamenti all’interno di contesti “camerateschi” e bellici come quello in cui si ritrovano David e gli altri passeggeri dell’astronave, tutti umani, e al momento raffreddati in un sonno a lungo termine. O forse, ancora, di quello scambio di battute lo diverte il fatto che la capacità di Lawrence di non manifestare un sentimento come la sofferenza possa addirittura rappresentare una qualità magica e ludica. Di lì a poco, quando gli altri componenti dell’equipaggio della Prometheus saranno risvegliati, David non potrà più sfuggire alla realtà: per tutti, è l’androide senza sentimenti, e così – come una creatura senz’anima, ma al tempo stesso “il figlio che non ho mai avuto” – sarà presentato all’equipaggio dall’ologramma del finanziatore dell’impresa, Peter Wayland. Ma via via che la trama si dispiega, il significato di quella frase – di quel non dar peso o evidenza al “trucco”, di quella capacità di fingere che non ci sia sofferenza – si chiarisce su un piano più generale, così come il ruolo di David: solo chi non sente o sa fingere che “non importa” può davvero capire. Gli umani, troppo umani, sono destinati a inquinare la conoscenza col sentimento, il sapere col sentire, la verità coi perché. E per questo il mistero dell’origine della vita è loro precluso. David, novello Prometeo, può invece maneggiare il cerino della vita, senza scottarsi; e può guardare negli occhi chi per primo giocò col fuoco (che, coi miti greci ormai lontani, ha la forma dell’elica del DNA). […]


SCIENCE FICTION REBORN
Il panorama fantascientifico degli ultimi anni
di Roy Menarini

[…] Sarà anche una forzatura storica, eppure il mito cinefilo secondo cui fantascienza e horror non fioriscono mai nello stesso periodo ha una sua validità. Basta scorrere i decenni e ci si accorge che gli anni Trenta sono appannaggio dell’orrore, i Cinquanta della fantascienza, i Sessanta dell’horror fino al Pianeta delle scimmie e 2001, i Settanta dell’horror, i Novanta della fantascienza (l’horror si rifugiava nel quiz stile Scream), e così via. Gli anni Duemila dell’11 settembre e delle guerre al terrore vedono nuovamente trionfare l’orrore con il torture-porn (saga di Hostel, di Saw, ecc.) e i remake dei film anni Settanta, da L’alba dei morti viventi a Le colline hanno gli occhi. Una teoria che fa acqua, se verificata anno per anno, ma grosso modo utile e centrata. L’horror sorge nei momenti di guerra cruenta, di tensione crudele, di violenza esplicita, dal Vietnam all’Iraq, la fantascienza interpreta le crisi immateriali (come quelle economiche), le tensioni latenti (il maccartismo o la paura atomica), i vaticini più neri, come quando negli anni Novanta ha più volte anticipato il terrorismo islamico (Independence Day).
Nei primi anni Duemila, la scarsità di titoli e produzioni era tale che forse mai si era vista una crisi di idee di queste proporzioni, leggibile in termini di autocensura industriale, causata dal senso di colpa per aver fornito un immaginario catastrofico ad Al-Quaeda.
Poi, ovviamente, il clima culturale si è via via rarefatto e l’industria, complice il lancio del nuovo 3D, si è rifatta viva, ovviamente puntando su Avatar di James Cameron, un film perfetto per il suo ecologismo generalizzato, lo spirito “bio”, il messaggio antimilitarista, e tutte quelle cose che Hollywood fa nei blockbuster, flagellando il capitalismo e l’avidità globale di cui pure si nutre come un predatore. […]


«TOUCH A SCIENTIST AND YOU TOUCH A CHILD.»
RAY BRADBURY, La scrittura che sopravvive
di Massimiliano Spanu

[…] ATTRATTO DAL MERAVIGLIOSO e dalla dominanza del perturbante nel quotidiano americano, così potentemente messo in scena dai suoi racconti - in quelli che lui chiamava, con bella formula, “i ricordi del futuro” - Ray Bradbury (nato a Waukegan, nell’Illinois, il 22 agosto del 1920, scomparso a Los Angeles il 5 giugno di quest’anno) è diffusamente considerato uno dei più grandi scrittori di fantascienza e del mistero di tutti i tempi. Doverosamente, diremmo che è stato uno degli scrittori più significativi della nostra epoca: la sua narrazione - di bizzarrie, di stranezze rese in quadretto familiare, di vampiri che tornano a casa (“Homecoming”), o di misteriosi insediamenti umani che inaspettatamente si scoprono su Marte, e che ricalcano ad absurdum proprio il Midwest (in “Martian Chronicles”, 28 racconti sulla colonizzazione del Pianeta Rosso) - ha standardizzato affascinanti modalità narrative particolarmente apprezzate dal lettore medio, e predisposto universi diegetici in sottile equilibrio tra scienza e favola, cui il cinema e, soprattutto, la televisione hanno attinto a piene mani. La sua opera, diffusa in innumerevoli paesi e tradotta in più di quaranta lingue diverse, ha rappresentato un oggetto di notevole interesse per l’industria dell’audiovisivo. Bradbury, non a caso, ha lavorato alla produzione di almeno un centinaio di episodi di molte delle serie più famose del piccolo schermo. Vanno ricordate le sessanta e più puntate nel bellissimo "The Ray Bradbury Theater", ove lo scrittore appare come autore del soggetto e narratore/attore peridiegetico che, nell’intro di “cornice” narrativa, ci accompagna nelle viscere del suo sancta sanctorum, l’ufficio, e batte a macchina il titolo della serie (in una bella equazione tra corpo attoriale-autoriale, esercizio letterario, materia dell’immagine stessa); vari e significativi episodi di "The Alfred Hitchcock Hour", uno dei quali ripreso da Tim Burton per la realizzazione del suo The Jar, poi dal mediocre remake di Brandon Young; cinque episodi della fine degli anni Cinquanta per “Alfred Hitchcock Presents”; “The Twilight Zone”, cioè “Ai confini della realtà”; ma anche “American Masters”, "Un, dos, tres... responda otra vez" (sei episodi), ecc. ecc. Insomma, un’attenzione al piccolo schermo davvero degna di nota, quella di Bradbury (che ha meritato pure un Emmy Award per “The Halloween Tree”, nel 1992), soprattutto se consideriamo il fatto che mai è parso apprezzarne il medium (criticandone invece la natura ipnotizzante sin dal suo “Fahrenheit 451” nella simbolica figurina della moglie del pompiere incendiario Montag, alienata dalla “visione” al modo d’una contemporanea fan delle soap). […]

…segue per 6 pagine nel numero 172 di Blow Up, in edicola nel mese di settembre 2012 al costo di 6 euro.

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