The Cure
The Cure
di Bernardo De Tusci & Stefano I. Bianchi

Incurabile
Non è mai semplice l’approccio al percorso discografico dei grossi nomi, soprattutto se questi hanno segnato in maniera indelebile i nostri ascolti. Doveroso tentare di trovare all’interno della loro musica nuove sfumature, guardando il succedersi degli eventi attraverso un diverso punto di vista, correndo pure il rischio di essere poco obiettivi, esageratamente teneri nei confronti di palesi scivoloni per il troppo amore oppure eccessivamente duri verso ogni piccolo incidente di percorso, rischio che in ogni caso vale la pena di correre per parlare dei Cure.
Emerso a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, decennio quest’ultimo di cui è stato uno dei massimi emblemi riuscendo a carpirne umori sottotraccia e cambiamenti evidenti mantenendo allo stesso tempo uno stile prontamente riconoscibile, il gruppo di Robert Smith ci ha accompagnato in un lungo viaggio dove ogni passo era spesso una sorpresa e dove la parola attesa (per ogni loro nuova mossa) aveva veramente un senso. I Cure sono figli bastardi dei campioni del glam rock, fratelli minori dei punk, primattori nel rinnovamento portato dal post punk, idoli assoluti della darkwave, sottogenere in cui assurgono definitivamente a mito riuscendo a intercettare le diverse sfumature di nero che prendevano forma attraverso un vasto assortimento di individui dai vestiti scuri, trucco esagerato, acconciature estrose, esibizione di spille, bracciali, orecchini, croci e oggettistica varia, non sempre di gusto eccelso. Nella maggior parte delle loro biografie, l’attenzione si sofferma spesso sul legame con la darkwave (o gothic che dir si voglia), il settore del rock alternativo dove il senso di appartenenza, il sentirsi parte di un culto privilegiato, era più forte che altrove, e di come la band ne abbia accompagnato tutti i passaggi, da culto per pochi intimi a sottocultura e a suono con una forte identità capace in qualche caso anche di muovere cifre e numeri importanti. Al di là dell’immagine e dei segni identificativi, come tutte le sottoculture il mondo dark aveva i propri mentori, e non solo nell’ambito strettamente musicale. I punti di riferimento storici, che sono ovviamente anche quelli dei Cure (famosa la citazione de “Lo straniero” di Camus in Killing An Arab, che in seguito creerà loro non pochi grattacapi), sono principalmente nell’esistenzialismo e nel romanticismo, correnti di pensiero che si guardano dentro e mettono al centro il sentimento trovando tra gli animi più sensibili di quella generazione ingannata dalle lusinghe dell’Impero Occidentale terreno fertile per riproporsi in tutto il proprio spessore artistico e culturale. La capacità dei Cure è stata, anche nei periodi di maggior simbiosi con quel mondo, quella di riuscire ad andare oltre. Senza mettere minimamente in discussione il fatto che l’esistenzialismo e il romanticismo abbiano influenzato la scrittura del leader Robert Smith, c’era tra i loro fans pure un discreto plotone a cui dell’esistenzialismo, delle relazioni tra i Cure e Camus, della darkwave e dell’immaginario che ne consegue, interessava fino ad un certo punto e che trovava altri elementi, dal punto di vista strettamente musicale anche più interessanti, per apprezzarne il lavoro. Un paio su tutti: la capacità camaleontica di aggredire musicalmente il periodo di azione, di cogliere i cambiamenti e di assoggettare il proprio stile agli impulsi esterni, attraverso una serie di album sempre in movimento verso nuovi percorsi, e lo squisito gusto pop che ha in quantità sempre maggiore colorato le loro canzoni, soprattutto nel periodo post-”Pornography”, facendo emergere prepotentemente la figura di Robert Smith quale autore pop bizzarro e surreale, in linea con gli inglesi più genialoidi, in continuo movimento tra i generi, animato da una vena visionaria che, accompagnata dalla giusta dose di autoironia, lo ha portato, senza scadere nel ridicolo, a sconfinare pure in terreni alieni. […]

…segue per 20 pagine nel numero 318 di Blow Up, novembre 2024

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