THE BEATLES
THE BEATLES
Valerio Mattioli
I Beatles, a cinquant’anni da Love Me Do.
I BEATLES PER ME sono il gruppo da cui sarebbero nati i Wings. Non scaldatevi, mi spiego: avevo appena compiuto nove anni e per natale chiesi (e ottenni) “All the Best”, l’antologia del McCartney solista uscita nel 1987. In tv davano il video di Once Upon A Long Ago e io, praticamente da un giorno all’altro, mi scoprii fanatico mccartneyano (per i più distratti, ci ho anche scritto un articolo: vedi BU#149). Per i due anni seguenti, supplicai come possibile i miei di comprarmi qualsiasi cosa portasse la firma del Macca: arrivarono i dischi degli anni 80 e poi quelli coi Wings, tutta roba che alle mie orecchie suonava poco meno che celestiale. Il primo libro rock che lessi in vita mia, fu una (pessima) biografia di Paul; il primo concerto della mia vita, accompagnato dal babbo, sarebbe stato sempre di Paul; sapevo ovviamente che prima di sfornare capolavori tipo Live and Let Die, McCartney era stato uno di questi famosissimi Beatles. A un certo punto naturalmente ci arrivai, ma solo dopo aver esaurito l’intera discografia mccartneyana. Il fatto però è che nel frattempo mi erano presi altri interessi. In sostanza, ero passato alla mia fase Yes, ma non sto a farvela lunga; il succo è il seguente: non ho mai sentito il peso del mito beatlesiano, sono rimasto immune dalle lipotomie agiografiche che ne hanno decretato lo status di più grande complesso di ogni tempo e di ogni dove, e per molto tempo non ho mai capito perché una A Day in the Life dovesse essere considerata meglio di We All Stand Together. Eppure già all’epoca sapevo. Sapevo che questo mito esisteva, e che se c’era una musica inattaccabile, che piaceva a tutti, buona per grandi e piccini, era quella dei Beatles. Quantomeno, era quello che diceva Vincenzo Mollica (all’epoca già esisteva).
Quando dopo gli Yes mi immolai alla causa del punk (che strane che sono le traiettorie dell’adolescenza), ovviamente mandai a puttane tutto: se i Beatles piacevano a mamma e papà, a me facevano schifo. Vendetti pure qualche disco. Scoprii con un certo sollievo che no, non era vero che i quattro di Liverpool dovevano piacere a tutti. Sì, c’era anche quella storia, Beatles contro Stones, ma boh, la voce di Jagger mi ha sempre infastidito. Poi sapete, uno cresce, e negli anni 90 che bisogno c’era di stare appresso ai dinosauri di trent’anni prima quando uscivano capolavori tipo il dodici pollici degli Heroin e l’LP dei Gaunt (sigh)? Nel frattempo, il mito beatlesiano si perpetrava ipoteticamente all’infinito, uguale a se stesso da decenni. E non era solo faccenda da Vincenzo Mollica o rotocalchi in allegato a Repubblica. Ogni tanto saltava fuori qualche musicista che idolatravi – tipo non so, Colin Newman dei Wire – e quello ti diceva che i Beatles erano dei grandi eccetera eccetera. A volte mi veniva il sospetto che mi fosse sfuggito qualcosa. Magari non ci avevo capito niente. Magari A Day in the Life era oggettivamente meglio di We All Stand Together. Che fosse addirittura meglio degli Heroin? Sentite cosa dice Ian MacDonald, l’autore di quello che è più o meno il testo più serio mai pubblicato sull’argomento-Beatles, Revolution in the Head: “I risultati conseguiti dai Beatles sono stati tanto evidentemente splendidi da essere stati raramente messi in discussione. Il giudizio è concorde: i Beatles sono stati di gran lunga il miglior gruppo pop mai esistito”. Nientemeno! [...]
…segue per 6 pagine nel numero 173 di Blow Up, in edicola nel mese di ottobre 2012 al costo di 6 euro.
• Se non lo trovate in edicola potete ordinarlo direttamente dal nostro sito (BU#173) al costo di 10 euro - spese postali incluse - e vi verrà spedito immediatamente via posta prioritaria. Se lo richiedete dopo il mese di riferimento dell’uscita vi verrà spedito, come ogni altro arretrato, con l’invio mensile di abbonamenti e arretrati.
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
I BEATLES PER ME sono il gruppo da cui sarebbero nati i Wings. Non scaldatevi, mi spiego: avevo appena compiuto nove anni e per natale chiesi (e ottenni) “All the Best”, l’antologia del McCartney solista uscita nel 1987. In tv davano il video di Once Upon A Long Ago e io, praticamente da un giorno all’altro, mi scoprii fanatico mccartneyano (per i più distratti, ci ho anche scritto un articolo: vedi BU#149). Per i due anni seguenti, supplicai come possibile i miei di comprarmi qualsiasi cosa portasse la firma del Macca: arrivarono i dischi degli anni 80 e poi quelli coi Wings, tutta roba che alle mie orecchie suonava poco meno che celestiale. Il primo libro rock che lessi in vita mia, fu una (pessima) biografia di Paul; il primo concerto della mia vita, accompagnato dal babbo, sarebbe stato sempre di Paul; sapevo ovviamente che prima di sfornare capolavori tipo Live and Let Die, McCartney era stato uno di questi famosissimi Beatles. A un certo punto naturalmente ci arrivai, ma solo dopo aver esaurito l’intera discografia mccartneyana. Il fatto però è che nel frattempo mi erano presi altri interessi. In sostanza, ero passato alla mia fase Yes, ma non sto a farvela lunga; il succo è il seguente: non ho mai sentito il peso del mito beatlesiano, sono rimasto immune dalle lipotomie agiografiche che ne hanno decretato lo status di più grande complesso di ogni tempo e di ogni dove, e per molto tempo non ho mai capito perché una A Day in the Life dovesse essere considerata meglio di We All Stand Together. Eppure già all’epoca sapevo. Sapevo che questo mito esisteva, e che se c’era una musica inattaccabile, che piaceva a tutti, buona per grandi e piccini, era quella dei Beatles. Quantomeno, era quello che diceva Vincenzo Mollica (all’epoca già esisteva).
Quando dopo gli Yes mi immolai alla causa del punk (che strane che sono le traiettorie dell’adolescenza), ovviamente mandai a puttane tutto: se i Beatles piacevano a mamma e papà, a me facevano schifo. Vendetti pure qualche disco. Scoprii con un certo sollievo che no, non era vero che i quattro di Liverpool dovevano piacere a tutti. Sì, c’era anche quella storia, Beatles contro Stones, ma boh, la voce di Jagger mi ha sempre infastidito. Poi sapete, uno cresce, e negli anni 90 che bisogno c’era di stare appresso ai dinosauri di trent’anni prima quando uscivano capolavori tipo il dodici pollici degli Heroin e l’LP dei Gaunt (sigh)? Nel frattempo, il mito beatlesiano si perpetrava ipoteticamente all’infinito, uguale a se stesso da decenni. E non era solo faccenda da Vincenzo Mollica o rotocalchi in allegato a Repubblica. Ogni tanto saltava fuori qualche musicista che idolatravi – tipo non so, Colin Newman dei Wire – e quello ti diceva che i Beatles erano dei grandi eccetera eccetera. A volte mi veniva il sospetto che mi fosse sfuggito qualcosa. Magari non ci avevo capito niente. Magari A Day in the Life era oggettivamente meglio di We All Stand Together. Che fosse addirittura meglio degli Heroin? Sentite cosa dice Ian MacDonald, l’autore di quello che è più o meno il testo più serio mai pubblicato sull’argomento-Beatles, Revolution in the Head: “I risultati conseguiti dai Beatles sono stati tanto evidentemente splendidi da essere stati raramente messi in discussione. Il giudizio è concorde: i Beatles sono stati di gran lunga il miglior gruppo pop mai esistito”. Nientemeno! [...]
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000