The Allman Brothers Band
The Allman Brothers Band
di Carlo Babando

Ci avevano messo un po’ Duane e Gregg per far comprendere alla madre che andare una sera sì e una no dall’altra parte dei binari, nel quartiere dei negri, non era una cosa di cui vergognarsi. Rimasta vedova ancora giovane, con il marito trapassato da un proiettile al torace e la mano di un pazzo a tremare dall’altra parte della pistola, Geraldine aveva cambiato città e lavoro più volte di quanto ricordasse. Alla fine degli anni cinquanta, dopo aver già respirato l’aria agreste del Tenneesse e della Virginia, mamma e figli si trovavano infine ad abitare in un modesto appartamento a due passi dall’oceano, tra le palme di Daytona Beach, Florida. A quei tempi tutta la zona ruotava intorno a pochi ma importanti elementi, che risultavano di fondamentale importanza per una sana sopravvivenza sulla costa occidentale: decine di chilometri di spiaggia, mai troppo affollata, che richiamava frotte di turisti dall’intero circondario; tanti surfisti pronti a cavalcare l’onda più alta fregandosene allegramente dell’osso del collo; ma soprattutto una masnada di adolescenti in fregola per la chitarra elettrica e, neanche a dirlo, per tutte le ragazze in bikini spalmate sotto il sole (non necessariamente in quest’ordine). Duane e il fratello minore Gregg rientravano fuor di dubbio tra coloro che provavano a cavare fuori qualcosa dalle sei corde e dai bikini, preoccupandosi assai meno di frequentare con assiduità le lezioni a scuola: anche perché si erano sciroppati un mucchio di anni in un orribile collegio militare e di rigare dritto se ne preoccupavano solo quando Geraldine era in casa, cioè quasi mai. Il primo a portarsi dietro una chitarra a tracolla era stato Gregg, dopo un tentativo abortito sul nascere di approcciare lo studio della tromba, a cui era seguita l’infatuazione immediata per quelle due o tre frasi di blues che un amico del quartiere gli mostrava maneggiando in veranda una piccola Harmony acustica. Il problema fu che, non appena Duane – che prima di quel giorno si era interessato alla marmitta della sua Harley Davidson e a poco altro – provò a capire cosa fosse il manico di una chitarra, nessuno riuscì più a staccarlo da lì. Ci passava giorno e notte, piegato su arpeggi, fingerpicking e bicordi, al punto tale che iniziò a cercare la compagnia giusta per andare oltre a tutta quella maledetta surf music che impestava l’etere e di cui ogni angolo di Daytona Beach pareva essere stato contagiato. Voleva imparare qualcosa di nuovo con cui misurarsi, qualcosa di vero come quei brani che intercettava sintonizzandosi sulle frequenze della WLAC, una delle poche stazioni radio in cui al posto del country passavo ininterrottamente Muddy Waters, Albert King, Howlin’ Wolf e compagnia. Ma come fare? I due ragazzi, entrambi dai capelli biondo miele – lasciati crescere un po’ troppo oltre il collo per non tirarsi dietro le occhiatacce dei parenti – iniziarono a fare amicizia con la “parte nera” della città. Era in quelle strade che soul, blues e r&b fornivano l’intera colonna sonora, tutto il giorno e tutti i giorni. Così finivano per passare le giornate dentro la bottega di un barbiere che acconciava capigliature totalmente diverse dalle loro, ma si dilettava anche a commerciare in sette pollici più o meno usurati della Atlantic e della Chess Records. Su quelle etichette, al centro di ogni piccolo tesoro in vinile, c’erano esattamente gli stessi nomi che i fratelli Allman captavano sulla WLAC ogni notte e sui cui riff si intestardivano a costruire un vagheggiato futuro da musicisti: da lì a decidere di mettere in piedi una band vera e propria ci volle meno del previsto. Erano nati gli Allman Joys. […]

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