Synthpunk 2
Synthpunk 2
di Federico Guglielmi
“I sintetizzatori offrivano possibilità illimitate non solo come strumenti, ma anche come generatori di suono/rumore. Se sei creativo, per suonarne uno non devi per forza essere un grande musicista, perché il synth rende automatiche un sacco di cose. Mi sembravano il perfetto strumento punk “fai-da-te”. (Scott Ryser, The Units)
La prima parte di questo dossier, focalizzata sul panorama di Los Angeles, ha fatto emergere un dato assai importante: quando nel 1999 il ventunenne Damian Ramsey lanciò on line il suo famoso sito synthpunk.org, teorizzando l’esistenza a cavallo tra i ’70 e gli ’80 di una scena a stelle e strisce votata al punk suonato solo con sintetizzatori (o comunque con le tastiere elettroniche nel ruolo tradizionalmente rivestito dalle chitarre), conferì di fatto la patente di (sotto)genere a una tendenza non così diffusa da rendere davvero necessaria l’invenzione di un termine specifico per definirla. Accettando la sua rigorosa visione e sottoponendo a una lucida analisi le produzioni delle quattro band (sì, appena quattro: tre in California e una a New York) da lui accomunate nella categoria, risulterà infatti palese come l’etichetta sia valida al 100% unicamente per gli Screamers, i soli abbastanza “cattivi” - nelle trame musicali, nel canto, nel modo di proporsi in concerto - da poter essere inequivocabilmente qualificati come punk; ben più punk, in ogni caso, dei loro concittadini e (possibili) discepoli Nervous Gender, che in effetti utilizzavano solo synth, erano spigolosi e avevano in repertorio alcuni brani piuttosto trascinanti ma nel complesso mettevano in evidenza sintonie più marcate con post-punk e industrial. Diverso il caso dei numerosi gruppi dall’indole punk che facevano anche uso di synth o tastiere “trattate”; è principalmente su di essi, quasi sempre meritevoli di attenzione proprio per la loro natura ibrida, che sono stati puntati i riflettori nel capitolo iniziale ed è ancora ad essi che saranno destinate le pagine a seguire, contestualizzandoli e illustrandone le affinità (e le divergenze) con il modello ideale individuato da Ramsey. Come per Los Angeles, dagli sforzi è derivato un quadro informativo con mille sfaccettature tra loro coerenti - o, almeno, non incoerenti - capaci di offrire uno spaccato ampio, composito e policromo degli artisti di tale indirizzo stilistico attivi nel vivace circuito underground della Bay Area (San Francisco, Oakland, Berkeley…) nei giorni cruciali dello sviluppo del punk e del post-punk. […]
…segue per 8 pagine nel numero 248 di Blow Up, in edicola a gennaio 2019
• Se non lo trovate in edicola potete ordinarlo direttamente dal nostro sito (BU#248) al costo di 10 euro (spese postali incluse) e vi verrà spedito immediatamente come piego di libri.
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
“I sintetizzatori offrivano possibilità illimitate non solo come strumenti, ma anche come generatori di suono/rumore. Se sei creativo, per suonarne uno non devi per forza essere un grande musicista, perché il synth rende automatiche un sacco di cose. Mi sembravano il perfetto strumento punk “fai-da-te”. (Scott Ryser, The Units)
La prima parte di questo dossier, focalizzata sul panorama di Los Angeles, ha fatto emergere un dato assai importante: quando nel 1999 il ventunenne Damian Ramsey lanciò on line il suo famoso sito synthpunk.org, teorizzando l’esistenza a cavallo tra i ’70 e gli ’80 di una scena a stelle e strisce votata al punk suonato solo con sintetizzatori (o comunque con le tastiere elettroniche nel ruolo tradizionalmente rivestito dalle chitarre), conferì di fatto la patente di (sotto)genere a una tendenza non così diffusa da rendere davvero necessaria l’invenzione di un termine specifico per definirla. Accettando la sua rigorosa visione e sottoponendo a una lucida analisi le produzioni delle quattro band (sì, appena quattro: tre in California e una a New York) da lui accomunate nella categoria, risulterà infatti palese come l’etichetta sia valida al 100% unicamente per gli Screamers, i soli abbastanza “cattivi” - nelle trame musicali, nel canto, nel modo di proporsi in concerto - da poter essere inequivocabilmente qualificati come punk; ben più punk, in ogni caso, dei loro concittadini e (possibili) discepoli Nervous Gender, che in effetti utilizzavano solo synth, erano spigolosi e avevano in repertorio alcuni brani piuttosto trascinanti ma nel complesso mettevano in evidenza sintonie più marcate con post-punk e industrial. Diverso il caso dei numerosi gruppi dall’indole punk che facevano anche uso di synth o tastiere “trattate”; è principalmente su di essi, quasi sempre meritevoli di attenzione proprio per la loro natura ibrida, che sono stati puntati i riflettori nel capitolo iniziale ed è ancora ad essi che saranno destinate le pagine a seguire, contestualizzandoli e illustrandone le affinità (e le divergenze) con il modello ideale individuato da Ramsey. Come per Los Angeles, dagli sforzi è derivato un quadro informativo con mille sfaccettature tra loro coerenti - o, almeno, non incoerenti - capaci di offrire uno spaccato ampio, composito e policromo degli artisti di tale indirizzo stilistico attivi nel vivace circuito underground della Bay Area (San Francisco, Oakland, Berkeley…) nei giorni cruciali dello sviluppo del punk e del post-punk. […]
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000