Slowdive
Slowdive
di Beppe Recchia
[nell'immagine: Slowdive,foto di Ingridpop]
Pochi generi come lo shoegaze hanno conosciuto un’inaspettata, quanto opportuna, rivalutazione dopo anni di irrisione, spesso per ragioni del tutto estranee al valore e al significato della musica. Che si sia trattato dell’indole schiva dei protagonisti (lo stesso termine shoegazing, coniato originariamente dalla stampa britannica per descrivere la necessità di fissare sul palco le proprie scarpe per destreggiarsi tra la gran quantità di pedali per la chitarra, divenne presto un modo per ironizzare sull’assenza di presenza scenica e su interviste condotte a monosillabi) o del (presunto) peccato originale dell’appartenenza al ceto medio (il rock, si sa, è anche questione di classe, e il di poco antecedente C86 ne aveva già pagato il conto), il genere è stato a lungo frainteso come l’anti-punk, tutto suono (sbiadito e introspettivo) e nessun messaggio.
Tra i gruppi del periodo “classico” dello shoegaze (più o meno tra il 1988 e il 1993), gli Slowdive sono quelli che hanno più sofferto il ruolo di archetipo, e dunque di perfetto capro espiatorio, di un movimento bollato come “senza volto” e “autoindulgente”: se nessuno mette in discussione che l’avvento del grunge prima, e del britpop poi, abbia vinto per K.O. l’assalto alle onde radiofoniche, è stata la stessa incapacità della critica e del pubblico di leggere l’ecletticità delle diverse traiettorie degli shoegazers che ne ha segnato il declino. A conti fatti, la pubblicazione di “Loveless” dei My Bloody Valentine nel 1991 e la sua consacrazione come disco definitivo ha reso apparentemente irrilevante tutto il resto, la favoleggiata bancarotta della Creation per il conto da un quarto di milione di sterline delle registrazioni dell’album è stato l’assist ideale per liquidare gli Slowdive come “i My Bloody Valentine che la Creation si può permettere”. […]
…segue per 6 pagine nel numero 304 di Blow Up, in edicola a settembre 2023
• Se non lo trovate in edicola potete ordinarlo direttamente dal nostro sito (BU#304) al costo di 12 euro (spese postali incluse) e vi verrà spedito immediatamente come ‘piego di libri’ (chi desidera una spedizione rapida ci contatti via email).
• Il modo migliore, più rapido, sicuro ed economico per avere Blow Up è l’abbonamento: non perderete neanche uno dei numeri pubblicati perché in caso di eccessivo ritardo o smarrimento postale vi faremo una seconda spedizione e riceverete a casa i quattro libri della collana trimestrale Director’s Cut il mese stesso della loro uscita per un risparmio complessivo di 60 euro!
Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
[nell'immagine: Slowdive,foto di Ingridpop]
Pochi generi come lo shoegaze hanno conosciuto un’inaspettata, quanto opportuna, rivalutazione dopo anni di irrisione, spesso per ragioni del tutto estranee al valore e al significato della musica. Che si sia trattato dell’indole schiva dei protagonisti (lo stesso termine shoegazing, coniato originariamente dalla stampa britannica per descrivere la necessità di fissare sul palco le proprie scarpe per destreggiarsi tra la gran quantità di pedali per la chitarra, divenne presto un modo per ironizzare sull’assenza di presenza scenica e su interviste condotte a monosillabi) o del (presunto) peccato originale dell’appartenenza al ceto medio (il rock, si sa, è anche questione di classe, e il di poco antecedente C86 ne aveva già pagato il conto), il genere è stato a lungo frainteso come l’anti-punk, tutto suono (sbiadito e introspettivo) e nessun messaggio.
Tra i gruppi del periodo “classico” dello shoegaze (più o meno tra il 1988 e il 1993), gli Slowdive sono quelli che hanno più sofferto il ruolo di archetipo, e dunque di perfetto capro espiatorio, di un movimento bollato come “senza volto” e “autoindulgente”: se nessuno mette in discussione che l’avvento del grunge prima, e del britpop poi, abbia vinto per K.O. l’assalto alle onde radiofoniche, è stata la stessa incapacità della critica e del pubblico di leggere l’ecletticità delle diverse traiettorie degli shoegazers che ne ha segnato il declino. A conti fatti, la pubblicazione di “Loveless” dei My Bloody Valentine nel 1991 e la sua consacrazione come disco definitivo ha reso apparentemente irrilevante tutto il resto, la favoleggiata bancarotta della Creation per il conto da un quarto di milione di sterline delle registrazioni dell’album è stato l’assist ideale per liquidare gli Slowdive come “i My Bloody Valentine che la Creation si può permettere”. […]
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000