di Matteo Moca

[nell'immagine: Sadie Plant, foto di David Sleator]

Finnegans wake di James Joyce è forse il libro che più di ogni altro è in grado di restituire plasticamente, a chi cerchi paziente riparo tra le sue pagine, l'esperienza del collegamento improvviso e, solo a quel punto, naturale, di cose all'apparenza lontane, come accade a neuroni che improvvisamente trovino sinapsi nuove e inaspettate. La parola di Joyce, infarcita di analogie, metafore, giochi sonori e letterari, è impressionante perché, come ha scritto in un suo saggio Edoardo Camurri, “porta a pensare l'impensabile”. Il libro di Joyce racconta, per quanto sia impossibile ridurne il moto perpetuo, i sogni che abitano la mente del protagonista durante una notte nella periferia di Dublino. Il protagonista si chiama Earwicker, un nome che rimanda all'insetto forbicina che, secondo alcune leggende, si introduce nelle orecchie di chi dorme fino a raggiungerne il cervello. Sempre Camurri, nel saggio intitolato Gnosticismo acido, che si legge nell'importante volume La scommessa psichedelica, aggiunge: “il lettore del Finnegans Wake è così sempre in movimento, il suo cervello è perennemente trasformato, percorso dallo zigzag della forbicina elettrica che collega le sinapsi per costringerle a associazioni impensate”. Questa forbicina diventa allora un ingrediente fondamentale della psichedelia che abita il romanzo di Joyce, un organismo che per certi versi assomiglia alle sostanze che continuamente rimescolano le carte della mente umana, gettano alle ortiche qualsiasi schema precostituito e, elemento forse ancora più importante, aprono le porte della percezione invitando alla scoperta del nuovo, dell'inusitato, dell'impensabile. […]

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