RPM: Popol Vuh "Hosianna Mantra"
RPM: Popol Vuh "Hosianna Mantra"
di Gino Dal Soler
Questa è la storia di un colpo di fulmine, uno di quelli destinati a durare nel tempo, ed è una storia che parte da lontano. Probabilmente da quell’imprecisato giorno del 1966, quando con i pochi spiccioli che mamma mi dava comprai il mio primo 45 giri non italiano: Paint It Black dei Rolling Stones, che così si univa al mucchietto degli altri dischetti di beat italiano: i Corvi, i Rokes, l’Equipe 84, l’adorata Caterina Caselli e poco dopo il tornado Yeeeeeh dei Primitives. Ma più di ogni altro mi piaceva ballare proprio quella Paint It Black le sere d’estate nel cortile sotto casa, insieme ad altri ragazzi tutti più grandi di me. Io ero un po’ la mascotte e siccome in paese dicevano che ero piuttosto bravo a dimenarmi nello shake, il ballo in voga del periodo, mi prendevano come fossi uno di loro. Abitavo in un paesino di montagna ai piedi delle Dolomiti, in quella via Bettola di Zorzoi di Sovramonte che proseguendo lungo la via portava dritto attraverso un sentiero sempre più stretto a quel misterioso Castel di Schenèr (proprio quello raccontato da Matteo Melchiorre nel nostro libro del mese di dicembre 2016), confine tra due micro mondi, quello del Feltrino e quello del Primiero. In quel contesto di sperduta provincia del nord, per altri versi piuttosto duro, c’erano spesso momenti felici e spensierati. Paint It Black fu per me uno di questi, mi colpiva quel suono ipnotico, quel riff ripetitivo che già guardava ad oriente, anche se io non sapevo ancora cosa fossero un sitar o le tablas o un dulcimer (strumenti che Brian Jones suonava all’epoca), mi piaceva semplicemente farmi trasportare su quel tappeto volante che mi pareva tanto strano ed esotico. Il tempo correva più veloce anche del pensiero e in un paio d’anni mi ritrovai per altre misteriose vie catapultato in quel di Brescia, dove vissi per i cinque anni delle scuole superiori, tornando al paese solo per le vacanze d’estate e le feste comandate. In collegio feci conoscenza con altri ragazzi di città ben più sgamati di me, che mi introdussero in men che non si dica nel fantasioso mondo del “prog”. Addio beat ingenuo, era tempo di buttarsi a capofitto su Genesis, King Crimson, Gentle Giant, EL&P, Van Der Graaf, i nostri Le Orme e PFM e poi tutti gli altri che potete immaginare. Finché un altro imprecisato giorno dell’anno 1972 (quello almeno lo ricordo) accadde il miracolo… […]
…segue per 6 pagine nel numero 235 di Blow Up, in edicola a dicembre 2017 al costo di 8 euro: NUMERO SPECIALE DI 180 PAGINE!
• Se non lo trovate in edicola potete ordinarlo direttamente dal nostro sito (BU#235) al costo di 10 euro - spese postali incluse - e vi verrà spedito immediatamente via posta prioritaria. Se lo richiedete dopo il mese di riferimento dell’uscita vi verrà spedito, come ogni altro arretrato, con il primo invio mensile di abbonamenti e arretrati.
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
Questa è la storia di un colpo di fulmine, uno di quelli destinati a durare nel tempo, ed è una storia che parte da lontano. Probabilmente da quell’imprecisato giorno del 1966, quando con i pochi spiccioli che mamma mi dava comprai il mio primo 45 giri non italiano: Paint It Black dei Rolling Stones, che così si univa al mucchietto degli altri dischetti di beat italiano: i Corvi, i Rokes, l’Equipe 84, l’adorata Caterina Caselli e poco dopo il tornado Yeeeeeh dei Primitives. Ma più di ogni altro mi piaceva ballare proprio quella Paint It Black le sere d’estate nel cortile sotto casa, insieme ad altri ragazzi tutti più grandi di me. Io ero un po’ la mascotte e siccome in paese dicevano che ero piuttosto bravo a dimenarmi nello shake, il ballo in voga del periodo, mi prendevano come fossi uno di loro. Abitavo in un paesino di montagna ai piedi delle Dolomiti, in quella via Bettola di Zorzoi di Sovramonte che proseguendo lungo la via portava dritto attraverso un sentiero sempre più stretto a quel misterioso Castel di Schenèr (proprio quello raccontato da Matteo Melchiorre nel nostro libro del mese di dicembre 2016), confine tra due micro mondi, quello del Feltrino e quello del Primiero. In quel contesto di sperduta provincia del nord, per altri versi piuttosto duro, c’erano spesso momenti felici e spensierati. Paint It Black fu per me uno di questi, mi colpiva quel suono ipnotico, quel riff ripetitivo che già guardava ad oriente, anche se io non sapevo ancora cosa fossero un sitar o le tablas o un dulcimer (strumenti che Brian Jones suonava all’epoca), mi piaceva semplicemente farmi trasportare su quel tappeto volante che mi pareva tanto strano ed esotico. Il tempo correva più veloce anche del pensiero e in un paio d’anni mi ritrovai per altre misteriose vie catapultato in quel di Brescia, dove vissi per i cinque anni delle scuole superiori, tornando al paese solo per le vacanze d’estate e le feste comandate. In collegio feci conoscenza con altri ragazzi di città ben più sgamati di me, che mi introdussero in men che non si dica nel fantasioso mondo del “prog”. Addio beat ingenuo, era tempo di buttarsi a capofitto su Genesis, King Crimson, Gentle Giant, EL&P, Van Der Graaf, i nostri Le Orme e PFM e poi tutti gli altri che potete immaginare. Finché un altro imprecisato giorno dell’anno 1972 (quello almeno lo ricordo) accadde il miracolo… […]
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000