RPM: Neil Young "On The Beach"
RPM: Neil Young "On The Beach"
di Ruben Gavilli

“Sed revocare gradum superasque evadere ad auras, hoc opus, hic labor est.”
Ma ritrovare la strada sui tuoi passi e ritornare su all’aperto,
questo è il vero scopo e la vera impresa.
[Virgilio, Eneide, Canto VI, vv. 129-130]

Sgombero subito il campo dalla mia esperienza personale, priva di aneddoti memorabili. Sono cresciuto con una raccolta di spartiti di Neil Young, un libro che comprende gli album dal 1969 al 1972, i due capolavori del primo periodo, “After The Gold Rush” e “Harvest” e le canzoni presenti in “Déjà Vu” con Crosby, Still e Nash.
Nonostante il libro sia presente fin dai primi ricordi d’infanzia, ebbi modo di scoprire la sua musica solo negli anni dell’adolescenza: fino a quel momento, Neil Young rimaneva un tizio accipigliato, ritratto nel libro, e le sue canzoni corrispondevano a una valanga di spartiti, accordi e testi. Un’infinita lettura, che in mancanza dell’esperienza uditiva, non comunicava molto. Al massimo potevo sperare di trovare ispirazione nelle fotografie all’interno del libro: ritraevano Young insieme ad altri musicisti, in camere d’albergo, su jet privati, nei backstage dei concerti, oppure al volante di macchine d’epoca in aperta campagna. Non ricordo che effetto facessero quelle foto, forse nessuno.
Un pomeriggio d’autunno, durante i primi anni delle superiori, comprai un “Live at Fillmore East” del 1970, la prima di una lunga serie di uscite provenienti dagli inesauribili archivi di Young. Ironia del destino: era proprio il periodo del mio libro, ma nessuna delle canzoni era presente: il concerto veniva dal tour promozionale del disco coi Crazy Horse, “Everybody Knows This Is Nowhere”. Questo fece sì che il mio interesse per Neil Young scemasse presto, anche perché molto distante dalla musica che ascoltavo: non c’entrava proprio nulla con gli Smashing Pumpkins, i Verdena, i Queens Of The Stone Age, gli Strokes e il punk inglese. Mi era stato assicurato che Neil Young fosse garanzia di qualità, ma a me, il talento di quel tizio cupo e smunto, sfuggiva. Alcune canzoni non erano male, come Winterlong e Everybody Knows This Is Nowhere, ma per il resto non mi pareva niente di che: il suono della chitarra era troppo asciutto e si lasciava andare malvolentieri a tecnicismi sprecisi, la sezione ritmica da country-rock insisteva su strutture semplici, oppure estremamente ripetitive. Le melodie non erano immediate e anzi, si inerpicavano su cambi continui di accordi e il gusto stesso mi sembrava vecchio e difficile. Per non parlare della voce: sempre sul punto di rompersi e sul filo della stonatura. Di sicuro si addiceva alla figura triste di Neil Young, ma non generava un’attrattiva irresistibile. […]

[Neil Young, foto di Henry Diltz]

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