Richard H. Kirk - Cabaret Voltaire
Richard H. Kirk - Cabaret Voltaire
di Vittore Baroni, Massimiliano Busti, Federico Guglielmi e Christian Zingales

Once upon a time in Sheffield
(percorsi obliqui tra avanguardia, punk e dance)
di Federico Guglielmi

All’epoca del mio secondo viaggio “per dischi” a Londra, nel marzo del 1979, di Sheffield sapevo pochino: che si trovava nel nord dell’Inghilterra, che aveva dato i natali a Joe Cocker e che era un importante centro industriale. Le cose cambiarono dopo il mio imprescindibile blitz da Rough Trade, nella storica sede situata al 202 di Kensington Park Road. Da alcuni mesi il negozio aveva varato un’etichetta omonima e tra le prime uscite - acquistate tutte assieme - c’era il 7”EP di debutto di una band della quale conoscevo solo la buona reputazione nel circuito underground; vantava un nome di bell’impatto ispirato al Dadaismo e tra i quattro episodi del disco, edito nell’autunno 1978 con il laconico titolo Extended Play, ce n’era uno in apparenza “rischioso”, Do The Mussolini (Headkick). Il mio primo incontro con i Cabaret Voltaire da Sheffield avvenne così; ne seguì immediatamente un altro, subito dopo il rientro a Roma, volto ad appurare se il testo del pezzo fosse un’apologia per il mascellone. Constatato che non lo era, mi dedicai con maggior serenità alla scoperta dei circa sedici minuti di musica “pigiati” dal trio nel 45 giri e dei quasi sette totali - due tracce, Baader-Meinhof e Sex In Secret - del doppio 7”EP “A Factory Sample” della Factory, comprato nella stessa infornata. Mi piacquero, ma a dir la verità non mi folgorarono. Il loro ombroso minimalismo costruito su basso, chitarra, nastri manipolati, elettronica e voci filtrate era interessante e la cover di Here She Comes Now dei Velvet Underground aveva il suo perché, ma nella mia discutibile visione di allora pativa l’assenza di due elementi-chiave: l’energia tipica del punk, che ancora impazzava ovunque, e le stravaganze ironiche tanto presenti, ad esempio, nei miei beniamini Residents. A mettere tutto a posto, obbligandomi a inserire tra gli emergenti da tener d’occhio Chris, “Mal” e Richard (queste le generalità dichiarate nel retrocopertina, come da brutto costume di quel periodo: i cognomi apparivano assai di rado), fu di lì a qualche mese il singolo Nag Nag Nag: un artwork con una fotografia dei tre sul palco che evocava suggestioni psichedeliche rese sinistre dal bianco/nero e un sound sempre sperimentale ma potente, distorto e incalzante, in ideale sintonia con certi brani dei coevi Chrome. Qui mi convinsi della nascita di una stella; o, meglio, di un più affascinante buco nero. […]

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