REBETIKO
REBETIKO
di Giovanni Vacca
SI È FATTO un gran parlare in Italia negli ultimi tempi del rebetiko. Il disco di Vinicio Capossela Rebetiko Gymnastas (La Cùpa/Warner Music 2012), seguito dal film Indebito, girato dal cantautore con il regista Daniele Segre, hanno portato all’attenzione del grande pubblico una musica che solo fino a qualche anno fa era roba da addetti ai lavori: etnomusicologi, studiosi di popular music, cultori di generi urbani d’antan. L’interesse verso il rebetiko, però, è da inquadrare anche nella sempre maggiore attenzione che si va sviluppando verso quelle forme musicali, a lungo neglette, nate agli inizi del secolo scorso nelle grandi città e che, pur avendo senza dubbio tutte una storia diversa, hanno in comune almeno il fatto di essere propriamente ‘urbane’: nate cioè in città in relazione alle classi sociali che in città si andavano formando e che avrebbero dato vita a nuovi modi di ascolto e di esecuzione, lontani dalla ritualità contadina o pastorale e interamente dentro una logica di intrattenimento. Non canto folklorico dunque, dove per folklorico s’intende rurale, il rebetiko è un genere propriamente cittadino, al pari per esempio del tango rioplatense, del fado portoghese, del flamenco andaluso, della stessa canzone napoletana. La riscoperta di questi generi è poi, forse, anche un effetto positivo dell’emancipazione delle musiche di ogni latitudine dai loro ambiti locali, dovuta a quel fenomeno, pur commerciale negli intenti, definito ‘world music’, che nel suo riflusso ha lasciato dietro di sé un’enorme quantità di repertori prima sepolti o fruiti solo nei luoghi di origine e che sono per la prima volta emersi in superficie e messi a disposizione di un pubblico più vasto. Può quindi risultare utile, anche alla luce anche del dibattito in corso tra gli studiosi, una rilettura critica di un genere come il rebetiko, per certi aspetti paradigmatico nella sua vicenda perché presenta tutte le caratteristiche necessarie a entrare nel mito (ed a restarci): musica ‘meticcia’, suonata da individui emarginati e ribelli, canto legato a una forma di vera e propria controcultura, inviso alle autorità e da queste censurato, recuperato solo successivamente nella consapevolezza che il suo periodo aureo, consumatosi tra gli anni ’20 e la Seconda Guerra Mondiale, era ormai lontano ma che ce lo si poteva immaginare grazie a non poche registrazioni d’epoca, ormai ‘classiche’ come quelle dei bluesmen d’oltreoceano. […]
…segue per 8 pagine nel numero 193 di Blow Up, in edicola a Giugno 2014 al costo di 6 euro
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
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