QUENTIN TARANTINO
QUENTIN TARANTINO
a cura di Roberto Curti

In occasione dell’uscita di Django Unchained, il nuovo film di QUENTIN TARANTINO, un lungo speciale dove rivisitiamo tutta la carriera del regista statunitense.


CONTRO LA COMUNICAZIONE (QUENTIN TARANTINO)
di Lorenzo Esposito

QUENTIN TARANTINO è un prototipo e un fallimento. Un prototipo perfetto e un fallimento mirabile. Tuttavia entrambe le pose letteralmente non lo riguardano. Il prototipo ce lo siamo inventati noi e il fallimento è il nostro.
Ovviamente non è un caso isolato. Come tutti quelli di cui si scrive troppo e si vocifera altrettanto, più che un soggetto con cui confrontarsi è un oggetto in sé consumato e consunto. Senza scomodare Walter Benjamin (perché è chiaramente di un’ideologia che stiamo parlando), basti dire per ora che è molto probabile che l’equivoco di fondo sul cinema tarantiniano risieda proprio nella trasparenza con la quale si dipana l’oggetto del suo desiderio. Intanto, lo si ripete, non è l’unico. In ordine di affioramento: David Cronenberg, David Lynch, John Carpenter, Dario Argento: tutti invariabilmente sommersi dalle parole, dalle tesi di laurea, dagli amori indefessi e tutti invariabilmente giudicati oggi dei traditori o dei rimbambiti (Tarantino è ancora abbastanza fermo alla prima fase, ma non disperi, arriverà il suo momento).
Di cosa stiamo parlando? Ebbene, della pura e semplice comunicazione, cioè precisamente l’aspetto ebete e superficiale, e dunque di orrenda evidenza, della irraccontabile messe di sviamenti e sotterfugi, che avvicinano quotidianamente, senza che se ne faccia impensierire, l’umanità al nulla. Nel nostro caso il nulla è l’architettura inerte e bucata di etichette (non parole) con cui, da qualunque parte lo si veda, di fatto Tarantino viene da subito e sempre mancato e sottovalutato: pulp e cult anzitutto, e poi tutte le apparenti sofisticazioni legate al mito del videotecaro metatestuale che tracima i generi, inventa uno stile, e così via, fino a occhieggiare l’ultima stampellina della rinascita del cinema per la via, in altri tempi insperata (qui è al lavoro l’ideologia opposta), di una stupefacente ritessitura dei resti della cultura di massa. […]


I’M GONNA DJ
di Roberto Curti

«You ever listen to K-Billy's "Super Sounds of the Seventies" weekend? It's my personal favorite» (Mr. Blonde – Le iene)

IN VENT’ANNI DI CARRIERA, su Tarantino s’è scritto di tutto e di più. Non stupisce, quindi, che l’attitudine a ricombinare, appiccicare, missare cinema abbia portato qualcuno a coniare la definizione di Quentin Tarantino come regista-DJ[1]. Etichetta bizzarra ma efficace, al di là dell’immediata associazione mentale: come per un disc jockey è fondamentale la familiarità con un serbatoio di musica da cui pescare per le proprie esibizioni, l’ex commesso di videoteca ha nel proprio database mentale una panoramica esaustiva della cinematografia di ogni tempo e genere che riutilizza e riplasma nel proprio cinema. Proseguendo nella similitudine, quello di QT è un mix-and-match creativo di generi e pellicole differenti, che ne piega tempi filmici e modalità narrative alle proprie esigenze, manipolando i singoli film come i 12” che il disc jockey mette sui piatti. Un turntablism, il suo, che si esercita sui riff visivi/tematici delle opere, sulla loro grammatica espressiva, sullo stile. Spingendosi più in là con gli accostamenti, ecco il chopping (la cronologia mandata all’aria), il beat juggling (l’utilizzo del dialogo in funzione ritmica), lo slip-cueing (le sospensioni e le improvvise accelerazioni dei Mexican standoff di Le iene e Bastardi senza gloria), il chopped and screwed (gli interventi sulla pellicola in A prova di morte), il phrasing (le sovrapposizioni cronologiche di Pulp Fiction e Jackie Brown). E ovviamente il sampling, elevato alla massima potenza nel dittico Kill Bill.
Se nella ricombinazione di generi e testi filmici si esercita la creatività del regista di Knoxville, nell’uso della musica nei suoi film Tarantino è soprattutto uno scaltro selector. E in Le iene il suo alter ego è proprio un DJ (cui presta voce Steven Wright) che trasmette dalla fittizia stazione radio “K-Billy’s Super Sound of the Seventies”. «Mi piaceva l’idea di ascoltare musica pop bubblegum, rock’n’roll per quattordicenni. E ho pensato che fosse un gran contrappunto ironico alla ruvidezza, alla scorrettezza e alla natura disturbante del film»[2]. Il che vale in primis per la celeberrima scena della tortura, dove l’orecchiabilità pop di Stuck in the Middle with You commenta incongruamente l’atrocità dell’atto mostrato. Benché di indiscutibile efficacia, non è certo un espediente inedito (basti pensare a Singin’ in the Rain canticchiata da Malcolm McDowell nella scena di stupro di Arancia meccanica): più interessante, semmai, il recupero di vecchi singoli di successo finiti nel dimenticatoio come Little Green Bag della George Baker Selection o Stuck in the Middle with You degli Stealers Wheel di Gerry Rafferty, che mostra il gusto tarantiniano per il recupero di chicche del passato a fini icastici (scatenando di fatto un’appropriazione di secondo grado da parte di programmi tv, pubblicità, eccetera), nonché l’utilizzo della canzone nella sua integralità, corollario dell’attenzione del regista alla dilatazione dei tempi filmici. […]


JUNK FOOD FOR THOUGHT
Tarantino e l’abbuffata del postmoderno
di Roberto Curti

UNA DELLE SCOPERTE più divertenti che si possano fare a proposito del regista di Django Unchained è, sfogliando un’intervista a Peter Brunette datata 1992, incappare in un Tarantino che, reduce da un tour parigino – lui, ex commesso di videoteca che non ha mai messo piede fuori città e ha visto la neve per la prima volta quando ha presentato Le iene al Sundance Film Festival –, svela la propria passione per McDonald’s. «Adoro andare da McDonald’s negli altri paesi. La differenza? A Parigi, da McDonald servono birra. E non lo chiamano Quarter Pound, perché lì hanno il sistema metrico decimale: lì c’è Le Royale with Cheese! Non sanno cosa diavolo sia un Quarter Pound!»[1]. Ricorda qualcosa? Esatto, è lo stesso monologo che sentiremo un paio d’anni dopo per bocca di John Travolta in Pulp Fiction.
Che Tarantino, da fanatico della junk culture statunitense, fosse un aficionado di fast food e diners (le interviste ai tempi di Le iene e Pulp Fiction avvenivano spesso ai tavoli di Dennys, la catena preferita di QT), era prevedibile. I suoi primi due film iniziano lì, in uno scenario che è quello di un tipico spaccato di vita ordinaria: tavoli in fòrmica, sedili in finta pelle, schifezze ipercaloriche nel piatto da buttar giù con tazzone di caffè che la solerte cameriera (non chiamatela garçon, mi raccomando!) dovrà riempire almeno sei o sette volte per guadagnarsi la mancia, almeno secondo i parametri di mr. Pink (Steve Buscemi) in Le iene. Ma i personaggi non sono lì (solo) per mangiare. C’è chi passa il tempo in attesa di una rapina, e chi pianifica una rapina in quello stesso luogo: nell’attesa, si parla.
Tarantino è un acuto osservatore comportamentale: e sa bene che l’atto di mangiare non si esaurisce nella meccanicità del gesto (salivazione, masticazione, digestione), ma può avere una valenza simbolica. Lo sa perché l’ha visto fare al cinema. La scena di Pulp Fiction in cui Jules (Samuel L. Jackson) morde l’hamburger dell’uomo che sta per uccidere, assaporandolo e accompagnandolo con un sorso di Sprite, senza mollare un attimo l’altro con lo sguardo, è un espediente scippato al maestro dei tempi lunghi, Sergio Leone. Una replica del bounty killer Sentenza (Lee Van Cleef) il quale, in Il buono, il brutto, il cattivo, si siede al desco di una vittima e si appropria della sua cena, una misera zuppa di verdure. Il gesto è sfacciatamente intimidatorio, addirittura umiliante: vengo a casa tua, mi prendo la tua roba – il tuo cibo – come tu hai fatto con la mia (la valigetta di Marsellus Wallace). Mangiare, masticare, è un gesto che richiede tempo, che mette a disagio l’altro interlocutore, costretto a restare in attesa che l’altro abbia finito. Un po’ come zuccherare una tazzina di caffè e girare il cucchiaio, ancora e ancora, all’infinito (Robert De Niro in C’era una volta in America). […]


PAROLE, PAROLE, PAROLE…
di Roberto Curti

«Has anybody here read a real book about vampires, or are we just remembering what a movie said? I mean a real book.»
«You mean like a Time-Life book?»
(Dal tramonto all’alba)

CURIOSO CHE, se da un lato il nome Quentin Tarantino viene associato alla cinefilia (e giù aneddoti sull’ex commesso di videoteca e minuziosi chilometrici elenchi dei film citati, esercizio peraltro già in essere per il nuovo Django Unchained prima ancora dell’uscita), dall’altro si banalizzi o semplifichi oltremisura il ruolo della letteratura nel cinema dell’autore di Pulp Fiction. Curioso perché già dal titolo del suo film più celebre e celebrato il riferimento sta lì, sotto gli occhi di tutti. Senza tirarla alla lunga con divagazioni su pulp e dintorni, va detto che, come spesso accade, Tarantino è più furbo e scaltro di molti suoi esegeti. All’uscita di Le iene, con i critici impegnati a farsi i pompini a vicenda (cit.) sui dialoghi dedicati a Like a Virgin o a dibattere sulla scena dell’orecchio, passa quasi sottotraccia che uno dei rapinatori (quello cui, tra l’altro, spetta una delle battute più ghiotte dell’incipit, su Papa Don’t Preach) sia interpretato da Edward Bunker, ex carcerato e autore hard-boiled tra i più importanti del dopoguerra grazie a romanzi autobiografici quali Come una bestia feroce o Little Boy Blue, e che il regista citi come ispirazione i romanzi di Richard Stark (alias Donald Westlake).
Per Pulp Fiction, Tarantino insiste, indicando come numi tutelari Charles Willeford, all’epoca in piena riscoperta post-mortem grazie alla Quadrilogia di Miami con protagonista lo sdentato detective Hoke Moseley, ma autore dal peso specifico ben superiore al recinto pulp (e chissà cosa combinerebbe QT alle prese con The Black Mass of Brother Springer, alla faccia di Spike Lee), e i racconti di Salinger sulla famiglia Glass, nientemeno. E se The Man From Hollywood (in Four Rooms) riprende un fulminante racconto di Roald Dahl via “Alfred Hitchcock presenta”, all’opera terza Tarantino adatta un romanzo del più criticamente coccolato tra i romanzieri hard-boiled in attività, Elmore Leonard (Rum Punch). […]


PULP MASK REPLICA
Tra Tarantino e tarantinismi
di Raffaele Meale

NEL MAGGIO DEL 1994, nel buio di una sala cinematografica a poche decine di metri dalla Croisette, si svolge una proiezione destinata a mutare in maniera sensibile i canoni espressivi dell'industria hollywoodiana (e non solo). Al di là delle riletture critiche a posteriori, delle analisi più o meno approfondite, degli slanci affettivi dei fan idolatri e delle bacchettate (spesso) pregiudiziali dei detrattori, ciò che appare evidente a quasi venti anni dalla prima apparizione pubblica di Pulp Fiction è la sconvolgente deflagrazione che ha fatto seguito all’irruzione di Tarantino nell'ingranaggio produttivo del cinema statunitense. Probabilmente neanche il più ottimista degli ottimisti, alla Miramax (all'epoca da pochi mesi entrata nell'orbita della Disney, e ancora capitanata dai fratelli Weinstein), avrebbe mai potuto immaginare l'eco che il film (e il nome di Tarantino) avrebbero avuto nel corso degli anni. Dagli applausi nel Grand Théâtre Lumière all'uscita in Italia nel dicembre del 1994 passano solo pochi mesi, ma l'aggettivo “tarantiniano” ha già iniziato a essere usato con insistenza. Diventa “tarantiniano” (o, nei primi tempi, pulp) tutto ciò che mette in scena la violenza, il sangue e la morte in maniera esagerata, ironica fino al parossismo: ogni testa esplosa, ogni scambio di battute al vetriolo, ogni (ab)uso di turpiloquio viene attribuito al desiderio di muoversi sulla falsariga del cineasta statunitense. Un’interpretazione che ha in sé i germi della verità: Hollywood, presa alla sprovvista dal successo planetario di un film al quale era bastato il primo weekend nelle sale in patria per ripagare gli esigui costi di produzione, aveva immediatamente dato il la a una serie di progetti più o meno velatamente noir, ambientati nel sottobosco criminale e dominati da un utilizzo della violenza fino a quel momento poco apprezzato dalle major. Titoli come Cosa fare a Denver quando sei morto di Gary Fleder, presentato a Cannes esattamente dodici mesi dopo il terremoto-Tarantino, difficilmente sarebbero stati presi in considerazione a livello internazionale senza il successo di Pulp Fiction, del quale il film di Fleder riprende non solo il mood, ma anche l’iconografia e le timbriche fotografiche. Dal quel momento in poi ogni film di Tarantino ha potuto contare su un buon numero di produzioni minori decise a ricalcarne i fasti. […]


TUTTO TARANTINO FILM PER FILM

Le iene (Reservoir Dogs, 1992) [recensione di Alberto Pezzotta]
Pulp Fiction (Id., 1994) [recensione di Roberto Curti]
The Man From Hollywood (episodio di Four Rooms, 1995) [recensione di Donatello Fumarola]
Jackie Brown (Id., 1997) [recensione di Donatello Fumarola]
Kill Bill Vol. 1 (Id., 2003) [recensione di Raffaele Meale]
Kill Bill Vol. 2 (Id., 2004) [recensione di Roberto Curti]
A prova di morte (Death Proof, 2007) [recensione di Roy Menarini]
Bastardi senza gloria (Inglorious Basterds, 2009) [recensione di Raffaele Meale]
Tarantino televisivo: E.R. e C.S.I. [recensione di Luca Malavasi]


DJANGO UNCHAINED / SÌ
Pre-war spaghetti
di Raffaele Meale

È L'OTTAVO lungometraggio di Quentin Tarantino (senza prendere in considerazione l'episodio di Four Rooms e considerando Kill Bill due film distinti); è il suo primo confronto diretto con i tanto amati spaghetti western, omaggiati in più di una circostanza nel corso della carriera; è il suo primo film montato senza la presenza di Sally Menke, l'amica di una vita venuta a mancare nel settembre del 2010; è il secondo film del citato/smentito/confermato/discusso trittico dedicato alla Storia, quella con la s maiuscola. Tutto questo, e probabilmente molto di più è Django Unchained: perché Tarantino, al di là delle discussioni più o meno sterili sulla sua statura autoriale e sul ruolo svolto all'interno dell'evoluzione del cinema contemporaneo – involuzione, direbbero con ogni probabilità i molteplici detrattori – è uno dei pochi cineasti ancora in grado di risvegliare, a livello quasi epidermico, passioni, rabbie, gioie e vituperi di un pubblico della Settima Arte che si è fatto anno dopo anno, decennio dopo decennio, sempre più imbalsamato, impermeabile all'emozione pura, calcolatore e distaccato. Non si può rimanere distaccati di fronte al cinema di Tarantino, per via della sua indole, intelligente, furba e a tratti persino disonesta (ma il cinema, dopotutto, non è anche una grande illusione? Una grande truffa? Un gioco di prestigio?): è un pregio, questo, che con troppa facilità gli viene disconosciuto. […]


DJANGO UNCHAINED / NO
O dei morti.
di Pier Maria Bocchi

AL BANCONE DEL BAR, Jamie Foxx sta bevendo un bicchierino. Si avvicina Franco Nero, dopo che il suo mandingo è stato sconfitto atrocemente in una lotta corpo a corpo. «What’s your name?», chiede a Django. E lui gli risponde, facendogli pure lo spelling del nome, e sottolineando che «The D is silent». E Nero: «I know». Il pubblico apprezza, ride, si entusiasma (prove alla mano). E batte le mani. Hai capito, questo Tarantino, che sagoma, e che intelligenza, e che omaggio, e che finezza di citazione, e che vertigine (?)…
Django Unchained è tutto e solo qui, in questa singola parentesi ironica e inter-meta-cinematografica. Un giochino? Può darsi. E allora? Mi domando se abbiamo ancora bisogno di giochini. E di un cinema-giochino che si autoalimenta con un gioco su se stesso e sul genere da cui prende le mosse. Un gioco, per giunta, che dura tre ore. E questo sarebbe l’immaginario popolare contemporaneo del quale andare fieri? Perché poi finisce che se non ti diverti, a guardare Django Unchained, e sbirci l’orologio più volte sperando che lo strazio finisca presto, ma manca sempre troppo, ecco, finisce che ti prendono per uno snob rincoglionito, vecchio e bolso, incapace di gustare uno spettacolo “col cazzo grosso” (perdonate la volgarità ma l’ho letta in giro, e mi è parsa illuminante) e completamente fuori rotta rispetto ai gusti dello spettatore-tipo. […]


…segue per 12 pagine nel numero 177 di Blow Up, in edicola nel mese di Febbraio 2013 al costo di 6 euro.

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