Peter Brotzmann
Peter Brotzmann
di Giuseppe Aiello
Era la sorte di gioventù nata durante la guerra, o giù di lì, come Jimi Hendrix, Janis Joplin, Frank Zappa, Aretha Franklin, le due coppie di platino Jagger/Richards e Lennon/McCartney, gente con il destino di prendere la musica popolare e rivoltarla come un guanto, facendola diventare musica giovanile, alternativa, nuova, radicalmente diversa da quella che c’era prima. Peter Brötzmann, in una posizione che non è stata di rilievo come quella dei musicisti appena citati, ha fatto parte di questa generazione con un ruolo laterale ma non meno importante. Diciamo giusto mezzo passo dietro Anthony Braxton, nel campo dell’avant di derivazione afroamericana. Il sassofonista tedesco è stato infatti tra i fondatori – con Mike Westbrook, Alexander von Schlippenbach, Han Bennink, Mario Schiano, John Surman, Misha Mengelberg, Willem Breuker, Evan Parker e parecchi – ma non moltissimi – altri, di un linguaggio che operava sull’essenza nera del jazz un reinnesto della cultura musicale europea, risvegliandone aspetti già presenti dalle origini e introducendo al contempo prospettive del tutto nuove. Si riscoprivano – di frequente immersi in una complice ironia o sommersi da un feroce sarcasmo – il corpo sonoro delle bande militari europee, essenziale nella genesi del jazz di New Orleans, le melodie del vecchio continente e le sue sperimentazioni in ambito colto. Ma per molti di quei musicisti fu la folgorazione colemaniana – “Free Jazz” viene pubblicato all’inizio del 1961 – a provvedere una spinta determinante verso diversamente articolati, e disarticolati, orizzonti. Senza dimenticare l’adorato Ayler, e Shepp, e tutto quel magma stellare che precipitò a demolire ogni certezza. Brötzmann si dimostra piuttosto presto un estremista. Non ha una formazione accademica e la sua tecnica se l’è cercata ed elaborata in buona parte da sé, cosa che gli è stata a volte quasi rimproverata mentre lui ne è giustamente fiero. La tecnica necessaria e sufficiente a portare avanti i suoi progetti, come d’altronde nelle sue opere grafiche. Tra quei progetti il più fortunato nella memoria collettiva è stato senza dubbio “Machine Gun”, registrato nel maggio 1968 (mai coincidenza cronologica fu più simbolica e appropriata) e pubblicato a nome Peter Brötzmann Octet: tre ance, due contrabbassi, due batterie e un piano a battagliare e rincorrersi sugli accidentati terreni della ribellione in musica, roba aspra ed essenziale che ancora oggi fa valere le sue ragioni non temendo paragoni con i risultati dei maestri d’oltreoceano. […]
…segue per 10 pagine nel numero 270 di Blow Up, in edicola a novembre 2020
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
Era la sorte di gioventù nata durante la guerra, o giù di lì, come Jimi Hendrix, Janis Joplin, Frank Zappa, Aretha Franklin, le due coppie di platino Jagger/Richards e Lennon/McCartney, gente con il destino di prendere la musica popolare e rivoltarla come un guanto, facendola diventare musica giovanile, alternativa, nuova, radicalmente diversa da quella che c’era prima. Peter Brötzmann, in una posizione che non è stata di rilievo come quella dei musicisti appena citati, ha fatto parte di questa generazione con un ruolo laterale ma non meno importante. Diciamo giusto mezzo passo dietro Anthony Braxton, nel campo dell’avant di derivazione afroamericana. Il sassofonista tedesco è stato infatti tra i fondatori – con Mike Westbrook, Alexander von Schlippenbach, Han Bennink, Mario Schiano, John Surman, Misha Mengelberg, Willem Breuker, Evan Parker e parecchi – ma non moltissimi – altri, di un linguaggio che operava sull’essenza nera del jazz un reinnesto della cultura musicale europea, risvegliandone aspetti già presenti dalle origini e introducendo al contempo prospettive del tutto nuove. Si riscoprivano – di frequente immersi in una complice ironia o sommersi da un feroce sarcasmo – il corpo sonoro delle bande militari europee, essenziale nella genesi del jazz di New Orleans, le melodie del vecchio continente e le sue sperimentazioni in ambito colto. Ma per molti di quei musicisti fu la folgorazione colemaniana – “Free Jazz” viene pubblicato all’inizio del 1961 – a provvedere una spinta determinante verso diversamente articolati, e disarticolati, orizzonti. Senza dimenticare l’adorato Ayler, e Shepp, e tutto quel magma stellare che precipitò a demolire ogni certezza. Brötzmann si dimostra piuttosto presto un estremista. Non ha una formazione accademica e la sua tecnica se l’è cercata ed elaborata in buona parte da sé, cosa che gli è stata a volte quasi rimproverata mentre lui ne è giustamente fiero. La tecnica necessaria e sufficiente a portare avanti i suoi progetti, come d’altronde nelle sue opere grafiche. Tra quei progetti il più fortunato nella memoria collettiva è stato senza dubbio “Machine Gun”, registrato nel maggio 1968 (mai coincidenza cronologica fu più simbolica e appropriata) e pubblicato a nome Peter Brötzmann Octet: tre ance, due contrabbassi, due batterie e un piano a battagliare e rincorrersi sugli accidentati terreni della ribellione in musica, roba aspra ed essenziale che ancora oggi fa valere le sue ragioni non temendo paragoni con i risultati dei maestri d’oltreoceano. […]
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000