NIENTE PUNK, SIAMO AMERICANI
NIENTE PUNK, SIAMO AMERICANI
di Diego Palazzo e Pirgiorgio Pardo

[nella foto: Jonathan Wilson]

DICIAMOLO SUBITO a scanso di equivoci: quella che ci accingiamo a ricostruire qui non è una scena, nel senso che al termine sono use dare la storia e l'estetica del rock. Si tratta di musicisti dalle carriere ed esistenze disparate, eterogenei anche dal punto di vista dell'immagine pubblica, senz'altro caratterizzati da un forte individualismo. Questi personaggi hanno però, al di là di alcuni incroci episodici che li hanno visti o li vedranno collaborare, degli elementi comuni che consentono di vincolarli a un filo rosso tutt'altro che inconsistente e che disegna uno dei panorami più coerenti del rock dell'ultimo decennio. Innanzitutto, sia dal punto di vista dei live che da quello discografico, insistono sulla stessa fetta di mercato: hanno in comune, nella maggioranza dei casi, la stessa etichetta, frequentano gli stessi festival e le stesse sale da concerto, intercettano la medesima tipologia di interlocutori. Poi c'è il fatto dell'anagrafe: si tratta in linea di massima di splendidi quarantenni, con trascorsi musicali conativi, che hanno introiettato solo in seconda battuta il locus of control del loro discorso e del loro impatto sul mondo. E infine c'è l'aspetto più importante: si tratta di musicisti che interpretano se stessi come latori di una idea classica, calligrafica, composta e definita di rock. La loro novità è proprio nel fatto che non sperimentano: hanno suoni confortevoli, con produzioni che collocano gli strumenti su tutto il range delle frequenze, aborrono il lo-fi, il loro songwriting è regolare e si sviluppa attorno al formato canzone e alle possibili declinazioni che di esso hanno maturato i tre lustri 1968/1983. E, fatto anch'esso caratterizzante, ciò che in questi tre lustri viveva sugli alvei separati del rock americano e inglese, qui si fonde in un sostrato unico che mette insieme le due opposte sponde dell'oceano.
Insomma una rivincita del rock classico: niente strutture sbilenche, impalcature mediose, accelerazioni, sussurri e grida. Anche apparenti variazioni sul fronte, come la recente infatuazione di John Grant per l'elettronica, si mantengono nell'intervallo di tempo suddetto, andando a ripescare tutt'altro che spiazzanti suggestioni synth-pop e accostandole con garbo e senza traumi all'immaginario pop folk divulgato nella Regina di Danimarca. Eppure tutta questa compostezza ha dato luogo a una rivoluzione, di cui da un annetto a questa parte si comincia a cogliere il risvolto mainstream. I nuovi idoli hanno sguardi emo e suoni acustici, brandiscono ukulele e banjo, intonano filastrocche blues e folk, asciugano strumentazione e strutture, citano a volo d'angelo Neil Young e i Cocteau Twins, Nick Drake e la prima Kate Bush.
Qualcuno ha spianato loro la strada. Qualcuno come questi nostri (anti) eroi. […]

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