Neil Young's Wild Years
Neil Young's Wild Years
di Alessio Budetta

Fenomenologia di una rock star
Al liceo ognuno dei miei compagni aveva il proprio filosofo preferito. La preferenza per molti di loro aveva a che fare spesso e volentieri con l’orientamento politico, fatto sta che a me incuriosivano un po’ tutti, col risultato che non avevo preferenze per nessuno, amen, quanto piuttosto una sola grossa lacuna. Che posso farci? uno dei più grandi non l’ho mai capito, e sto parlando di quel cazzone di Hegel, mio limite scolastico definitivo al pari di qualsiasi incubo algebrico inestricabile. Di Hegel a pensarci bene non ricordo proprio nulla e mai mi è tornata la voglia o la necessità di approfondirlo. Tuttavia conservo di Hegel oltre che il ricordo di un grosso mal di pancia misto ad ansia da prestazione, solo un grosso ed eloquente schema scritto a gesso sulla lavagna, riassuntivo e probabilmente esplicativo, ad opera del meticoloso professore di filosofia, così formulato:

IPOTESI + ANTITESI = TESI

Ecco, questo sì, mi è rimasto impresso. Ora dato che l’unica filosofia che vorrei qui riproporre è molto spicciola e molto rock, dopo un rapido refresh internettiano che mi ha rassicurato sull’esistenza di tale schema posso quindi passare al nocciolo della questione: se l’ipotesi, pensando all’archetipo della rock star, si può intendere come un inizio di carriera discografica in cui si è formata un proprio stile, una propria figura riconoscibile, insomma una vera e propria identità artistica coerente e peculiare, l’antitesi è allora quella fase in cui il musicista rock riconosciuto come “grande” cerca di liberarsi di quella stessa immagine procedendo per contrasti, andando a straboccare negli opposti, mischiandosi a ciò che prima di allora non era o non poteva essere, così da esaltare il proprio valore grazie a un camaleontico completismo, oppure viceversa filtrare la propria essenza attraverso il setaccio tortuoso della varietà stilistica sino a ricavarne la propria esclusiva originalità. La tesi che ne risulterà, che potremmo qui intendere come un ritorno alle proprie radici stilistiche con l’armamentario di una nuova consapevolezza, sarà quindi quanto di più completo e VERO una rock star possa aspirare a divenire. E’ un discorso strampalato? fino ad un certo punto… penso per esempio a un Bob Dylan e alla sua trasmutazione elettrica a Newport nel ’65, che si è portata con se tutto il folk come lo si era inteso fino ad allora (e la tesi per Dylan non va nemmeno spiegata, che sia essa sostenuta da “Blonde on Blonde” o meglio ancora da “Blood on the Tracks”) ma penso anche ad uno Springsteen che si rimette in gioco con Nebraska o ad un Lou Reed che cerca la provocazione sonora con un epocale Metal Machine Music. Queste virate stilistiche, questi momenti di rottura con il proprio stile ma anche con le aspettative del proprio pubblico hanno rappresentato per tanti grandi artisti un tentativo di sopravvivenza che andasse al di là del molto limitante e poco rassicurante essere se stessi. C’è anche chi ne ha fatto a meno, intendiamoci. I Pink Floyd sono rimasti gli stessi di sempre fino a caricarsi sulle spalle il peso della loro stessa classicità e così hanno fatto gli U2, nonostante i timidi azzardi di “Zooropa” e “Discotheque”, per fare i primi due nomi che mi tornano in mente. Di certo c’è chi ha dedicato lo spazio di un disco ad una tale parentesi, chi un breve periodo. Neil Young invece ci ha messo quasi 10 anni per ritornare ad essere Neil Young, rischiando anche una multa salata per quest’improbabile infrazione. Già perché Neil oltre a essere arci-notoriamente bravo era anche genuinamente folle, ed è anche per questo che il suo decennio di “antitesi” affascina a dismisura ancora oggi. Scopriamo perché. […]

…segue per 14 pagine nel numero 250 di Blow Up, in edicola a marzo 2019

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