Maurice Blanchot
Maurice Blanchot
di Stefano Lecchini

“Morire è l'infinito presente”
(Milo De Angelis)

COME SCRIVERE della scrittura di Maurice Blanchot? di un uomo che, nato a Quain nel 1907, ha attraversato tutto il secolo come se fosse, egli stesso, soltanto scrittura, e che ha sicuramente fatto della scrittura non solo una questione di vita o di morte (di vita e di morte), ma la questione delle questioni, il cardine su cui modellare, al quale ancorare la nostra postura nei confronti del mondo – e di tutti i mondi possibili o impossibili? Irregimentarla in un discorso sistematico, rigidamente filato e consequenziale se non deduttivo, non sarà renderle un gran servizio. Sarebbe doveroso restarle fedeli. Ma sarà possibile assumere dentro la propria voce questa voce che vorrebbe darsi solo come voce del fuori, del fuori che oltrepassa ogni fuori – voce intima, che pure non smette di perseguire l’estraneità a ogni rapporto, perché forse è solo in questa distanza siderale, in questa assenza infinita, la chiave di ogni “amicizia” e corrispondenza fraterna? Blanchot non si stancava di battere sulla formula mutuata dall’amico Bataille: “la comunità di coloro che non hanno comunità”.
Invisibile Blanchot. La sua lontananza dai media (se si eccettua la carta stampata) è stata proverbiale. Mai un’apparizione pubblica, mai un microfono o una telecamera. E ovviamente nessuna cattedra. Esistono solo tre foto, scattate negli anni Venti, quando era studente di Filosofia a Strasburgo con Emmanuel Lévinas (il colloquio fra i due sarà destinato a non chiudersi mai). Poi un’altra, Blanchot quasi ottuagenario, rubata a metà degli Ottanta nel parcheggio di un supermercato, e infine un'ultima, qualitativamente la migliore, pubblicata nel 2014 sulla copertina del numero di L'Herne a lui dedicato. Nient'altro. Soltanto Pynchon, e il tardo Battisti, hanno saputo fare di meglio. Eppure, fino al 1938, Blanchot è stato un editorialista politico di un certo rilievo. […]

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