Marco Vicario
Marco Vicario
di Roberto Curti

[nell'immagine: Marco Vicario con Rossana Podestà]

Quando lo scorso 15 settembre si è diffusa la notizia della scomparsa, avvenuta una manciata di giorni prima a quasi 95 anni, qualcuno si è meravigliato che fosse ancora vivo. Non se ne sentiva parlare da tempo: l’ultima regia risale al 1982, da allora il silenzio. Qui da noi molti suoi film sono invisibili da decenni: di passaggi televisivi neppure a parlarne, e per vedere legalmente Sette uomini d’oro, Homo Eroticus o Paolo il caldo in lingua italiana bisogna recuperare a caro prezzo i DVD e Blu-ray usciti in Germania, Giappone e Canada. E lui stesso, nonostante le fortune commerciali, è nome pochissimo frequentato da critici e storici. Nel fondamentale L’avventurosa storia del cinema italiano di Faldini e Fofi il suo nome è a malapena nominato: nessuna testimonianza diretta, solo una manciata di righe nelle menzioni dedicategli da Lando Buzzanca e da un Philippe Leroy col dente avvelenato, che concordano su un carattere a dir poco difficile.
Eppure, a dispetto di una produzione tutto sommato magra (undici regie – anzi, dieci e mezzo – dal 1964 al 1982), Marco Vicario ha fatto la storia del cinema italiano diciamo così popolare a cavallo tra i ’60 e i ’70. È stato una figura a suo modo unica di regista/tycoon dal fiuto infallibile e dalle mire ben definite. Ha dimostrato che era possibile un cinema dalle grandi potenzialità commerciali, anche internazionali, e di ottima fattura. Si è circondato di attori e attrici di fama e collaboratori di prim’ordine. Ha fatto film divenuti proverbiali e subito imitati, clonati, parodiati. Ha contribuito alla creazione del fenomeno Lando Buzzanca, segnando la consacrazione divistica dell’attore siciliano. È stato autore di se stesso e metteur en scene di opere letterarie prestigiose, e ha collaborato con penne del calibro di Alberto Moravia, Tonino Guerra, Piero Chiara. All’apice del successo, ha saputo cavalcare i mutamenti del costume e della morale con un cinema erotico “alto” in grado di appagare i pruriti del pubblico senza svilirsi nel pecoreccio, e mettendo in scena in chiave di commedia (anche grottesca) o dramma le nevrosi del maschio e le istanze di emancipazione della donna. E, al momento di fare un passo indietro, ha attuato una «progressiva tecnica della sparizione», per citare il bel necrologio apparso sul sito del Centro Sperimentale di Cinematografia. Conscio che, se la parola è d’argento, il silenzio è d’oro. […]

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