Ma che bontà...
Ma che bontà...
di Roberto Curti

[nell’immagine: Merda d’artista, Piero Manzoni]

Nella sua autobiografia Divoratori di celluloide, Riccardo Freda rievoca un odoroso aneddoto capitato sul set di Maciste alla corte del Gran Khan (1961). Il copione richiede che il forzuto di turno, il culturista Gordon Scott, salvi un principe cinese dalle fauci di una tigre e lo porti in salvo, e per girare la scena il felino, reclutato presso un vicino circo, viene sedato. Solo che la dose non è sufficiente a farlo ronfare, e a un certo punto il gattone si esibisce in un potente ruggito diretto al figurante orientale. Dopo la rituale lotta con la belva, Scott prende in braccio il cinese e procede a favore di camera, esibendo però un’espressione schifata. Alla domanda di Freda sul perché di quella smorfia non prevista dal copione, l’attore risponde disgustato: «C’è che quello… si è cacato sotto!»
È probabile che nella storia non scritta di Cinecittà gli aneddoti di questo tipo abbondino. Di fatto, il rapporto del cinema italiano con la merda – ossia il simbolo ultimo del triviale, la materia intoccabile e irrappresentabile, il tabù per antonomasia – è insolito e tribolato, caratterizzato dapprincipio, come ovvio, dalla totale rimozione dell’argomento, oltre che dell’oggetto in sé. Tanto che udire un personaggio sibilare indispettito «Scheizer!» nel ridoppiaggio italiano di La voce senza volto (1939, Gennaro Righelli: il Cantando sotto la pioggia de noantri, realizzato per dar lustro ai neonati teatri di posa sulla Tuscolana) risulta incongruo quasi quanto l’anacronistico, mitico orologio da polso sfoggiato da una comparsa di Scipione l’Africano (1937, Carmine Gallone). […]

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