LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI
[nell'immagine: Oh! Gunquit, foto di Ferruccio Guglia]
Oh! Gunquit
Paper Dress Vintage, Hackney, Londra, 6 dicembre 2024
Noncurante dell’allerta meteo preannunciata dall’imminente arrivo della tempesta Darragh mi reco al Paper Dress Vintage, zona Hackney, un’accogliente boutique di vestiario con annessa saletta concerti. La serata promette bene. A scaldare il pubblico c’è il leggendario Barry Myers ovvero DJ Scratchy, (tour DJ dei Clash dal 1978 al 1980), come supporto una rara apparizione dei Future Shape of Music, ovvero il collettivo del chitarrista e produttore Alex McGowan (aka Captain Future), a “crime gospel and primitive blues” 9-piece. Mezz’oretta di gris-gris sound con lo spirito di Dr. John che aleggia nell’etere dove sprofondiamo nel nero pece degli occhiali da sole di Alex per riemergere incolumi e purificati grazie al gospel delle coriste che ci indicano vie salvifiche da percorrere e ricordarci che nonostante l’ineluttabile evidenza del “Gone all Wrong” bisogna sempre “Rise Up” (entrambe stanno nel recente Shakedown Gospel) con qualsiasi mezzo a disposizione (“Help me Jesus”, che conclude il set).
Poi tocca agli Oh! Gunquit, quintetto capitanato dal chitarrista Simon Wild e dall’americana trapiantata a Londra Tina Swasey. Last Day on Earth apre le danze tra l’euforia del pubblico. Segue Fireballs, che riporta alla mente i grandi B-52's, e con il surf del nuovo singolo Shark Bait il party è in full swing con la platea tarantolata dalla contagiosa energia trasmessa dal gruppo. Si prosegue tra numeri ben collaudati (Head Bites Tails, Dance Like Fuck, Suzy Don’t Stop) e inediti dal quarto album in uscita a marzo (Flex, prodotto dall’Alex prima citato). What Do You Want, col suo infettivo groove wave funkeggiante, il feroce inno Sniffing Glue e Ride the Trip Out con sax e tromba che duellano: la chitarra buzzsaw surf di Simon, il sax urlante di Luciano, la ritmica forsennata del grondante Ergun e la scatenata Tina (probabilmente la migliore frontwoman attuale) sono i magici ingredienti per un coinvolgente party a go-go di puro divertimento. Sulle note di Whiplash Tina, frusta in mano, scende in platea a fustigare le chiappe del festoso pubblico, e sul surf strumentale Crossfire suona la tromba facendo Hula-Hoops! So Long Sucker e Whack It, con Tina e Luciano a esibirsi tra il pubblico, sembrerebbero concludere la serata, ma dopo il siparietto lotteria con tanto di premi e regalini natalizi (gradito per tirare un po’ il fiato) la festa continua con Bad Bad Milk e Voodoo Meatskake, con Tina che invita il pubblico a salire sul palco a ballare col gruppo per un gran finale. Gli Oh Gunquit! non sono soltanto un grande gruppo di exotic sci-fi surf punk & trashy rock-n-roll (come si definiscono) ma una delle migliori party bands attuali. Vi consiglio calorosamente di non perderli se capitano dalle vostre parti: ne rimarrete folgorati e passerete una serata di gioioso escapismo, che di questi tempi non è roba da poco. Ferruccio Guglia
Joe Gideon - King Hannah - The KVB
Monk, Roma, 5 dicembre 2024
Dopo mesi di risacca sul versante concerti-indie-internazionali-di-media-entità, quelli cioè che piacciono a noi hipster ormai old skull, Roma stasera torna a risplendere, al Monk, grazie ai ragazzi di DNA Concerti - che, tiratina d’orecchie, dovrebbero ricominciare a portare più cose nella Capitale visto il loro prezioso roster e visto che da queste parti la sete è così tanta che serate del genere vanno facilmente sold out - che portano tre artisti britannici pescati dalla propria scuderia, in una sola volta con una formula pay-per-view insolita da queste parti ma obbligatoria per l’economia e la sostenibilità della serata: si paga per singolo concerto (in realtà smezzati tra Joe Gideon/King Hannah - The Kvb) oppure si fa un mini-abbonamento per vedere tutti gli artisti insieme.
Apre la mini kermesse quel vecchio lupo chiamato Joe Gideon, inseparabile dalla sua telecaster, che, anziché dalla sorella Viva Seifert come ai tempi dei Joe Gideon & The Shark, si fa accompagnare dal prestigioso session man John J. Presley che si alterna tra synth, tastiere, basso e seconda chitarra assecondando con grazia e disinvoltura il parlato/cantato/recitato loureediano di Joe. Ipnotici e magnetici, soprattutto quando performano dei pezzi molto intimi e bluesy che dal vivo vengono ridotti all’osso, - così fragili e intensi che ti vergogni quasi a scattare una foto tanta è la paura di rompere il flusso - Gideon e il compare passano in rassegna le ultime cose del catalogo insieme ai vecchi pezzi, come Civilisation, che fecero la fortuna degli “Shark” a fine anni zero e che hanno predetto poi tante cose inerenti al filone neo-post punk.
La coppia, nella vita e in musica, chiamata King Hannah, e vale a dire Hannah Merrick (voce e chitarra) e Craig Whittle (alla chitarra) si fa coadiuvare dal vivo da un batterista e da un bassista/tastierista, per cercare di riprodurre al meglio la complessità e la stratificazione dell’ultimo “Big Swimmer”, stasera passato completamente in rassegna. Il canovaccio strutturale delle canzoni del nuovo album prevede (quasi) sempre un inizio scarnificato, quasi cullante, batteria/basso/voce che prende letteralmente fuoco nei ritornelli e nelle lunghissime code strumentali, quando la rustica chitarra di Craig ha il sopravvento. Dal vivo questa prammatica è messa in rilievo da una forte vena portisheadiana, molto psych-blues. Hannah, con la sua presenza e la sua voce tra il tossico e il sensuale, è magnifica avvolta nel suo abito rosso con fantasie gitane che abbina a delle vecchie gazzelle® rovinate, diventando il simbolo di uno stile che unisce raffinatezza ed eleganza ad una buona dose di leggerezza. Ammalianti. Questa è musica che live ti entra addosso, poco da fare. Quasi sul finale esibiscono un’ottima versione stomp di State Trooper del Boss per poi chiudere - dopo che la cantante ha ripetuto più volte che l’Italia è il suo posto preferito per suonare - con la cover di Blue Christmas di Dove O’Dell, appena pubblicata dal duo su tutte le piattaforme.
Se, e siamo sinceri, su disco i KVB non ci hanno mai convinto del tutto, e li abbiamo sempre stigmatizzati come uno dei mille gruppi che fa synthwave/EBM a mo’ dei New Order e derivati… dal vivo invece dobbiamo ammettere che sono una vera e propria bomba! Tra ghiaccio e fuoco le canzoni guadagnano in bpm e resa scattante e il duo, composto da Nicholas Wood alla chitarra e voce e da Kat Day ai synth/tastiere e voce, dà il meglio di sé creando dei potenti strati musicali psych e noisy grazie ad un suono pieno e denso, studiato al millimetro, ma non per questo meno “sentito”. Techno-pop suonato alla vecchia maniera, con i Kraftwerk ben in testa, ma attualizzato con dei suoni molto calienti. Dei robot con il cuore insomma. Marco Giappichini
Teho Teardo & Blixa Bargeld
Kulturkirche, Colonia, 3 dicembre 2024
Teho Teardo e Blixa Bargeld tornano a Colonia per recuperare la data saltata lo scorso anno e per presentare il nuovo splendido album “Christian & Mauro”. L’attesa è palpabile. La Kulturkirche di Nippes, chiesa luterana e importante polo culturale che aveva già ospitato i due anni fa, segna il tutto esaurito e si rivela il luogo perfetto per acustica e atmosfera. Quando l’ensemble si presenta sul palco – assieme ai due leader la formazione è completata da un quartetto d’archi, da Laura Bisceglia al violoncello e Gabriele Coen al clarinetto basso – la prima cosa che appare evidente è un Bargeld di buon umore, ottimo viatico per una serata che si rivelerà magnifica. Attaccano subito con due pezzi forti: “Starkregen”, l’ipnotico brano d’apertura del nuovo LP, e l’ormai celebre “Mi scusi”. Il pubblico della Kulturkirche ascolta silenzioso e attento, salvo poi esplodere in fragorose ovazioni alla fine di ogni composizione. La strana alchimia tra due musicisti all’apparenza così diversi si materializza sotto i nostri occhi. Bargeld è la primadonna, l’attore consumato che sul palco gigioneggia, scherza e intrattiene il pubblico coinvolgendolo con la sua presenza e il suo carisma. Teardo è l’architetto sonoro di questa magia: dalla sua postazione suona e dirige con mano sicura un ensemble raffinato e affiatatissimo. Il concerto attraversa la discografia dei due, dai brani del primo album ormai lontano nel tempo (“Still Smiling”, 2013) fino alle ultime composizioni che il pubblico sembra già conoscere a memoria. Il quartetto d’archi, la chitarra, gli effetti e le campane di Teardo, i preziosi inserimenti di violoncello e clarinetto creano un’atmosfera onirica e cinematica che avvolge gli astanti. L’asticella rimane altissima per tutto il concerto, con alcuni picchi di assoluta bellezza. La saltellante “Bisogna morire”, che riprende una passacaglia del Seicento e nasce da un suggerimento fatto anni or sono dal maestro Morricone a Teho, scivola nella delicatissima “I Shall Sleep Again”. Altro momento clou della serata, introdotto in inglese da un Blixa in vena di aneddoti, è “Dear Carlo” ispirata al fisico e divulgatore Carlo Rovelli che pure avrebbe dovuto partecipare al brano. Il recitato di Bargeld mette insieme osservazioni terrene (“You make excellent cakes”) e contemplazioni dello spazio, mentre la musica ha un incedere inquietante con una coda che non può che definirsi psichedelica. Così come “Come Up and See Me” con un finale in crescendo con cui i musicisti si congedano dal pubblico, ma solo temporanemente. Richiamati a gran voce, saliranno nuovamente e per ben due volte sul palco. I due bis regalano ancora un altro momento ispiratissimo, cantato – come spesso accade - in italiano e tedesco: una “Menschenentsafter” (letteralmente: “Spremiagrumi per umani”) al contempo ironica e amara, perfetta fotografia della società in cui ci troviamo a vivere. Roberto Calabrò
Diaframma
Teatro Politeama, Poggibonsi (SI), 17 novembre 2024
"Chiuderò il sentimento in scatole vuote, quei ricordi appassiti in un frammento d’autunno". È con queste parole, tratte da Neogrigio, secondo brano del primo leggendario album “Siberia” che i Diaframma aprono il sipario su una serata di musica in cui passato e presente si incontrano. Un concerto che non è solo celebrazione, ma anche un atto di resistenza poetica e musicale, capace di scuotere le corde più intime dei fan. Nella sala sotterranea del Politeama di Poggibonsi siamo poco più di cento sopravvissuti all’età di spotify e dei reality. Tutti con la barba grigia, i capelli (per chi li ha) arruffati e liberi ed un abbigliamento evergreen trasandato, ma tutti assolutamente convinti del valore musicale del progetto Diaframma e della sua cosmica astrazione. Come ha dichiarato Fiumani in uno dei suoi rarissimi interventi parlati durante lo show: “tutti mi chiedevano spiegazioni sui testi delle nostre canzoni, ma io cercavo l’astrazione, volevo anche un liceo astratto”.
Il concerto è farcito di chiari richiami visivi ed emotivi all’era della New e Dark Wave, al coraggio di Alberto Pirelli e della sua I.R.A Records, al valore della musica che non si arrende alle mode, che non guarda al suono raffinato e all’intonazione ma si concentra sulla sostanza astratta dei testi e sulla solidità cura degli arrangiamenti. Tutto (volutamente) parla e suona anni Ottanta. Siamo immersi in una sorta di garage dei “Guardiani della Galassia”, ma quelli delle terre italiche, che invece che scatenarsi sui brani dei Jackson 5 lo fanno sulle note di Blue Petrolio dei Diaframma.
Federico Fiumani, anima e guida della band fiorentina, è sul palco con Edoardo Daidone alla chitarra, Luca Cantasano al basso e Tancredi Lo Cigno alla batteria. Una formazione con un equilibrio consolidato, che fa da spina dorsale al lungo tour dedicato ai 40 anni di Siberia, destinato ad andare avanti anche nel 2025. Un live scarno e viscerale che si dipana come un racconto in musica tanto essenziale e privo di artifici quanto denso di emozioni. Fiumani si conferma un narratore autentico alternando momenti di introspezione come in Impronte e Ultimo Boulevard a scariche di energia pura con pezzi come Gennaio e la cover dei Television See No Evil. La piccola Sala Set del Teatro Politeama di Poggibonsi a tratti è silenziosa e concentrata: la connessione tra palco e platea è palpabile. Ogni brano è accolto con applausi sinceri e cori appassionati che creano un’atmosfera unica. È come se i Diaframma sapessero trasformare la malinconia delle loro liriche in una celebrazione collettiva capace di unire anime diverse sotto lo stesso tetto sonoro.
Fiumani incarna l’essenza del poeta post/moderno, duro e fragile al tempo stesso, integerrimo e disponibile, lontano quanto basta dalle mode per piegarle al proprio pensiero. Con il suo stile diretto e a tratti spigoloso non cerca di compiacere, ma solo di raccontare. I testi, graffianti e sinceri, rimangono il cuore pulsante della sua arte. Da Siberia a Diamante Grezzo, ogni canzone è un frammento di un percorso umano e artistico che si snoda tra il freddo degli anni ’80 e le inquietudini dei giorni nostri. Se gli arrangiamenti delle canzoni non mostrano un lavoro di cesello e di ricerca sonora, è perché i Diaframma puntano all’autenticità e alla credibilità prima di tutto. Ogni sbavatura, incertezza e digressione diventano parte di un quadro che vive e respira rendendo il concerto un’esperienza vera, lontana dalle perfezioni artificiali del mainstream. La scaletta della serata è un viaggio nella discografia anni Ottanta della band. Spiccano momenti di pura magia come Libra, Desiderio del nulla, Elena, e l’intensità struggente di Labbra blu, Caldo e L’odore delle rose. Federico Fiumani è un resistente, un samurai della musica italiana. Come un moderno Hiroo Onoda, anche se dimenticato su un’isola discografica lontana dalle rotte commerciali, non si arrende al tempo che passa né alle leggi del mercato musicale. In una scena musicale spesso ingabbiata da logiche commerciali, Fiumani sceglie la via della coerenza e della verità artistica. Questo tour celebrativo di “Siberia” non è solo un omaggio al passato ma un promemoria per il presente: la musica, quella vera, è ancora capace di emozionare, ferire e guarire. Quando usciamo dal teatro è chiaro a tutti che abbiamo assistito a qualcosa di unico, l’istantanea di un periodo straordinario in cui la musica era qualcosa che ti cambiava la vita, ispirava e indicava a ognuno una sua strada. Che tu fossi vestito con giubbotti di pelle, che avessi le borchie anziché i jeans o i piumini, le camicie sgargianti o il rossetto sbaffato, eri parte di una grande speranza. Federico Fiumani, nel suo immenso talento e nella sua fragilità ci ha ricordato dove eravamo e, soprattutto, che ancora possiamo essere qualcosa di più, con i nostri difetti, le stonature e le stempiature dell’età, ma sempre diversi e credibili, resistenti e sconfitti. Se esisteranno ancora un garage, una chitarra, una batteria e un basso possiamo partire per un viaggio straordinario e difendere la galassia della musica dalla banalità e bruttezza del mercato, avendo sempre come nostro faro guida la poesia. Mentre l’ultima nota si spegne e in un misto di eccitazione e tristezza ci avviamo verso casa, resta l’eco di una serata che ha saputo trasformare il grigio dell’autunno in un’esplosione di colori interiori. I Diaframma sono ancora qui, più vivi che mai, lottano con noi e per noi, e sono pronti a scrivere nuove pagine di una storia irripetibile. Andrea Laurenzi
“Barezzi Festival”
Parma, varie sedi, 14, 15 e 16 novembre 2024
Diciotto anni di Barezzi meritano un veloce ma doveroso preambolo: al di là del valore sempre elevato degli artisti italiani e internazionali che si sono esibiti sui vari palchi in tutti questi anni, nonché l’etica di un evento che offre un’esperienza intima ed esclusiva, da vivere all’interno di luoghi unici e suggestivi come i teatri e gli auditorium sparsi sul territorio (oltre al rinomato Teatro Regio), ciò che veramente fa la differenza – e che andrebbe spiegato molto chiaramente alla moltitudine di impresari della musica dal vivo – è la virtù sempre più latitante del mettere davanti a tutto la crescita culturale. Che comunque la si voglia vedere è un obiettivo ancora sostenibile, oltretutto con l’impegno collaterale della ricerca e della successiva valorizzazione di giovani artisti da proporre al futuro attraverso contesti e laboratori specifici rivolti anche a quelli che frequentano le scuole dell’obbligo. È un impegno romantico ma importante, nonostante rischi di passare inosservato o addirittura peggio, bistrattato laddove la mercificazione è sempre più l’unica cosa che conta. Per questo occorre evidenziarlo quanto più possibile come baluardo di sopravvivenza, in aggiunta al più che positivo riscontro di pubblico di ogni singolo appuntamento, da cogliere come segnale molto lusinghiero.
Ciò detto, l’edizione 2024 si è concessa una serie di anteprime nonché esclusive nazionali (all’interno della costola denominata “Barezzi Way”) iniziate il 17 settembre con il folk atavico e speziato dei Tinariwen, che hanno permeato il teatro Valli di Reggio Emilia di tradizione sradicata dal deserto e lasciata prosperare liberamente in un altrove i cui confini sono parola sconosciuta. Un mese dopo, il 19 ottobre, al teatro delle Celebrazioni di Bologna è stata la volta dei Lankum per un concerto molto atteso ma che purtroppo si è via via sovraccaricato di tensione per quanto stava avvenendo fuori dalla sala a causa della pioggia incessante. Il quartetto di Dublino ce l’ha messa davvero tutta per cercare di portare a termine un concerto minimamente normale, ma che inevitabilmente a un certo punto è stato interrotto per la furia dell’acqua che si stava impossessando delle strade limitrofe e dello stesso teatro. Lì per lì è stata come la liberazione da un pressante imbuto emotivo: malgrado il disappunto, col senno di poi una scelta sensata. Il weekend dell’8 e 9 novembre “Barezzi Way” ha fatto tappa prima a Busseto col progetto Discoverland di Pier Cortese e Roberto Angelini, in occasionale e interessante sinergia con Niccolò Fabi, per poi finire coi i redivivi dEUS, che sono saliti il giorno dopo sul palco del teatro Municipale di Piacenza. Per Tom Barman e soci quella piacentina rappresentava l’ultima data di un tour lungo e impegnativo, quindi era prevedibile affiorasse un po’ di stanchezza. Tuttavia col mestiere e qualche colpo di repertorio ben assestato ci hanno ricordato velocemente perché li abbiamo tanto amati e ancora ci fanno salire i brividi lungo la schiena. Il Barezzi vero e proprio è iniziato il 14 all’Auditorium del Carmine di Parma e non al teatro Regio, dopo che i Last Dinner Party, già sold out in prevendita, hanno dato forfait a pochi giorni dalla loro unica data nel nostro paese. Anna B Savage ha aperto le danze alle 18.00 ed è stata subito una gran rivelazione: essenziale nella sua teatralità istintiva e tribale, Anna mette la sua voce calda ed eclettica al servizio di canzoni per sola chitarra e preset ritmici non particolarmente ingarbugliati. Le canzoni sono quasi tutte quelle del suo secondo album, “In|Flux”, mentre gli intermezzi per chiedere ripetutamente al pubblico se avessero domande da porle sono spassosi e sintomatici di una simpatia che conquista al primo incontro. Bravissima. Mark Kozelek/Sun Kil Moon sale su quello stesso palco tre ore dopo e a un certo punto si è temuto non ne volesse scendere più. Il suo fingerpicking è magistrale, la sua voce e le sue canzoni hanno il potere di evocare lo spirito di Johnny Cash per amplificarne la grandezza ma i suoi spoken words, ahinoi, dopo due ore seduti in poltroncina possono essere più letali che divertenti. Bravo ed intenso, ok, ma anche meno.
Ancora all’insegna del cantautorato il giorno seguente al Teatro Regio con Josè Gonzales. Il passato da bassista in una band hardcore svedese non è indicativo del talento di questo ragazzo del nord ma dalle origini latine, che in solitario e con la chitarra tra le mani sprigiona splendore cristallino in armonie agrodolci e spensierate. Beatles e Massive Attack fanno capolino durante i bis per una chiusura mozzafiato ma, nemmeno per un solo istante il suo concerto è stato meno che ammaliante. Sabato alle 18.00 tocca ad Andrew Bird salire sul palco del maestoso salone dell’Auditorium Paganini, con Ted Poor (batteria) e Alan Hampton (contrabbasso) a comporre il trio che in maggio ha pubblicato il disco di classici jazz “Sunday Morning Put-On”. Con il violino al posto della tromba, la rivisitazione di quei classici si riveste di romanticismo vellutato e seducente e pur tuttavia il retrogusto, per buona parte del concerto, è quello di un esercizio di stile sicuramente sfizioso ma non di meno timido e ingessato. Il crescendo finale trova una via d’uscita dall’impasse ma a essere onesti e sinceri, pur con tutta la bravura espressa “sul campo”, raramente ci sono stati momenti di completa empatia. Decisamente meno statico il giovanissimo Tony Ann col pianoforte stilizzato nelle iniziali del suo nome: circondato da telecamere per fare del suo concerto un’esperienza più immersiva anche lato visual, il suo approccio al neoclassico contemporaneo si esalta grazie all’innegabile virtuosismo che gli esplode metaforicamente tra i polpastrelli durante l’esecuzione, benché la struttura dei suoi brani sia fondamentalmente sempre la stessa. Il successo che sta ottenendo gli deriva principalmente dall’utilizzo intelligente delle moderne alchimie dell’algoritmo (oltre 100 milioni di visualizzazioni…) e questo è probabilmente il motivo per cui ad assistere al concerto c’è una folta rappresentanza di giovani e giovanissimi. In chiusura di festival arriva il concerto di Dario Bassolino (e band) da Napoli “Città futura” per trasferire al corpo tutto il groove accumulato dalla mente e concedersi una rinnovata “febbre del sabato sera” a base di jazz, funk, soul e world music tutta da ballare e… chiudere così, in grande bellezza, il “Barezzi 2024”. Andrea Amadasi
Alessandro “Asso” Stefana
Sala Assoli (Napoli), 6 Novembre 2024
Non so quanto di mestiere ci sia, ma uno degli aneddoti che si possono raccontare del primo concerto da solo di Alessandro “Asso” Stefana a Napoli è il suo candido stupore nei confronti di un pubblico che conosceva (e dava segno di apprezzare) un gruppo a lui molto caro e – sempre secondo lui – meno noto di quanto meriterebbe, la Penguin Cafe (con e senza) Orchestra. Ecco, partirei da questo candore, come una semplicità fanciulla, che caratterizza la musica e la persona di “Asso”, un senso di pudore e di rispetto che si percepisce dalla voce che introduce e commenta i brani, come fosse uno studente che deve discutere la sua tesa e sa (perché ha studiato parecchio) che ci sarebbero molte altre cose da dire e che, comunque, sono cose che parlano da sole se solo le si sa ascoltare. In effetti, la sua voce un po’ tremolante e l’incedere un po’ spezzato, con qualche gustosa sgrammaticatura, non sono il suo mezzo per comunicare. È la chitarra (con una piccola parentesi all’organetto) non solo il suo strumento ma anche la sua lingua. Una chitarra vagabonda ma assolutamente consapevole di sé. Nel suono che ci cava fuori, nel fingerpicking, nei giri armonici si avverte che c’è tutto se stesso e tutto quanto ha esplorato, con particolare attenzione al blues americano, tanto è vero che nelle canzoni la voce che si sente è quella di Roscoe Holbcomb, un minatore degli Appalachi (e chi sa un po’ di musica folk americana sa quanto questa provenienza sia decisiva) che cantava la sera dopo il lavoro. Una storia di marginalità che Stefana fa risuonare in tutto il suo splendore, con una dignità umile ed inesausta, come quella della canzone Moonshiner che, nonostante il titolo romantico, ha a che fare con le distillerie clandestine del proibizionismo. La proposta di Stefana (che è anche una presentazione del suo recente disco solista) si inserisce in una manifestazione (Epifonie) curata da Marco Stangherlin che fa del cuore di Napoli (in questo caso la Sala Assoli, impiantata nei Quartieri Spagnoli), ormai assaltata e trasformata dal flusso turistico, un luogo dove esplorare suoni e musiche fuori dai classici giri, con una attenzione alla sensibilità, alla qualità e alla ricerca, come una decisiva – per chi volesse – nota ai margini dell’attuale imperante overtourism. Girolamo Dal Maso
Le Guess Who?
Utrecht (NL), varie location 07/10 novembre 2024
Veramente arduo riportare in maniera sintetica ed asciutta i contenuti di un festival che da anni recita la parte del leone negli ambiti dell’avanguardia popolare occidentale e delle musiche dal globo tutte. Assieme all’americano Big Ears, l’olandese Le Guess Who? è uno dei nuovi manifesti alla diversità in musica. Con artisti provenienti da ben 66 paesi – di rigore ogni anno fronteggiare le autorità per ottenere i visti di alcuni musicisti – la rassegna sposa tanto le periferie che i centri nevralgici delle culture del nord e del sud del mondo. Tralasciando le ovvie sovrapposizioni che condizionano le scelte quotidiane, in quattro giorni l’offerta esponenziale rimane da brividi. Evitando accuratamente di citare i pezzi forti delle singole serate, lasciando da parte un approccio didascalico che ha ben poco a che fare con la natura del festival, di getto vi riporto impressioni e numeri sensazionali.
Se la nostalgia è ancora un sentimento valido, la memoria è messa a dura prova dal breve discorso di Brendan Canty prima dell’esibizione di James Brandon Lewis coi Messthetics. Torno indietro di quasi un quarto di secolo all’ultima esibizione dei Fugazi in terra romana: rivedere Canty e Joe Lally – che mi permetterei di definire “gli Sly & Robbie del post punk americano” – in questo contesto la dice lunga delle loro lungimiranti scelte. Con Anthony Pirog alla chitarra e Lewis alle ance il risultato è strabiliante, e ancora mi chiedo come la nuova direzione artistica di casa Impulse ! abbia trovato spunti commestibili in una musica che rimane così cocciutamente spigolosa. Da un surrogato di espressionismo dopo-punk ed ovvi trascorsi free jazz, il risultato che otteniamo è un nervoso free-funk che deve tanto alla no wave newyorkese quanto alle scorribande di James Blood Ulmer e della Decoding Sosciety di Ronald Shannon Jackson.
Di pari intensità è il contributo del batterista sudafricano Asher Gamedze, che anziché presentarsi con la formazione titolare dell’ultimo album su International Anthem ci regala la prima europea del quintetto ‘egiziano’ con – tra gli altri - Maurice Louca ai synth modulari e uno splendido Alan Bishop nel ruolo inedito di sassofonista (e in quello più logico di crooner). Jazz-rock modale con influssi immancabilmente medio-orientali per un teatro contemporaneo.
Tante le voci femminili presenti grazie alla curatela di Arooj Aftab, che ruba la scena con una delle performance capitali di tutta la manifestazione. Non fosse di per sé ammaliante, la sua proposta si arricchisce anche di autentici momenti di stand up comedy (non manca tra l’altro la pittoresca offerta di alcuni shot di rum agli astanti delle prime file). Impressionato dal fitto lavoro all’acustica del suo chitarrista, realizzo a sole 24 ore di distanza che si tratta di Gyan Riley, figlio d’arte di Terry. Se la definizione di “art pop globale” ha senso, quanto proposto dalla Aftab si ascrive di diritto alla categoria. C’è spazio nel suo set anche ad una comparsata di Aja Monet, poetessa in forte ascesa di stanza a New York. Anche la sua performance ha del commovente. Seguendo magistralmente la tradizione delle varie Sarah Webster Fabio e Jayne Cortez, la sua black poetry è un’indagine senza censure sulle brutture del mondo occidentale e sulla speranza riposta nei giovani. Soulful jazz e rime d’autore in cima ad una delle visioni più alte dell’intero festival.
La cordata afro-americana è ulteriormente rappresentata da uno strepitoso Kahil El Zabar. Cresciuto sotto l’ala protettrice dell’AACM, il percussionista di Chicago nell’ultimo decennio ha conosciuto una letterale seconda giovinezza travalicando con i suoi Ethnic Heritage Ensemble i confini dello spiritual jazz per affacciarsi allo sfavillante mondo della club music. Il live è portentoso ed è esattamente la declinazione in salsa tribale e proto hip-hop degli insegnamenti dei grandi associati come Lester Bowie & Co.
Un'altra leggenda dell’AACM si esibisce in solo ed in duo (col nipote alla chitarra). Di Wadada Leo Smith colgo proprio questa seconda performance in una delle cattedrali generosamente associate alla planimetria del festival. Un set difficile, in cui la tromba duetta con la sei corde elettrificata in figure per nulla accondiscendenti, ad un passo dall’improvvisazione più radicale. Sentimenti contrastanti alla fine del gioco.
Tra le rivelazioni della kermesse metto senz’altro Dawuna, che con la giusta dose di coraggio definirei un Curtis Mayfiled del dopo-bomba. Tolti gli arrangiamenti ingombranti, gli archi e i fiati, la sua musica scheletrica è fatta da strati di nastri analogici e acquerelli ambient, ridefinendo in toto l’estetica della black music nella scabrosa urgenza del do it yourself.
Non solo band o formazioni allargate in parata, ma anche numerosi solisti. E tra i momenti più piacevoli del festival non faccio fatica a ricordare il portoghese Rafael Toral, che esordisce con familiari giri di chitarra che da Robbie Basho portano direttamente a David Grubbs (l’uomo che lo ha rilanciato) per poi perdersi in un oceano di suono generato dal metodologico uso dei pedali. A tratti sembra di ascoltare un pump organ altre una distesa infiniti di celestiali droni. Più che minimalismo è massimalismo: Rafael Toral si prende di diritto una fetta di responsabilità nella ricreazione del termine.
Per la serie shock auditivo – mai mancato nella nomenclatura della rassegna – si iscrivono alla speciale categoria The Body e Dis Fig. Non esattamente la mia tazza di tè (soprattutto di questi tempi) ma per nulla trascurabile il loro wall of sound che scuote le coscienze facendo perno su post-metal, cultura industriale ed elettronica radicale.
La mia idea di profondità e presenza di suono è forse oggi rappresentata dai veterani Creation Rebel, recentemente ricostituitisi e depositari di alcune delle più memorabili pagine del catalogo On U Sound. Con re Mida Adrian Sherwood dietro al banco di regia la botta è ancora più grossa: dub is the place, dub is the space.
Allergico per natura alle classifiche, preferisco immaginare un podio virtuale occupato di diritto da Meshell Ndgeocello, che con una formazione da urlo cuce soul music futuribile pregna di riferimenti stilistici che da New Orleans arrivano all’hip-hop più organico dei ’90 passando per la Motorcity.
Per rimanere nell’ambito delle eccellenze e confermare la natura beatamente schizofrenica del festival annovero tra i protagonisti di questa edizione i Water Damage, puro surrogato di muscoloso post-punk statunitense condensato in un monumentale corpo minimalista. In soldoni, lo storico incontro tra Tony Conrad ed i Faust sonorizzato dagli Swans (guarda caso c’è l’ex-affiliato Thor Harris ad una delle due batterie). Menzione d’obbligo per l’ospite d’eccezione Patrick Shiroishi, geniale sassofonista capace di sguazzare nei più svariati contesti, dal post-metal all’ambient-jazz.
Chiudo con la miracolosa apparizione di un ritrovato Asa Chang con il fido campionatore casalingo Junray. Due giovani polistrumentisti con lui a ricordarci l’unicità e la magia di una proposta che su queste pagine abbiamo – giustamente – incensato in tempi non sospetti. Per quest’anno è tutto. A risentirci. Luca Collepiccolo
“Festival Aperto”
Reggio Emilia, 21 settembre, 12 ottobre, 8 novembre 2024
La sedicesima edizione della rassegna di arti contemporanee del capoluogo emiliano, intitolata quest'anno in modo essenziale e significativo Articolo 11, si è svolta tra concerti, teatro, danza e installazioni, animando gli spazi teatrali di Reggio Emilia per due mesi. Il festival si è aperto con Flamenco Criollo, un progetto del pianista di Santiago de Cuba, Aruán Ortiz, da anni residente a New York. Per l’occasione, Ortiz ha riunito un ensemble di musicisti provenienti da Marocco, Palestina, Cuba, Stati Uniti e Spagna. Si è cominciato con un blues africano dal sapore di jazz spirituale alla maniera di Pharoah Sanders; il gruppo includeva pianoforte, Rhodes, oud, violoncello, percussioni e voci. L’atmosfera oscillava tra un aggiornamento della lezione degli Irakere di Chucho Valdés e una versione più soft degli esperimenti ritmici di Steve Coleman con i Grupo AfroCuba De Matanzas. Le voci arabe su percussioni caraibiche hanno incarnato l’idea di una sintesi tra culture diverse, una proposta affascinante e necessaria, anche se a tratti l’esecuzione risultava un po' artificiosa. Ad esempio, un Gordon Grdina con l'oud ha saputo raggiungere esiti più maturi e coinvolgenti. Il percorso musicale si è sviluppato tra Cuba, Africa, musica araba e flamenco, evidenziando la compenetrazione dei generi e l’intersezione delle radici. La dimensione teatrale del flamenco ha messo in risalto le affinità nella pronuncia musicale con il vicino mondo arabo. Tuttavia, in alcuni momenti emergeva (forse troppo) il virtuosismo degli interpreti, tutti eccezionali: ma chi scrive non è riuscito a percepire un filo narrativo solido che collegasse questi momenti, che sembravano più simili a quadri isolati di una mostra. Il pubblico ha applaudito convinto, e con un filo di snobismo mi è venuto da pensare che fosse prevedibile: il pubblico vuole essere intrattenuto. In questi sketch non si avverte né caos né coerenza; si pesca dal jazz per la complessità degli accenti, ma il risultato è una fusione a freddo di mondi. Quando gli interpreti aprono le finestre alle strade polverose di Santiago, il ritmo cambia marcia e finalmente arriva una rumba irresistibile. Le cinque donne in scena — tre cantanti e due danzatrici — sanno catturare l’audience con grande maestria, e ci sono momenti di travolgente dialogo di mani, menti e corpi. Alla fine, però, resta l’impressione di uno spettacolo più pop di quanto ci si aspettasse, non sempre nel senso migliore del termine (e chi scrive non ha nulla contro il pop). Rispetto a lavori più strutturati, come l'ottimo Inside Rhythmic Falls del 2020, pubblicato dalla raffinata Intakt con Andrew Cyrille alla batteria, questo progetto non ha convinto del tutto. Dopo il debutto ad Amsterdam nel 2021, il gruppo non si riuniva da allora: evidente l’entusiasmo nel ritrovarsi e la generosità verso il pubblico, ma la performance resta da rivedere.
La mia personale esplorazione nel ricco programma del festival è proseguita il 12 ottobre con Nuvolario di OHT, accompagnato da Sentieri Selvaggi alla Cavallerizza. Qui, l'incontro tra una messinscena minimale e asciutta e la proiezione di frasi letterarie a tema nuvole si è fuso con l’esecuzione di Music For 18 Musicians di Steve Reich. Chi scrive non aveva mai avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo questa straordinaria composizione e, come alcuni amici mi hanno riferito all'uscita, l'inizio è stato commovente. Un gamelan quasi elettronico, dal respiro biologico, con ondate di marimba e pianoforte, un cuore novecentesco che pulsa regolare e sfasato; una formula semplice e al contempo intricata, sfuggente eppure a portata di mano, umana, troppo umana. L’influenza di un brano del genere su molta della musica odierna è incalcolabile: si pensi ai Battles o ai Ronin di Nik Bärtsch. Quanto è durato il pezzo? Difficile dirlo, ci si perde in questo delicato vortice che solletica i sensi. A un certo punto ci si accorge che i pianoforti sono quattro, mentre una nebbia di nuvole avvolge ormai lo schermo e la platea. Carlo Boccadoro, dopo un tempo indefinito, entra con le maracas; mille variazioni minime ma cruciali sul tema, come se scomponesse una cellula e ne osservasse ogni rifrazione. Resta una malinconia sottile alla fine, il battito degli archi, una vibrazione non minacciosa.
L'8 novembre, infine, è stata la volta di un omaggio ad Amelia Rosselli al Teatro Cavallerizza, uno spazio che meriterebbe più attenzione. Per la prima volta si sono incontrati la cantante Camilla Battaglia — già invitata in altre occasioni in duo con Luca Perciballi nel progetto Public Speaking — e il pianista americano Matt Mitchell, ben noto agli appassionati di avant-jazz. “Tu non sai chi sei e cosa cerchi/Non so cercarti e tu non sai chi sei e cosa cerchi.” Il pianismo angolare di Mitchell, straordinario nel trovare spigoli dove solo il suo talento riesce a illuminare, si intreccia come edera alla voce cristallina e personale della Battaglia. Sono canzoni peculiari, dove la decostruzione del tessuto lirico e la ripetizione di singole parole e versi assumono un ruolo centrale, “in un trasporto che tu non sempre puoi.” In uno dei momenti più riusciti, la voce si fa uccello e spicca il volo, mentre sciami di note allusive si levano dalle dita di Mitchell. In alcune di queste canzoni sospese e dilatate, la Battaglia usa anche l’elettronica tramite SuperCollider, mentre Mitchell esplora territori più free e astratti, mantenendo sempre alta la qualità narrativa e musicale. A tratti, il pensiero corre a cantanti come Patty Waters o Sara Serpa, con il loro modo di sconfinare dalla forma-canzone per poi rientrarvi. Come ha spiegato la stessa Battaglia, l’idea del progetto è celebrare l’importanza di un’opera poetica come La libellula, che parla di rigore e libertà, e rendere omaggio al legame tra musica e parole, centrale per Amelia Rosselli. “C’è molto sapere di non sapere in queste poesie, un’attitudine che ci arriva da lontano e che dobbiamo mantenere viva,” ricorda Camilla. Il tono generale è asciutto, intenso, riflessivo; il pubblico, purtroppo, è esiguo, ma quando due spettatori abbandonano la sala durante il set, lo interpreto come un buon segno. Mentre Mitchell continua imperterrito a accumulare cluster e digressioni imprevedibili, la Battaglia insiste sulla ripetizione di versi e parole, mostrando un’eccellente tecnica. Peccato solo che in questo duo il talento straordinario dei due interpreti non sempre trovi una forza comunicativa altrettanto potente. Il Festival Aperto si concluderà a fine novembre; per gli ultimi spettacoli, potete consultare il programma completo su https://www.iteatri.re.it/tipo/aperto/ Nazim Comunale
JazzONZE+
Lausanne (CH), Salle Paderewski - BCV Concert Hall - Jumeaux Jazz Club, 29 ottobre/3 novembre 2024
Pronti via, boom boom: la trentasettesima edizione del festival jazz losannese è partita di slancio, con la doppia esibizione nella stessa serata di martedì 29 dell’Avishai Cohen Trio. Casino de Montbenon due volte sold out, per il contrabbassista israeliano trapiantatosi diciottenne con successo a New York, facitore di musiche granitiche, proposte sempre con il giusto vigore e più di un tratto lirico, di solito recuperato dalle proprie radici. A onor del vero, non c’è molto di meglio nel catalogo attuale del mainstream e per quanto lungo la carriera i suoi concetti musicali non abbiano subito grandi sommovimenti, vederlo agire in presa diretta rimane esperienza piuttosto appagante. Nell’occasione c’era da promuovere “Brightlight”, pubblicato appena qualche giorno prima, e da lì sono state pescate varie tracce, senza rinunciare ad antiche hit come Remembering. In formazione adesso ci sono due giovani speranze, il pianista Guy Moskovic e la batterista Roni Kaspi, che non sono male, pur se al momento Shai Maestro si fa ancora rimpiangere. Il vicino di poltrona, che aveva visto anche il primo set, asseriva che sostanzialmente i due live si erano equivalsi, con qualche piccola modifica nella scaletta e un po’ di fatica in più a dialogare nel secondo: non avevamo motivo per non credergli. Il giorno appresso siamo andati alla BCV Concert Hall a testare la tenuta dal vivo di Anat Cohen, che su disco di solito rende bene. Per chi ama il gossip segnaliamo che lei è la sorella dell’altro celebre Avishai, il trombettista, mentre per chi si intende di musica risulterà abbastanza inutile dire che da qualche tempo ha formato con Vitor Gonçalves (pianoforte, fisarmonica, Rhodes), Tal Mashiach (contrabbasso), James Shipp (vibrafono, percussioni) un gruppo denominato Quartetinho, già responsabile nel 2022 di un omonimo album. Sorta di pifferaia magica, la Cohen ha soffiato nel clarinetto (e in un trittico di altri brani al clarone, preso in prestito in loco) con indubbia classe e ci ha guidato alla scoperta di una world-jazz music, la sua, che a un certo rigore formale barocco accoppia coloriture e vibrazioni affittate dal Sudamerica, Brasile in testa. Gonçalves ha dimostrato di saperci fare, tenendo in piedi l’intera band con un certo slancio. Al giovedì i flyer messi in circolazione due mesi prima annunciavano in cartellone, in orari non coincidenti, tanto Kamasi Washington quanto Meshell Ndegeocello, ma lo show del primo è stato riportato al 31 marzo 2025 ai Docks, mese che lo vedrà tornare in Europa per un lungo tour che toccherà anche l’Italia in aprile (22 Milano, 23 Roma, 24 Bologna). Non che lo attendessimo come un messia, però un po’ di curiosità c’era. Ci siamo dunque dovuti accontentare della Ndegeocello e della sua corposa formazione, un sestetto comprendente Justin Hicks (voce), Jake Sherman (organo), Jebin Bruni (tastiere), Christopher Bruce (chitarra), Kyle Miles (basso) e il batterista Abraham Rounds. Il menù non poteva che prevedere larghi scorci dal recente “No More Water: The Gospel Of James Baldwin”, con tanto di didascalie proiettate sul fondo del palco, e così è stato. Per quanto non siano mancati passaggi emotivamente significativi, nell’insieme il suo live è sembrato poco brillante e segnato dalla staticità, con la stessa leader più propensa a declamare seduta sullo sgabello che a imbracciare il suo basso elettrico. In estrema sintesi, non è stata una serata all’altezza delle aspettative, ma può capitare anche ai migliori di non essere in grande forma. Speravamo di rifarci la giornata seguente: siamo stati invece ulteriormente delusi, colpa del cartello appeso alla porta della BCV Concert Hall che annunciava l’annullamento, all’ultimo, del concerto della vocalist Cyrille Aimée e del suo quartetto per ragioni di salute dell’artista. Peccato, perché la francese, costruitasi da sé pezzo a pezzo partendo letteralmente dalla strada, possiede uno stile solido e preciso, che sta dentro la tradizione ma riesce anche a vivacizzarla. Nel tentativo di consolarsi, cambio radicale di genere e di location in tarda serata, con il tedesco Moses Yoofee allo Jumeaux Jazz Club. Produttore e tastierista quadrato e convinto, ha in gestione un power trio – completato da Roman Klobe-Barangā (basso elettrico) e Noah Fuerbringer (batteria) – che lo segue e talvolta lo anticipa convinto. Il set che ne è risultato surfa con abilità sulle onde di un electro-jazz sicuramente oggi di tendenza, ma lo fa con una durezza e spigolosità inusuali, senza perdersi in romanticherie e stasi fusion. Sprofondato in ritmi debitori di drum’n’bass e hip hop, Fuerbringer è un rombo di tuono efficace. Dopo un’ora e mezza il foltissimo pubblico non ne aveva ancora abbastanza, a conferma che Yoofee e i suoi erano riusciti a centrare l’obiettivo. Il sabato 2 novembre si annunciava pieno e cominciava a metà pomeriggio nell’auditorium dell’EJMA, con la giornalista Elisabeth Stoudmann (vedi all’antica voce “Vibrations”) e dal chitarrista e vocalist ghanese Kyekyeku, leader dei Super Opong Stars, a intrattenerci con la seconda parte dell’esperienza d’ascolto “Jazz&Afrique”, patrocinata dall’associazione Jazz History. Se nel 2023 il nesso era stato sviluppato centrando l’attenzione sul West-Africa, stavolta i due conduttori, al solito aiutati dalla proiezione di testi e immagini alle loro spalle, hanno giocato a ping pong. Una lanciando in orbita brani di jazz sudafricano, l’altro rispondendo con esempi di ethio-jazz e affini, per un’ora e venti abbondante di ottima musica e disquisizioni mai accademiche. In serata, ritorno alla Salle Paderewski per un doppio spettacolo. Ad aprire, il Louis Matute Large Ensemble, progetto allargato rispetto al quartetto che il giovane chitarrista svizzero aveva proposto nel 2021. Da un certo punto di vista Matute dimostra di essere cresciuto non poco, ma dall’altro il sestetto che dirige, comprendente anche il tenorsassofonista Léon Phal, non pare ancora muoversi in una direzione certa e sovente il gruppo procede in realtà a tre o a due, perdendo il vantaggio e la forza del collettivo. L’invito a salire in scena rivolto alla cantante francese Gabi Hartmann, per quattro brani di sapore latin e brasilero, non ha fatto altro che aumentare la dispersione delle idee. Insomma, la qualità ci sarebbe anche, ma il Matute Large Ensemble farebbe bene a individuare un bersaglio stilistico preciso al quale mirare. Dopo un cambio di palco laborioso e qualche problemino audio all’inizio della performance, è stata la volta della stella di giornata, quel Christian Scott che da un po’ si fa chiamare Chief Xian aTunde Adjuah. Dato che nelle sue vene scorre il sangue di New Orleans (è nipote di Donald Harrison Jr.), si è proposto con l’orgoglio e la forza che ne hanno sempre contraddistinto l’agire. Nella prima parte del live ha suonato un ibrido di sua progettazione, che unisce in sé il suono dell’arpa, della kora e dello n’goni per accompagnarsi al canto. Brani affrontati a volumi sostenuti, tanto che qualcuno tra il pubblico si è lamentato con vigore. “Lasciate ai fonici il loro mestiere” ha prontamente ribattuto il Capo, proseguendo come se nulla fosse. Anche le due trombe in seguito impiegate, rilucenti e strane nel design (una con la campana un po’ all’insù in stile Gillespie) portavano la sua firma, perché lui controlla ogni fase della filiera. Si va così dal produttore al consumatore senza intermediari, aggrediti da una generosa cascata di note dall’inizio alla fine per due ore tonde di fila, che non è poco di questi tempi. Ci sono ricordi del Davis elettrico nelle trame proposte da Chief Adjuah, a cominciare dalle lunghe tirate che permette al resto della band, in particolare al chitarrista Cecil Alexander e al tuttofare Morgan Guerine (sassofoni, EWI, tastiere, percussioni elettroniche), e dalle richieste di spingere continuamente rivolte a Max Mucha (contrabbasso) e al roboante batterista Elé Howell. La sua stretch music, con quel tirare dentro pulsioni afro, hard-bop infuocato, strappi funk, qualche barlume di spiritual jazz e spasmi electro dati in pasto al pubblico con fragore, non ha convinto proprio tutti, tanto che dopo un’ora qualcuno se n’è andato. La gran parte del teatro ne è stata comunque conquistata e alla fine gli ha tributato caldi applausi e urla di approvazione, riportandolo sul palco ben due volte. Chief Adjuah è così, un muscolare e un agonista che ci mette tutta la forza che ha (e dal vivo ne ha davvero tanta). Prendere o lasciare. Piercarlo Poggio
Uzeda
Kingston Live, San Nicola La Strada CE, 1 novembre 2024
Dopo qualche anno torno a sentire gli Uzeda. La location mi ha all’inizio un po’ sorpreso, un simpatico locale rintanato negli spazi chiusi e aperti di un vecchio palazzo, con un monumentale cereo prima dell’ingresso e i classici muri e volte in tufo all’interno, ma – almeno per le mie aspettative – decisamente compresso per la musica potente degli Uzedi. Mi domandavo, ad esempio, come avrebbe fatto a suonare, lui che non sta fermo un attimo, Agostino in quel mini palco tutto concentrato. Di pogare non se parlava proprio. E le grosse mura in tufo avrebbero retto l’urlo dei decibel? Non è che tutto sarebbe scoppiato come una pentola a pressione? In effetti tutto è scoppiato, esploso, ma in tutt’altro senso. La scaletta del concerto è ormai collaudata (niente nuovi dischi da promuovere) e tutto è filato liscio. Liscio come una colata di lava. La massa sonora che i quattro catanesi hanno saputo creare e muovere come un flusso è stata propria una colata, non quella degli altoforni ma quella dei vulcani che fuoriesce da dentro la terra e sulla terra scorre fino a raggiungere il mare. Qualcosa di fluido, insieme solido e liquido, mobile e compatto nello stesso tempo. Lo spazio ridotto ha esaltato al massimo la potenza di un suono che ha riempito ogni più piccolo anfratto, ogni screpolatura, infilandosi dentro le orecchie (qualcuno aveva degli opportuni tappi) e dentro tutto il corpo e la mente. Una botta prolungata di energia che ha esaltato il “pieno” della musica degli Uzeda. Non giocano al risparmio ma danno tutto e questo tutto è denso di tanta roba, non solo di riff, di urli, di ritmi travolgenti, di suono ma anche di senso, di vita, di comunicazione. Ciò che mi colpisce è la positività di questa energia, come le tossine negative della rabbia fossero tutte transustanziate da una carica positiva, come un abbraccio di vita, una vita forte, densa, magari non facile ma bella. È stato un bel concerto perché ha suonato la bellezza della vita, quella bellezza che spesso si rintana in luoghi appartati, fuori dai luoghi comuni, dal senso comune, come una luce impastata nel buio ma che non viene a patto con esso. Una forma di resistenza, per non cedere ai mali e ai malesseri di questo mondo e di tutti i mondi, per non farsi contagiare dai virus che ci vorrebbero tutti uguali a difendere la propria carcassa. Un concerto degli Uzeda (molto meglio dal vivo che su disco – anche se i loro dischi sono ottimi) non dimostra nulla ma tira fuori e fa tirar fuori quelle energie positive che troppo spesso dimentichiamo o deleghiamo e invece fanno parte di noi, ce l’abbiamo dentro. Gli Uzeda lo fanno da musicisti, da artisti. Sta a ognuno vedere come può cavar fuori la lava che ha dentro, il fuoco compresso che è vita e nulla può trattenere se non la crosta che ci costruiamo sopra. Sono quelle sacche di resistenza da cui ogni tanto sfugge qualcosa. Magari qualcosa ustiona o colpisce, ma ciò che è essenziale resiste. Sempre. Forse siamo così mosci perché abbiamo perso di vista questo, quello che siamo, quello che dobbiamo cercare di essere. Questo mi pare trasmetta un concerto degli Uzeda. Ce n’era bisogno. Loro resistono, e infatti passano gli anni e non perdono un pelo della loro carica. Dei vulcani in azione. Girolamo Dal Maso
Pierre Bastien / Sug:gestiva
Roma, Ex Cartiera Latina, 3 novembre 2024
D’improvviso un’idea, un parallelo: la musica di Pierre Bastien sta alla ricerca metodologica del suono e delle fonti come il cinema di David Cronenberg al maniacale utilizzo del corpo. Venerato negli ambiti dell’elettronica (la pubblicazione del disco culto “Mecanoid” per la Rephlex di Aphex Twin) e della musica avant (dal debutto per l’oasi rock in opposition Recommended alla collaborazione coi Tomaga), il musicista parigino non finisce mai di stupire. Prova e riprova ne è questo intimo live all’interno di un padiglione dell’Ex Cartiera Latina nel suggestivo parco dell’Appia Antica, location che amplifica lo spirito cinematico della performance, considerato che Bastien trasmette in diretta su schermo il suo live (per assurdo sembra di rivedere il film sperimentale di Phill Niblock per Sun Ra), senza lesinare informazioni relativamente ai materiali utilizzati. Dei più bizzarri, invero: messi momentaneamente da parte i meccano, tra gli strumenti utilizzati si annoverano la classica pocket trumpet e una serie di congegni autocostruiti che stupiscono per funzionalità e struttura, persino una stampella viene riutilizzata con l’ausilio di corde in nylon, generando un suono prossimo a quello dello zither. Musica meccanica in cammino, diretta discendente di un sentire figlio della musique concrète ma non avversa a contaminazioni global e funzionali figure minimaliste. Sequenze eccitanti, rese ancora più avvincenti dall’introduzione di altri prototipi – come al culmine dell’esibizione – a testimonianza di un continuo indagare e interagire con fonti sia casalinghe che naturali. Un esempio solenne di spirito senza compromessi, smorzato solo dall’atto pubblico della condivisione. Maestro. Luca Collepiccolo
White Buffalo
Firenze, Viper Theatre, 25 ottobre 2024
Dopo aver visto decine di concerti nei club, negli stadi, nei teatri, nelle piazze e in ogni luogo immaginabile, e avendo raggiunto un’età quasi venerabile, pensavo sinceramente di non avere molte possibilità di emozionarmi ancora ad un concerto. E invece…
Venerdì 25 ottobre in una giornata piovosa trascorsa tra viaggi in treno, ombrelli rotti e traffico urbano, io e il mio esperto compagno di avventure Gianluca Gori ci avviciniamo finalmente al Viper Theatre di Firenze per assistere alla data di apertura del tour italiano dei White Buffalo (targato Bagana Music), la band di Jake Smith. Prima di esprimere qualsiasi riflessione o critica sul live dei White Buffalo, ci tengo a precisare che fino al 19 maggio 2023 questa band losangelina era per me un oggetto misterioso perso tra playlist online e recensioni fugaci. Ma quella giornata di maggio ebbi l'occasione di vederli e sentirli a Roma, al Circo Massimo, come gruppo di apertura di Bruce Springsteen. Il concerto, bagnato da una pioggia intensa e fastidiosa, aveva messo in mostra una performance letteralmente monumentale. Colpo di fulmine: da allora è iniziato il mio peregrinare per sentieri impervi tra notizie, registrazioni e streaming alla ricerca della musica dei White Buffalo, progetto musicale fondato dal cantautore Jake Smith nel 2002 a Los Angeles.
Il Viper è gremito, si chiacchiera, ci si saluta, si suda… e poi sul palco sale Jake, da solo con la sua chitarra. Il silenzio si fa palpabile, un vento caldo e potente travolge tutto con la sua voce profonda. L’apertura è di quelle che tolgono il respiro: Wish It Was True (contenuta nell’album Once Upon a Time in the West del 2012) lascia senza parole. Un brano enigmatico, potente, antico e attuale allo stesso tempo.
Nell’esibizione di questo piccolo branco di bufali bianchi si odono echi di Bob Dylan, per la loro abilità nel raccontare storie attraverso la musica; di Johnny Cash, per l’impatto emotivo e la profondità dei testi; di Neil Young, per l’approccio folk e rock e la capacità di evocare atmosfere magiche; e di Bruce Springsteen, per l’abilità nel creare ballate epiche e per la connessione con il pubblico che esse sono in grado di creare. Personalmente, alcune chicche che mi hanno particolarmente emozionato: Join the Murder, Oh Darling What Have I Done, The Whistler e la cover di Highwayman di Jimmy Webb. So, può sembrare tanto, forse troppo, ma oggi, con l'anagrafe che avanza e la voglia di musica autentica e sudata, i tre White Buffalo - Jake Smith alla voce e chitarra, lo straordinario Matt Lynott alla batteria e Christopher Alan Hoffee al basso e chitarra- rappresentano a loro modo il futuro di un’America smarrita, ferita e mai così lontana da se stessa. Per noi che abbiamo guardato al nuovo continente con passione e rassegnazione, amandone la vastità e le piccole cose, le contraddizioni e le certezze, oggi questa band che ha il coraggio di interpretare un classico come House of the Rising Sun senza risultare didascalica, riempie le nostre giornate con una colonna sonora che illumina il cammino verso ciò che ci attende.
Mentre la serata prende fuoco e i White Buffalo danno fondo a tutta la loro potenza, ci guardiamo attorno e ci rendiamo conto che in mezzo a barbe brizzolate, qualche chilo di troppo e volti maturi ci sono anche molti giovani che hanno scelto di abbandonare le strade sicure a quattro corsie per camminare tra i sassi e le sterpaglie della vita e le salite della musica no-mainstream. Guardo Gianluca e lo ringrazio per essere ancora qui, a camminare insieme e forse senza una direzione precisa. Ricordiamoci sempre però che non è la meta che conta ma il viaggio e lo percorre accanto a noi. Andrea Laurenzi
Michel Houellebecq al Festival “Radici” (anteprima)
Circolo dei lettori, Torino, 14 e 24-27 ottobre 2024
Al via questo weekend a Torino la seconda edizione del festival Radici. Il festival dell’identità (coltivata, negata, ritrovata): libri, musica e film per discutere, in tempi di cambiamenti spaventosi e repentini come quelli in cui ci troviamo a vivere, intorno al problema del rapporto con la nostra identità e dell’incontro con l’Altro. Insomma, i soliti spunti di riflessione triti e fumosi necessari per organizzare un festival, che sono però un’ottima scusa per portare nel capoluogo piemontese nomi del calibro di Irvine Welsh, Tiziano Scarpa, Arturo Brachetti, Alain De Benoist e Walter Siti. Lo scorso anno Torino aveva ospitato niente meno che Bret Easton Ellis, re indiscusso del minimalismo americano in uscita con Le schegge, romanzo da leggere con lo stereo acceso perché talmente infarcito di riferimenti ad album e brani degli anni Ottanta che ha generato un proliferare di playlist “da lettura” su Spotify (dalle 40 alle 120 tracce, verificare per credere). Quest’anno, il Circolo dei Lettori ha scelto come padrino del festival Michel Houellebecq, lo scrittore francese vivente più letto e tradotto nel mondo, che ha concesso, per l’anteprima di Radici, un’oretta scarsa di chiacchierata al pubblico torinese.
Si è trattato di un evento più unico che raro: Houellebecq non è solito prestarsi a incontri con i lettori, e il fatto che non avesse un libro in promozione rende la sua comparsata ancor più eccezionale, giustificando la lunga coda (i più intrepidi si sono appostati in via Bogino tre ore prima) per accaparrarsi i pochi posti disponibili in sala. Ha impressionato come uno scrittore dalla penna tanto decisa e lucida, avesse un tono così dimesso, monocorde, incespicante, ingarbugliandosi a volte nelle parole e altre volte riflettendo a lungo, attraverso silenzi e balbettii che ricordavano le apparizioni televisive di David Foster Wallace. Non c’era traccia della veemenza dei suoi protagonisti, né della violenza di certe sue affermazioni. Più che riflettere intorno al concetto di identità, l’incontro, mediato da Ottavia Casagrande, è parso quasi come un tentativo di farlo uscire allo scoperto, di rimuovere la maschera da écrivain maudit, di coglierlo in fallo su posizioni politiche e ideologiche che Houellebecq sostiene da cinquant’anni, come se non fosse uno degli autori notoriamente più controversi al mondo. Il tentativo è stato ovviamente disinnescato dalle risposte, snocciolate una in fila all’altra senza cadere nella trappola, senza battere ciglio, senza tentare (e come poteva essere altrimenti?) di schermirsi. D: Lei è un misogino? R: Mi definirei piuttosto come un macho. Se una donna piange, un misogino si arrabbia, un macho si intenerisce. D: A un anno di distanza dal 7 ottobre, lei è sempre un sostenitore di Israele? R: Certo. Se Israele smettesse di combattere verrebbe spazzata via. L’antisemitismo in Europa ha raggiunto livelli preoccupanti. E via di questo passo.
Houellebecq ha però dato qualche speranza ai suoi lettori. Diversamente da quanto annunciato dallo scrittore, Annientare potrebbe non essere il suo ultimo romanzo. In realtà, il memoir Qualche mese della mia vita, aveva già reso falsa questa affermazione: un libricino nato da un’esigenza, quella cioè di raccontare il ricatto subito da un gruppo di visual artist olandesi del collettivo Kirac (Keeping It Real Art Critics), che avevano girato un film porno con Houellebecq come protagonista, per poi diffondere il filmato e rendere pubblica la vicenda, mettendo in moto tutta la macchina giudiziaria e, di concerto, quella della stampa scandalistica. L’autore ha fatto suo malgrado una più approfondita esperienza dei tribunali (tra l’altro, D: Un consiglio a un giovane autore? R: Scegliersi un buon avvocato), e per la prima volta ha tentato di autobiografarsi. L’esperimento è stato definito “interessante”, e l’iter processuale potrebbe aver fornito allo scrittore francese nuovi spunti per un libro. Houellebecq tornerà con un nuovo romanzo? Ce lo auguriamo di cuore. Ian Poggio
Hard-Ons
Blah Blah – via Po, Torino, 12 0tt0bre 2024
L’alto tasso di amarcord che la serata
Oh! Gunquit
Paper Dress Vintage, Hackney, Londra, 6 dicembre 2024
Noncurante dell’allerta meteo preannunciata dall’imminente arrivo della tempesta Darragh mi reco al Paper Dress Vintage, zona Hackney, un’accogliente boutique di vestiario con annessa saletta concerti. La serata promette bene. A scaldare il pubblico c’è il leggendario Barry Myers ovvero DJ Scratchy, (tour DJ dei Clash dal 1978 al 1980), come supporto una rara apparizione dei Future Shape of Music, ovvero il collettivo del chitarrista e produttore Alex McGowan (aka Captain Future), a “crime gospel and primitive blues” 9-piece. Mezz’oretta di gris-gris sound con lo spirito di Dr. John che aleggia nell’etere dove sprofondiamo nel nero pece degli occhiali da sole di Alex per riemergere incolumi e purificati grazie al gospel delle coriste che ci indicano vie salvifiche da percorrere e ricordarci che nonostante l’ineluttabile evidenza del “Gone all Wrong” bisogna sempre “Rise Up” (entrambe stanno nel recente Shakedown Gospel) con qualsiasi mezzo a disposizione (“Help me Jesus”, che conclude il set).
Poi tocca agli Oh! Gunquit, quintetto capitanato dal chitarrista Simon Wild e dall’americana trapiantata a Londra Tina Swasey. Last Day on Earth apre le danze tra l’euforia del pubblico. Segue Fireballs, che riporta alla mente i grandi B-52's, e con il surf del nuovo singolo Shark Bait il party è in full swing con la platea tarantolata dalla contagiosa energia trasmessa dal gruppo. Si prosegue tra numeri ben collaudati (Head Bites Tails, Dance Like Fuck, Suzy Don’t Stop) e inediti dal quarto album in uscita a marzo (Flex, prodotto dall’Alex prima citato). What Do You Want, col suo infettivo groove wave funkeggiante, il feroce inno Sniffing Glue e Ride the Trip Out con sax e tromba che duellano: la chitarra buzzsaw surf di Simon, il sax urlante di Luciano, la ritmica forsennata del grondante Ergun e la scatenata Tina (probabilmente la migliore frontwoman attuale) sono i magici ingredienti per un coinvolgente party a go-go di puro divertimento. Sulle note di Whiplash Tina, frusta in mano, scende in platea a fustigare le chiappe del festoso pubblico, e sul surf strumentale Crossfire suona la tromba facendo Hula-Hoops! So Long Sucker e Whack It, con Tina e Luciano a esibirsi tra il pubblico, sembrerebbero concludere la serata, ma dopo il siparietto lotteria con tanto di premi e regalini natalizi (gradito per tirare un po’ il fiato) la festa continua con Bad Bad Milk e Voodoo Meatskake, con Tina che invita il pubblico a salire sul palco a ballare col gruppo per un gran finale. Gli Oh Gunquit! non sono soltanto un grande gruppo di exotic sci-fi surf punk & trashy rock-n-roll (come si definiscono) ma una delle migliori party bands attuali. Vi consiglio calorosamente di non perderli se capitano dalle vostre parti: ne rimarrete folgorati e passerete una serata di gioioso escapismo, che di questi tempi non è roba da poco. Ferruccio Guglia
Joe Gideon - King Hannah - The KVB
Monk, Roma, 5 dicembre 2024
Dopo mesi di risacca sul versante concerti-indie-internazionali-di-media-entità, quelli cioè che piacciono a noi hipster ormai old skull, Roma stasera torna a risplendere, al Monk, grazie ai ragazzi di DNA Concerti - che, tiratina d’orecchie, dovrebbero ricominciare a portare più cose nella Capitale visto il loro prezioso roster e visto che da queste parti la sete è così tanta che serate del genere vanno facilmente sold out - che portano tre artisti britannici pescati dalla propria scuderia, in una sola volta con una formula pay-per-view insolita da queste parti ma obbligatoria per l’economia e la sostenibilità della serata: si paga per singolo concerto (in realtà smezzati tra Joe Gideon/King Hannah - The Kvb) oppure si fa un mini-abbonamento per vedere tutti gli artisti insieme.
Apre la mini kermesse quel vecchio lupo chiamato Joe Gideon, inseparabile dalla sua telecaster, che, anziché dalla sorella Viva Seifert come ai tempi dei Joe Gideon & The Shark, si fa accompagnare dal prestigioso session man John J. Presley che si alterna tra synth, tastiere, basso e seconda chitarra assecondando con grazia e disinvoltura il parlato/cantato/recitato loureediano di Joe. Ipnotici e magnetici, soprattutto quando performano dei pezzi molto intimi e bluesy che dal vivo vengono ridotti all’osso, - così fragili e intensi che ti vergogni quasi a scattare una foto tanta è la paura di rompere il flusso - Gideon e il compare passano in rassegna le ultime cose del catalogo insieme ai vecchi pezzi, come Civilisation, che fecero la fortuna degli “Shark” a fine anni zero e che hanno predetto poi tante cose inerenti al filone neo-post punk.
La coppia, nella vita e in musica, chiamata King Hannah, e vale a dire Hannah Merrick (voce e chitarra) e Craig Whittle (alla chitarra) si fa coadiuvare dal vivo da un batterista e da un bassista/tastierista, per cercare di riprodurre al meglio la complessità e la stratificazione dell’ultimo “Big Swimmer”, stasera passato completamente in rassegna. Il canovaccio strutturale delle canzoni del nuovo album prevede (quasi) sempre un inizio scarnificato, quasi cullante, batteria/basso/voce che prende letteralmente fuoco nei ritornelli e nelle lunghissime code strumentali, quando la rustica chitarra di Craig ha il sopravvento. Dal vivo questa prammatica è messa in rilievo da una forte vena portisheadiana, molto psych-blues. Hannah, con la sua presenza e la sua voce tra il tossico e il sensuale, è magnifica avvolta nel suo abito rosso con fantasie gitane che abbina a delle vecchie gazzelle® rovinate, diventando il simbolo di uno stile che unisce raffinatezza ed eleganza ad una buona dose di leggerezza. Ammalianti. Questa è musica che live ti entra addosso, poco da fare. Quasi sul finale esibiscono un’ottima versione stomp di State Trooper del Boss per poi chiudere - dopo che la cantante ha ripetuto più volte che l’Italia è il suo posto preferito per suonare - con la cover di Blue Christmas di Dove O’Dell, appena pubblicata dal duo su tutte le piattaforme.
Se, e siamo sinceri, su disco i KVB non ci hanno mai convinto del tutto, e li abbiamo sempre stigmatizzati come uno dei mille gruppi che fa synthwave/EBM a mo’ dei New Order e derivati… dal vivo invece dobbiamo ammettere che sono una vera e propria bomba! Tra ghiaccio e fuoco le canzoni guadagnano in bpm e resa scattante e il duo, composto da Nicholas Wood alla chitarra e voce e da Kat Day ai synth/tastiere e voce, dà il meglio di sé creando dei potenti strati musicali psych e noisy grazie ad un suono pieno e denso, studiato al millimetro, ma non per questo meno “sentito”. Techno-pop suonato alla vecchia maniera, con i Kraftwerk ben in testa, ma attualizzato con dei suoni molto calienti. Dei robot con il cuore insomma. Marco Giappichini
Teho Teardo & Blixa Bargeld
Kulturkirche, Colonia, 3 dicembre 2024
Teho Teardo e Blixa Bargeld tornano a Colonia per recuperare la data saltata lo scorso anno e per presentare il nuovo splendido album “Christian & Mauro”. L’attesa è palpabile. La Kulturkirche di Nippes, chiesa luterana e importante polo culturale che aveva già ospitato i due anni fa, segna il tutto esaurito e si rivela il luogo perfetto per acustica e atmosfera. Quando l’ensemble si presenta sul palco – assieme ai due leader la formazione è completata da un quartetto d’archi, da Laura Bisceglia al violoncello e Gabriele Coen al clarinetto basso – la prima cosa che appare evidente è un Bargeld di buon umore, ottimo viatico per una serata che si rivelerà magnifica. Attaccano subito con due pezzi forti: “Starkregen”, l’ipnotico brano d’apertura del nuovo LP, e l’ormai celebre “Mi scusi”. Il pubblico della Kulturkirche ascolta silenzioso e attento, salvo poi esplodere in fragorose ovazioni alla fine di ogni composizione. La strana alchimia tra due musicisti all’apparenza così diversi si materializza sotto i nostri occhi. Bargeld è la primadonna, l’attore consumato che sul palco gigioneggia, scherza e intrattiene il pubblico coinvolgendolo con la sua presenza e il suo carisma. Teardo è l’architetto sonoro di questa magia: dalla sua postazione suona e dirige con mano sicura un ensemble raffinato e affiatatissimo. Il concerto attraversa la discografia dei due, dai brani del primo album ormai lontano nel tempo (“Still Smiling”, 2013) fino alle ultime composizioni che il pubblico sembra già conoscere a memoria. Il quartetto d’archi, la chitarra, gli effetti e le campane di Teardo, i preziosi inserimenti di violoncello e clarinetto creano un’atmosfera onirica e cinematica che avvolge gli astanti. L’asticella rimane altissima per tutto il concerto, con alcuni picchi di assoluta bellezza. La saltellante “Bisogna morire”, che riprende una passacaglia del Seicento e nasce da un suggerimento fatto anni or sono dal maestro Morricone a Teho, scivola nella delicatissima “I Shall Sleep Again”. Altro momento clou della serata, introdotto in inglese da un Blixa in vena di aneddoti, è “Dear Carlo” ispirata al fisico e divulgatore Carlo Rovelli che pure avrebbe dovuto partecipare al brano. Il recitato di Bargeld mette insieme osservazioni terrene (“You make excellent cakes”) e contemplazioni dello spazio, mentre la musica ha un incedere inquietante con una coda che non può che definirsi psichedelica. Così come “Come Up and See Me” con un finale in crescendo con cui i musicisti si congedano dal pubblico, ma solo temporanemente. Richiamati a gran voce, saliranno nuovamente e per ben due volte sul palco. I due bis regalano ancora un altro momento ispiratissimo, cantato – come spesso accade - in italiano e tedesco: una “Menschenentsafter” (letteralmente: “Spremiagrumi per umani”) al contempo ironica e amara, perfetta fotografia della società in cui ci troviamo a vivere. Roberto Calabrò
Diaframma
Teatro Politeama, Poggibonsi (SI), 17 novembre 2024
"Chiuderò il sentimento in scatole vuote, quei ricordi appassiti in un frammento d’autunno". È con queste parole, tratte da Neogrigio, secondo brano del primo leggendario album “Siberia” che i Diaframma aprono il sipario su una serata di musica in cui passato e presente si incontrano. Un concerto che non è solo celebrazione, ma anche un atto di resistenza poetica e musicale, capace di scuotere le corde più intime dei fan. Nella sala sotterranea del Politeama di Poggibonsi siamo poco più di cento sopravvissuti all’età di spotify e dei reality. Tutti con la barba grigia, i capelli (per chi li ha) arruffati e liberi ed un abbigliamento evergreen trasandato, ma tutti assolutamente convinti del valore musicale del progetto Diaframma e della sua cosmica astrazione. Come ha dichiarato Fiumani in uno dei suoi rarissimi interventi parlati durante lo show: “tutti mi chiedevano spiegazioni sui testi delle nostre canzoni, ma io cercavo l’astrazione, volevo anche un liceo astratto”.
Il concerto è farcito di chiari richiami visivi ed emotivi all’era della New e Dark Wave, al coraggio di Alberto Pirelli e della sua I.R.A Records, al valore della musica che non si arrende alle mode, che non guarda al suono raffinato e all’intonazione ma si concentra sulla sostanza astratta dei testi e sulla solidità cura degli arrangiamenti. Tutto (volutamente) parla e suona anni Ottanta. Siamo immersi in una sorta di garage dei “Guardiani della Galassia”, ma quelli delle terre italiche, che invece che scatenarsi sui brani dei Jackson 5 lo fanno sulle note di Blue Petrolio dei Diaframma.
Federico Fiumani, anima e guida della band fiorentina, è sul palco con Edoardo Daidone alla chitarra, Luca Cantasano al basso e Tancredi Lo Cigno alla batteria. Una formazione con un equilibrio consolidato, che fa da spina dorsale al lungo tour dedicato ai 40 anni di Siberia, destinato ad andare avanti anche nel 2025. Un live scarno e viscerale che si dipana come un racconto in musica tanto essenziale e privo di artifici quanto denso di emozioni. Fiumani si conferma un narratore autentico alternando momenti di introspezione come in Impronte e Ultimo Boulevard a scariche di energia pura con pezzi come Gennaio e la cover dei Television See No Evil. La piccola Sala Set del Teatro Politeama di Poggibonsi a tratti è silenziosa e concentrata: la connessione tra palco e platea è palpabile. Ogni brano è accolto con applausi sinceri e cori appassionati che creano un’atmosfera unica. È come se i Diaframma sapessero trasformare la malinconia delle loro liriche in una celebrazione collettiva capace di unire anime diverse sotto lo stesso tetto sonoro.
Fiumani incarna l’essenza del poeta post/moderno, duro e fragile al tempo stesso, integerrimo e disponibile, lontano quanto basta dalle mode per piegarle al proprio pensiero. Con il suo stile diretto e a tratti spigoloso non cerca di compiacere, ma solo di raccontare. I testi, graffianti e sinceri, rimangono il cuore pulsante della sua arte. Da Siberia a Diamante Grezzo, ogni canzone è un frammento di un percorso umano e artistico che si snoda tra il freddo degli anni ’80 e le inquietudini dei giorni nostri. Se gli arrangiamenti delle canzoni non mostrano un lavoro di cesello e di ricerca sonora, è perché i Diaframma puntano all’autenticità e alla credibilità prima di tutto. Ogni sbavatura, incertezza e digressione diventano parte di un quadro che vive e respira rendendo il concerto un’esperienza vera, lontana dalle perfezioni artificiali del mainstream. La scaletta della serata è un viaggio nella discografia anni Ottanta della band. Spiccano momenti di pura magia come Libra, Desiderio del nulla, Elena, e l’intensità struggente di Labbra blu, Caldo e L’odore delle rose. Federico Fiumani è un resistente, un samurai della musica italiana. Come un moderno Hiroo Onoda, anche se dimenticato su un’isola discografica lontana dalle rotte commerciali, non si arrende al tempo che passa né alle leggi del mercato musicale. In una scena musicale spesso ingabbiata da logiche commerciali, Fiumani sceglie la via della coerenza e della verità artistica. Questo tour celebrativo di “Siberia” non è solo un omaggio al passato ma un promemoria per il presente: la musica, quella vera, è ancora capace di emozionare, ferire e guarire. Quando usciamo dal teatro è chiaro a tutti che abbiamo assistito a qualcosa di unico, l’istantanea di un periodo straordinario in cui la musica era qualcosa che ti cambiava la vita, ispirava e indicava a ognuno una sua strada. Che tu fossi vestito con giubbotti di pelle, che avessi le borchie anziché i jeans o i piumini, le camicie sgargianti o il rossetto sbaffato, eri parte di una grande speranza. Federico Fiumani, nel suo immenso talento e nella sua fragilità ci ha ricordato dove eravamo e, soprattutto, che ancora possiamo essere qualcosa di più, con i nostri difetti, le stonature e le stempiature dell’età, ma sempre diversi e credibili, resistenti e sconfitti. Se esisteranno ancora un garage, una chitarra, una batteria e un basso possiamo partire per un viaggio straordinario e difendere la galassia della musica dalla banalità e bruttezza del mercato, avendo sempre come nostro faro guida la poesia. Mentre l’ultima nota si spegne e in un misto di eccitazione e tristezza ci avviamo verso casa, resta l’eco di una serata che ha saputo trasformare il grigio dell’autunno in un’esplosione di colori interiori. I Diaframma sono ancora qui, più vivi che mai, lottano con noi e per noi, e sono pronti a scrivere nuove pagine di una storia irripetibile. Andrea Laurenzi
“Barezzi Festival”
Parma, varie sedi, 14, 15 e 16 novembre 2024
Diciotto anni di Barezzi meritano un veloce ma doveroso preambolo: al di là del valore sempre elevato degli artisti italiani e internazionali che si sono esibiti sui vari palchi in tutti questi anni, nonché l’etica di un evento che offre un’esperienza intima ed esclusiva, da vivere all’interno di luoghi unici e suggestivi come i teatri e gli auditorium sparsi sul territorio (oltre al rinomato Teatro Regio), ciò che veramente fa la differenza – e che andrebbe spiegato molto chiaramente alla moltitudine di impresari della musica dal vivo – è la virtù sempre più latitante del mettere davanti a tutto la crescita culturale. Che comunque la si voglia vedere è un obiettivo ancora sostenibile, oltretutto con l’impegno collaterale della ricerca e della successiva valorizzazione di giovani artisti da proporre al futuro attraverso contesti e laboratori specifici rivolti anche a quelli che frequentano le scuole dell’obbligo. È un impegno romantico ma importante, nonostante rischi di passare inosservato o addirittura peggio, bistrattato laddove la mercificazione è sempre più l’unica cosa che conta. Per questo occorre evidenziarlo quanto più possibile come baluardo di sopravvivenza, in aggiunta al più che positivo riscontro di pubblico di ogni singolo appuntamento, da cogliere come segnale molto lusinghiero.
Ciò detto, l’edizione 2024 si è concessa una serie di anteprime nonché esclusive nazionali (all’interno della costola denominata “Barezzi Way”) iniziate il 17 settembre con il folk atavico e speziato dei Tinariwen, che hanno permeato il teatro Valli di Reggio Emilia di tradizione sradicata dal deserto e lasciata prosperare liberamente in un altrove i cui confini sono parola sconosciuta. Un mese dopo, il 19 ottobre, al teatro delle Celebrazioni di Bologna è stata la volta dei Lankum per un concerto molto atteso ma che purtroppo si è via via sovraccaricato di tensione per quanto stava avvenendo fuori dalla sala a causa della pioggia incessante. Il quartetto di Dublino ce l’ha messa davvero tutta per cercare di portare a termine un concerto minimamente normale, ma che inevitabilmente a un certo punto è stato interrotto per la furia dell’acqua che si stava impossessando delle strade limitrofe e dello stesso teatro. Lì per lì è stata come la liberazione da un pressante imbuto emotivo: malgrado il disappunto, col senno di poi una scelta sensata. Il weekend dell’8 e 9 novembre “Barezzi Way” ha fatto tappa prima a Busseto col progetto Discoverland di Pier Cortese e Roberto Angelini, in occasionale e interessante sinergia con Niccolò Fabi, per poi finire coi i redivivi dEUS, che sono saliti il giorno dopo sul palco del teatro Municipale di Piacenza. Per Tom Barman e soci quella piacentina rappresentava l’ultima data di un tour lungo e impegnativo, quindi era prevedibile affiorasse un po’ di stanchezza. Tuttavia col mestiere e qualche colpo di repertorio ben assestato ci hanno ricordato velocemente perché li abbiamo tanto amati e ancora ci fanno salire i brividi lungo la schiena. Il Barezzi vero e proprio è iniziato il 14 all’Auditorium del Carmine di Parma e non al teatro Regio, dopo che i Last Dinner Party, già sold out in prevendita, hanno dato forfait a pochi giorni dalla loro unica data nel nostro paese. Anna B Savage ha aperto le danze alle 18.00 ed è stata subito una gran rivelazione: essenziale nella sua teatralità istintiva e tribale, Anna mette la sua voce calda ed eclettica al servizio di canzoni per sola chitarra e preset ritmici non particolarmente ingarbugliati. Le canzoni sono quasi tutte quelle del suo secondo album, “In|Flux”, mentre gli intermezzi per chiedere ripetutamente al pubblico se avessero domande da porle sono spassosi e sintomatici di una simpatia che conquista al primo incontro. Bravissima. Mark Kozelek/Sun Kil Moon sale su quello stesso palco tre ore dopo e a un certo punto si è temuto non ne volesse scendere più. Il suo fingerpicking è magistrale, la sua voce e le sue canzoni hanno il potere di evocare lo spirito di Johnny Cash per amplificarne la grandezza ma i suoi spoken words, ahinoi, dopo due ore seduti in poltroncina possono essere più letali che divertenti. Bravo ed intenso, ok, ma anche meno.
Ancora all’insegna del cantautorato il giorno seguente al Teatro Regio con Josè Gonzales. Il passato da bassista in una band hardcore svedese non è indicativo del talento di questo ragazzo del nord ma dalle origini latine, che in solitario e con la chitarra tra le mani sprigiona splendore cristallino in armonie agrodolci e spensierate. Beatles e Massive Attack fanno capolino durante i bis per una chiusura mozzafiato ma, nemmeno per un solo istante il suo concerto è stato meno che ammaliante. Sabato alle 18.00 tocca ad Andrew Bird salire sul palco del maestoso salone dell’Auditorium Paganini, con Ted Poor (batteria) e Alan Hampton (contrabbasso) a comporre il trio che in maggio ha pubblicato il disco di classici jazz “Sunday Morning Put-On”. Con il violino al posto della tromba, la rivisitazione di quei classici si riveste di romanticismo vellutato e seducente e pur tuttavia il retrogusto, per buona parte del concerto, è quello di un esercizio di stile sicuramente sfizioso ma non di meno timido e ingessato. Il crescendo finale trova una via d’uscita dall’impasse ma a essere onesti e sinceri, pur con tutta la bravura espressa “sul campo”, raramente ci sono stati momenti di completa empatia. Decisamente meno statico il giovanissimo Tony Ann col pianoforte stilizzato nelle iniziali del suo nome: circondato da telecamere per fare del suo concerto un’esperienza più immersiva anche lato visual, il suo approccio al neoclassico contemporaneo si esalta grazie all’innegabile virtuosismo che gli esplode metaforicamente tra i polpastrelli durante l’esecuzione, benché la struttura dei suoi brani sia fondamentalmente sempre la stessa. Il successo che sta ottenendo gli deriva principalmente dall’utilizzo intelligente delle moderne alchimie dell’algoritmo (oltre 100 milioni di visualizzazioni…) e questo è probabilmente il motivo per cui ad assistere al concerto c’è una folta rappresentanza di giovani e giovanissimi. In chiusura di festival arriva il concerto di Dario Bassolino (e band) da Napoli “Città futura” per trasferire al corpo tutto il groove accumulato dalla mente e concedersi una rinnovata “febbre del sabato sera” a base di jazz, funk, soul e world music tutta da ballare e… chiudere così, in grande bellezza, il “Barezzi 2024”. Andrea Amadasi
Alessandro “Asso” Stefana
Sala Assoli (Napoli), 6 Novembre 2024
Non so quanto di mestiere ci sia, ma uno degli aneddoti che si possono raccontare del primo concerto da solo di Alessandro “Asso” Stefana a Napoli è il suo candido stupore nei confronti di un pubblico che conosceva (e dava segno di apprezzare) un gruppo a lui molto caro e – sempre secondo lui – meno noto di quanto meriterebbe, la Penguin Cafe (con e senza) Orchestra. Ecco, partirei da questo candore, come una semplicità fanciulla, che caratterizza la musica e la persona di “Asso”, un senso di pudore e di rispetto che si percepisce dalla voce che introduce e commenta i brani, come fosse uno studente che deve discutere la sua tesa e sa (perché ha studiato parecchio) che ci sarebbero molte altre cose da dire e che, comunque, sono cose che parlano da sole se solo le si sa ascoltare. In effetti, la sua voce un po’ tremolante e l’incedere un po’ spezzato, con qualche gustosa sgrammaticatura, non sono il suo mezzo per comunicare. È la chitarra (con una piccola parentesi all’organetto) non solo il suo strumento ma anche la sua lingua. Una chitarra vagabonda ma assolutamente consapevole di sé. Nel suono che ci cava fuori, nel fingerpicking, nei giri armonici si avverte che c’è tutto se stesso e tutto quanto ha esplorato, con particolare attenzione al blues americano, tanto è vero che nelle canzoni la voce che si sente è quella di Roscoe Holbcomb, un minatore degli Appalachi (e chi sa un po’ di musica folk americana sa quanto questa provenienza sia decisiva) che cantava la sera dopo il lavoro. Una storia di marginalità che Stefana fa risuonare in tutto il suo splendore, con una dignità umile ed inesausta, come quella della canzone Moonshiner che, nonostante il titolo romantico, ha a che fare con le distillerie clandestine del proibizionismo. La proposta di Stefana (che è anche una presentazione del suo recente disco solista) si inserisce in una manifestazione (Epifonie) curata da Marco Stangherlin che fa del cuore di Napoli (in questo caso la Sala Assoli, impiantata nei Quartieri Spagnoli), ormai assaltata e trasformata dal flusso turistico, un luogo dove esplorare suoni e musiche fuori dai classici giri, con una attenzione alla sensibilità, alla qualità e alla ricerca, come una decisiva – per chi volesse – nota ai margini dell’attuale imperante overtourism. Girolamo Dal Maso
Le Guess Who?
Utrecht (NL), varie location 07/10 novembre 2024
Veramente arduo riportare in maniera sintetica ed asciutta i contenuti di un festival che da anni recita la parte del leone negli ambiti dell’avanguardia popolare occidentale e delle musiche dal globo tutte. Assieme all’americano Big Ears, l’olandese Le Guess Who? è uno dei nuovi manifesti alla diversità in musica. Con artisti provenienti da ben 66 paesi – di rigore ogni anno fronteggiare le autorità per ottenere i visti di alcuni musicisti – la rassegna sposa tanto le periferie che i centri nevralgici delle culture del nord e del sud del mondo. Tralasciando le ovvie sovrapposizioni che condizionano le scelte quotidiane, in quattro giorni l’offerta esponenziale rimane da brividi. Evitando accuratamente di citare i pezzi forti delle singole serate, lasciando da parte un approccio didascalico che ha ben poco a che fare con la natura del festival, di getto vi riporto impressioni e numeri sensazionali.
Se la nostalgia è ancora un sentimento valido, la memoria è messa a dura prova dal breve discorso di Brendan Canty prima dell’esibizione di James Brandon Lewis coi Messthetics. Torno indietro di quasi un quarto di secolo all’ultima esibizione dei Fugazi in terra romana: rivedere Canty e Joe Lally – che mi permetterei di definire “gli Sly & Robbie del post punk americano” – in questo contesto la dice lunga delle loro lungimiranti scelte. Con Anthony Pirog alla chitarra e Lewis alle ance il risultato è strabiliante, e ancora mi chiedo come la nuova direzione artistica di casa Impulse ! abbia trovato spunti commestibili in una musica che rimane così cocciutamente spigolosa. Da un surrogato di espressionismo dopo-punk ed ovvi trascorsi free jazz, il risultato che otteniamo è un nervoso free-funk che deve tanto alla no wave newyorkese quanto alle scorribande di James Blood Ulmer e della Decoding Sosciety di Ronald Shannon Jackson.
Di pari intensità è il contributo del batterista sudafricano Asher Gamedze, che anziché presentarsi con la formazione titolare dell’ultimo album su International Anthem ci regala la prima europea del quintetto ‘egiziano’ con – tra gli altri - Maurice Louca ai synth modulari e uno splendido Alan Bishop nel ruolo inedito di sassofonista (e in quello più logico di crooner). Jazz-rock modale con influssi immancabilmente medio-orientali per un teatro contemporaneo.
Tante le voci femminili presenti grazie alla curatela di Arooj Aftab, che ruba la scena con una delle performance capitali di tutta la manifestazione. Non fosse di per sé ammaliante, la sua proposta si arricchisce anche di autentici momenti di stand up comedy (non manca tra l’altro la pittoresca offerta di alcuni shot di rum agli astanti delle prime file). Impressionato dal fitto lavoro all’acustica del suo chitarrista, realizzo a sole 24 ore di distanza che si tratta di Gyan Riley, figlio d’arte di Terry. Se la definizione di “art pop globale” ha senso, quanto proposto dalla Aftab si ascrive di diritto alla categoria. C’è spazio nel suo set anche ad una comparsata di Aja Monet, poetessa in forte ascesa di stanza a New York. Anche la sua performance ha del commovente. Seguendo magistralmente la tradizione delle varie Sarah Webster Fabio e Jayne Cortez, la sua black poetry è un’indagine senza censure sulle brutture del mondo occidentale e sulla speranza riposta nei giovani. Soulful jazz e rime d’autore in cima ad una delle visioni più alte dell’intero festival.
La cordata afro-americana è ulteriormente rappresentata da uno strepitoso Kahil El Zabar. Cresciuto sotto l’ala protettrice dell’AACM, il percussionista di Chicago nell’ultimo decennio ha conosciuto una letterale seconda giovinezza travalicando con i suoi Ethnic Heritage Ensemble i confini dello spiritual jazz per affacciarsi allo sfavillante mondo della club music. Il live è portentoso ed è esattamente la declinazione in salsa tribale e proto hip-hop degli insegnamenti dei grandi associati come Lester Bowie & Co.
Un'altra leggenda dell’AACM si esibisce in solo ed in duo (col nipote alla chitarra). Di Wadada Leo Smith colgo proprio questa seconda performance in una delle cattedrali generosamente associate alla planimetria del festival. Un set difficile, in cui la tromba duetta con la sei corde elettrificata in figure per nulla accondiscendenti, ad un passo dall’improvvisazione più radicale. Sentimenti contrastanti alla fine del gioco.
Tra le rivelazioni della kermesse metto senz’altro Dawuna, che con la giusta dose di coraggio definirei un Curtis Mayfiled del dopo-bomba. Tolti gli arrangiamenti ingombranti, gli archi e i fiati, la sua musica scheletrica è fatta da strati di nastri analogici e acquerelli ambient, ridefinendo in toto l’estetica della black music nella scabrosa urgenza del do it yourself.
Non solo band o formazioni allargate in parata, ma anche numerosi solisti. E tra i momenti più piacevoli del festival non faccio fatica a ricordare il portoghese Rafael Toral, che esordisce con familiari giri di chitarra che da Robbie Basho portano direttamente a David Grubbs (l’uomo che lo ha rilanciato) per poi perdersi in un oceano di suono generato dal metodologico uso dei pedali. A tratti sembra di ascoltare un pump organ altre una distesa infiniti di celestiali droni. Più che minimalismo è massimalismo: Rafael Toral si prende di diritto una fetta di responsabilità nella ricreazione del termine.
Per la serie shock auditivo – mai mancato nella nomenclatura della rassegna – si iscrivono alla speciale categoria The Body e Dis Fig. Non esattamente la mia tazza di tè (soprattutto di questi tempi) ma per nulla trascurabile il loro wall of sound che scuote le coscienze facendo perno su post-metal, cultura industriale ed elettronica radicale.
La mia idea di profondità e presenza di suono è forse oggi rappresentata dai veterani Creation Rebel, recentemente ricostituitisi e depositari di alcune delle più memorabili pagine del catalogo On U Sound. Con re Mida Adrian Sherwood dietro al banco di regia la botta è ancora più grossa: dub is the place, dub is the space.
Allergico per natura alle classifiche, preferisco immaginare un podio virtuale occupato di diritto da Meshell Ndgeocello, che con una formazione da urlo cuce soul music futuribile pregna di riferimenti stilistici che da New Orleans arrivano all’hip-hop più organico dei ’90 passando per la Motorcity.
Per rimanere nell’ambito delle eccellenze e confermare la natura beatamente schizofrenica del festival annovero tra i protagonisti di questa edizione i Water Damage, puro surrogato di muscoloso post-punk statunitense condensato in un monumentale corpo minimalista. In soldoni, lo storico incontro tra Tony Conrad ed i Faust sonorizzato dagli Swans (guarda caso c’è l’ex-affiliato Thor Harris ad una delle due batterie). Menzione d’obbligo per l’ospite d’eccezione Patrick Shiroishi, geniale sassofonista capace di sguazzare nei più svariati contesti, dal post-metal all’ambient-jazz.
Chiudo con la miracolosa apparizione di un ritrovato Asa Chang con il fido campionatore casalingo Junray. Due giovani polistrumentisti con lui a ricordarci l’unicità e la magia di una proposta che su queste pagine abbiamo – giustamente – incensato in tempi non sospetti. Per quest’anno è tutto. A risentirci. Luca Collepiccolo
“Festival Aperto”
Reggio Emilia, 21 settembre, 12 ottobre, 8 novembre 2024
La sedicesima edizione della rassegna di arti contemporanee del capoluogo emiliano, intitolata quest'anno in modo essenziale e significativo Articolo 11, si è svolta tra concerti, teatro, danza e installazioni, animando gli spazi teatrali di Reggio Emilia per due mesi. Il festival si è aperto con Flamenco Criollo, un progetto del pianista di Santiago de Cuba, Aruán Ortiz, da anni residente a New York. Per l’occasione, Ortiz ha riunito un ensemble di musicisti provenienti da Marocco, Palestina, Cuba, Stati Uniti e Spagna. Si è cominciato con un blues africano dal sapore di jazz spirituale alla maniera di Pharoah Sanders; il gruppo includeva pianoforte, Rhodes, oud, violoncello, percussioni e voci. L’atmosfera oscillava tra un aggiornamento della lezione degli Irakere di Chucho Valdés e una versione più soft degli esperimenti ritmici di Steve Coleman con i Grupo AfroCuba De Matanzas. Le voci arabe su percussioni caraibiche hanno incarnato l’idea di una sintesi tra culture diverse, una proposta affascinante e necessaria, anche se a tratti l’esecuzione risultava un po' artificiosa. Ad esempio, un Gordon Grdina con l'oud ha saputo raggiungere esiti più maturi e coinvolgenti. Il percorso musicale si è sviluppato tra Cuba, Africa, musica araba e flamenco, evidenziando la compenetrazione dei generi e l’intersezione delle radici. La dimensione teatrale del flamenco ha messo in risalto le affinità nella pronuncia musicale con il vicino mondo arabo. Tuttavia, in alcuni momenti emergeva (forse troppo) il virtuosismo degli interpreti, tutti eccezionali: ma chi scrive non è riuscito a percepire un filo narrativo solido che collegasse questi momenti, che sembravano più simili a quadri isolati di una mostra. Il pubblico ha applaudito convinto, e con un filo di snobismo mi è venuto da pensare che fosse prevedibile: il pubblico vuole essere intrattenuto. In questi sketch non si avverte né caos né coerenza; si pesca dal jazz per la complessità degli accenti, ma il risultato è una fusione a freddo di mondi. Quando gli interpreti aprono le finestre alle strade polverose di Santiago, il ritmo cambia marcia e finalmente arriva una rumba irresistibile. Le cinque donne in scena — tre cantanti e due danzatrici — sanno catturare l’audience con grande maestria, e ci sono momenti di travolgente dialogo di mani, menti e corpi. Alla fine, però, resta l’impressione di uno spettacolo più pop di quanto ci si aspettasse, non sempre nel senso migliore del termine (e chi scrive non ha nulla contro il pop). Rispetto a lavori più strutturati, come l'ottimo Inside Rhythmic Falls del 2020, pubblicato dalla raffinata Intakt con Andrew Cyrille alla batteria, questo progetto non ha convinto del tutto. Dopo il debutto ad Amsterdam nel 2021, il gruppo non si riuniva da allora: evidente l’entusiasmo nel ritrovarsi e la generosità verso il pubblico, ma la performance resta da rivedere.
La mia personale esplorazione nel ricco programma del festival è proseguita il 12 ottobre con Nuvolario di OHT, accompagnato da Sentieri Selvaggi alla Cavallerizza. Qui, l'incontro tra una messinscena minimale e asciutta e la proiezione di frasi letterarie a tema nuvole si è fuso con l’esecuzione di Music For 18 Musicians di Steve Reich. Chi scrive non aveva mai avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo questa straordinaria composizione e, come alcuni amici mi hanno riferito all'uscita, l'inizio è stato commovente. Un gamelan quasi elettronico, dal respiro biologico, con ondate di marimba e pianoforte, un cuore novecentesco che pulsa regolare e sfasato; una formula semplice e al contempo intricata, sfuggente eppure a portata di mano, umana, troppo umana. L’influenza di un brano del genere su molta della musica odierna è incalcolabile: si pensi ai Battles o ai Ronin di Nik Bärtsch. Quanto è durato il pezzo? Difficile dirlo, ci si perde in questo delicato vortice che solletica i sensi. A un certo punto ci si accorge che i pianoforti sono quattro, mentre una nebbia di nuvole avvolge ormai lo schermo e la platea. Carlo Boccadoro, dopo un tempo indefinito, entra con le maracas; mille variazioni minime ma cruciali sul tema, come se scomponesse una cellula e ne osservasse ogni rifrazione. Resta una malinconia sottile alla fine, il battito degli archi, una vibrazione non minacciosa.
L'8 novembre, infine, è stata la volta di un omaggio ad Amelia Rosselli al Teatro Cavallerizza, uno spazio che meriterebbe più attenzione. Per la prima volta si sono incontrati la cantante Camilla Battaglia — già invitata in altre occasioni in duo con Luca Perciballi nel progetto Public Speaking — e il pianista americano Matt Mitchell, ben noto agli appassionati di avant-jazz. “Tu non sai chi sei e cosa cerchi/Non so cercarti e tu non sai chi sei e cosa cerchi.” Il pianismo angolare di Mitchell, straordinario nel trovare spigoli dove solo il suo talento riesce a illuminare, si intreccia come edera alla voce cristallina e personale della Battaglia. Sono canzoni peculiari, dove la decostruzione del tessuto lirico e la ripetizione di singole parole e versi assumono un ruolo centrale, “in un trasporto che tu non sempre puoi.” In uno dei momenti più riusciti, la voce si fa uccello e spicca il volo, mentre sciami di note allusive si levano dalle dita di Mitchell. In alcune di queste canzoni sospese e dilatate, la Battaglia usa anche l’elettronica tramite SuperCollider, mentre Mitchell esplora territori più free e astratti, mantenendo sempre alta la qualità narrativa e musicale. A tratti, il pensiero corre a cantanti come Patty Waters o Sara Serpa, con il loro modo di sconfinare dalla forma-canzone per poi rientrarvi. Come ha spiegato la stessa Battaglia, l’idea del progetto è celebrare l’importanza di un’opera poetica come La libellula, che parla di rigore e libertà, e rendere omaggio al legame tra musica e parole, centrale per Amelia Rosselli. “C’è molto sapere di non sapere in queste poesie, un’attitudine che ci arriva da lontano e che dobbiamo mantenere viva,” ricorda Camilla. Il tono generale è asciutto, intenso, riflessivo; il pubblico, purtroppo, è esiguo, ma quando due spettatori abbandonano la sala durante il set, lo interpreto come un buon segno. Mentre Mitchell continua imperterrito a accumulare cluster e digressioni imprevedibili, la Battaglia insiste sulla ripetizione di versi e parole, mostrando un’eccellente tecnica. Peccato solo che in questo duo il talento straordinario dei due interpreti non sempre trovi una forza comunicativa altrettanto potente. Il Festival Aperto si concluderà a fine novembre; per gli ultimi spettacoli, potete consultare il programma completo su https://www.iteatri.re.it/tipo/aperto/ Nazim Comunale
JazzONZE+
Lausanne (CH), Salle Paderewski - BCV Concert Hall - Jumeaux Jazz Club, 29 ottobre/3 novembre 2024
Pronti via, boom boom: la trentasettesima edizione del festival jazz losannese è partita di slancio, con la doppia esibizione nella stessa serata di martedì 29 dell’Avishai Cohen Trio. Casino de Montbenon due volte sold out, per il contrabbassista israeliano trapiantatosi diciottenne con successo a New York, facitore di musiche granitiche, proposte sempre con il giusto vigore e più di un tratto lirico, di solito recuperato dalle proprie radici. A onor del vero, non c’è molto di meglio nel catalogo attuale del mainstream e per quanto lungo la carriera i suoi concetti musicali non abbiano subito grandi sommovimenti, vederlo agire in presa diretta rimane esperienza piuttosto appagante. Nell’occasione c’era da promuovere “Brightlight”, pubblicato appena qualche giorno prima, e da lì sono state pescate varie tracce, senza rinunciare ad antiche hit come Remembering. In formazione adesso ci sono due giovani speranze, il pianista Guy Moskovic e la batterista Roni Kaspi, che non sono male, pur se al momento Shai Maestro si fa ancora rimpiangere. Il vicino di poltrona, che aveva visto anche il primo set, asseriva che sostanzialmente i due live si erano equivalsi, con qualche piccola modifica nella scaletta e un po’ di fatica in più a dialogare nel secondo: non avevamo motivo per non credergli. Il giorno appresso siamo andati alla BCV Concert Hall a testare la tenuta dal vivo di Anat Cohen, che su disco di solito rende bene. Per chi ama il gossip segnaliamo che lei è la sorella dell’altro celebre Avishai, il trombettista, mentre per chi si intende di musica risulterà abbastanza inutile dire che da qualche tempo ha formato con Vitor Gonçalves (pianoforte, fisarmonica, Rhodes), Tal Mashiach (contrabbasso), James Shipp (vibrafono, percussioni) un gruppo denominato Quartetinho, già responsabile nel 2022 di un omonimo album. Sorta di pifferaia magica, la Cohen ha soffiato nel clarinetto (e in un trittico di altri brani al clarone, preso in prestito in loco) con indubbia classe e ci ha guidato alla scoperta di una world-jazz music, la sua, che a un certo rigore formale barocco accoppia coloriture e vibrazioni affittate dal Sudamerica, Brasile in testa. Gonçalves ha dimostrato di saperci fare, tenendo in piedi l’intera band con un certo slancio. Al giovedì i flyer messi in circolazione due mesi prima annunciavano in cartellone, in orari non coincidenti, tanto Kamasi Washington quanto Meshell Ndegeocello, ma lo show del primo è stato riportato al 31 marzo 2025 ai Docks, mese che lo vedrà tornare in Europa per un lungo tour che toccherà anche l’Italia in aprile (22 Milano, 23 Roma, 24 Bologna). Non che lo attendessimo come un messia, però un po’ di curiosità c’era. Ci siamo dunque dovuti accontentare della Ndegeocello e della sua corposa formazione, un sestetto comprendente Justin Hicks (voce), Jake Sherman (organo), Jebin Bruni (tastiere), Christopher Bruce (chitarra), Kyle Miles (basso) e il batterista Abraham Rounds. Il menù non poteva che prevedere larghi scorci dal recente “No More Water: The Gospel Of James Baldwin”, con tanto di didascalie proiettate sul fondo del palco, e così è stato. Per quanto non siano mancati passaggi emotivamente significativi, nell’insieme il suo live è sembrato poco brillante e segnato dalla staticità, con la stessa leader più propensa a declamare seduta sullo sgabello che a imbracciare il suo basso elettrico. In estrema sintesi, non è stata una serata all’altezza delle aspettative, ma può capitare anche ai migliori di non essere in grande forma. Speravamo di rifarci la giornata seguente: siamo stati invece ulteriormente delusi, colpa del cartello appeso alla porta della BCV Concert Hall che annunciava l’annullamento, all’ultimo, del concerto della vocalist Cyrille Aimée e del suo quartetto per ragioni di salute dell’artista. Peccato, perché la francese, costruitasi da sé pezzo a pezzo partendo letteralmente dalla strada, possiede uno stile solido e preciso, che sta dentro la tradizione ma riesce anche a vivacizzarla. Nel tentativo di consolarsi, cambio radicale di genere e di location in tarda serata, con il tedesco Moses Yoofee allo Jumeaux Jazz Club. Produttore e tastierista quadrato e convinto, ha in gestione un power trio – completato da Roman Klobe-Barangā (basso elettrico) e Noah Fuerbringer (batteria) – che lo segue e talvolta lo anticipa convinto. Il set che ne è risultato surfa con abilità sulle onde di un electro-jazz sicuramente oggi di tendenza, ma lo fa con una durezza e spigolosità inusuali, senza perdersi in romanticherie e stasi fusion. Sprofondato in ritmi debitori di drum’n’bass e hip hop, Fuerbringer è un rombo di tuono efficace. Dopo un’ora e mezza il foltissimo pubblico non ne aveva ancora abbastanza, a conferma che Yoofee e i suoi erano riusciti a centrare l’obiettivo. Il sabato 2 novembre si annunciava pieno e cominciava a metà pomeriggio nell’auditorium dell’EJMA, con la giornalista Elisabeth Stoudmann (vedi all’antica voce “Vibrations”) e dal chitarrista e vocalist ghanese Kyekyeku, leader dei Super Opong Stars, a intrattenerci con la seconda parte dell’esperienza d’ascolto “Jazz&Afrique”, patrocinata dall’associazione Jazz History. Se nel 2023 il nesso era stato sviluppato centrando l’attenzione sul West-Africa, stavolta i due conduttori, al solito aiutati dalla proiezione di testi e immagini alle loro spalle, hanno giocato a ping pong. Una lanciando in orbita brani di jazz sudafricano, l’altro rispondendo con esempi di ethio-jazz e affini, per un’ora e venti abbondante di ottima musica e disquisizioni mai accademiche. In serata, ritorno alla Salle Paderewski per un doppio spettacolo. Ad aprire, il Louis Matute Large Ensemble, progetto allargato rispetto al quartetto che il giovane chitarrista svizzero aveva proposto nel 2021. Da un certo punto di vista Matute dimostra di essere cresciuto non poco, ma dall’altro il sestetto che dirige, comprendente anche il tenorsassofonista Léon Phal, non pare ancora muoversi in una direzione certa e sovente il gruppo procede in realtà a tre o a due, perdendo il vantaggio e la forza del collettivo. L’invito a salire in scena rivolto alla cantante francese Gabi Hartmann, per quattro brani di sapore latin e brasilero, non ha fatto altro che aumentare la dispersione delle idee. Insomma, la qualità ci sarebbe anche, ma il Matute Large Ensemble farebbe bene a individuare un bersaglio stilistico preciso al quale mirare. Dopo un cambio di palco laborioso e qualche problemino audio all’inizio della performance, è stata la volta della stella di giornata, quel Christian Scott che da un po’ si fa chiamare Chief Xian aTunde Adjuah. Dato che nelle sue vene scorre il sangue di New Orleans (è nipote di Donald Harrison Jr.), si è proposto con l’orgoglio e la forza che ne hanno sempre contraddistinto l’agire. Nella prima parte del live ha suonato un ibrido di sua progettazione, che unisce in sé il suono dell’arpa, della kora e dello n’goni per accompagnarsi al canto. Brani affrontati a volumi sostenuti, tanto che qualcuno tra il pubblico si è lamentato con vigore. “Lasciate ai fonici il loro mestiere” ha prontamente ribattuto il Capo, proseguendo come se nulla fosse. Anche le due trombe in seguito impiegate, rilucenti e strane nel design (una con la campana un po’ all’insù in stile Gillespie) portavano la sua firma, perché lui controlla ogni fase della filiera. Si va così dal produttore al consumatore senza intermediari, aggrediti da una generosa cascata di note dall’inizio alla fine per due ore tonde di fila, che non è poco di questi tempi. Ci sono ricordi del Davis elettrico nelle trame proposte da Chief Adjuah, a cominciare dalle lunghe tirate che permette al resto della band, in particolare al chitarrista Cecil Alexander e al tuttofare Morgan Guerine (sassofoni, EWI, tastiere, percussioni elettroniche), e dalle richieste di spingere continuamente rivolte a Max Mucha (contrabbasso) e al roboante batterista Elé Howell. La sua stretch music, con quel tirare dentro pulsioni afro, hard-bop infuocato, strappi funk, qualche barlume di spiritual jazz e spasmi electro dati in pasto al pubblico con fragore, non ha convinto proprio tutti, tanto che dopo un’ora qualcuno se n’è andato. La gran parte del teatro ne è stata comunque conquistata e alla fine gli ha tributato caldi applausi e urla di approvazione, riportandolo sul palco ben due volte. Chief Adjuah è così, un muscolare e un agonista che ci mette tutta la forza che ha (e dal vivo ne ha davvero tanta). Prendere o lasciare. Piercarlo Poggio
Uzeda
Kingston Live, San Nicola La Strada CE, 1 novembre 2024
Dopo qualche anno torno a sentire gli Uzeda. La location mi ha all’inizio un po’ sorpreso, un simpatico locale rintanato negli spazi chiusi e aperti di un vecchio palazzo, con un monumentale cereo prima dell’ingresso e i classici muri e volte in tufo all’interno, ma – almeno per le mie aspettative – decisamente compresso per la musica potente degli Uzedi. Mi domandavo, ad esempio, come avrebbe fatto a suonare, lui che non sta fermo un attimo, Agostino in quel mini palco tutto concentrato. Di pogare non se parlava proprio. E le grosse mura in tufo avrebbero retto l’urlo dei decibel? Non è che tutto sarebbe scoppiato come una pentola a pressione? In effetti tutto è scoppiato, esploso, ma in tutt’altro senso. La scaletta del concerto è ormai collaudata (niente nuovi dischi da promuovere) e tutto è filato liscio. Liscio come una colata di lava. La massa sonora che i quattro catanesi hanno saputo creare e muovere come un flusso è stata propria una colata, non quella degli altoforni ma quella dei vulcani che fuoriesce da dentro la terra e sulla terra scorre fino a raggiungere il mare. Qualcosa di fluido, insieme solido e liquido, mobile e compatto nello stesso tempo. Lo spazio ridotto ha esaltato al massimo la potenza di un suono che ha riempito ogni più piccolo anfratto, ogni screpolatura, infilandosi dentro le orecchie (qualcuno aveva degli opportuni tappi) e dentro tutto il corpo e la mente. Una botta prolungata di energia che ha esaltato il “pieno” della musica degli Uzeda. Non giocano al risparmio ma danno tutto e questo tutto è denso di tanta roba, non solo di riff, di urli, di ritmi travolgenti, di suono ma anche di senso, di vita, di comunicazione. Ciò che mi colpisce è la positività di questa energia, come le tossine negative della rabbia fossero tutte transustanziate da una carica positiva, come un abbraccio di vita, una vita forte, densa, magari non facile ma bella. È stato un bel concerto perché ha suonato la bellezza della vita, quella bellezza che spesso si rintana in luoghi appartati, fuori dai luoghi comuni, dal senso comune, come una luce impastata nel buio ma che non viene a patto con esso. Una forma di resistenza, per non cedere ai mali e ai malesseri di questo mondo e di tutti i mondi, per non farsi contagiare dai virus che ci vorrebbero tutti uguali a difendere la propria carcassa. Un concerto degli Uzeda (molto meglio dal vivo che su disco – anche se i loro dischi sono ottimi) non dimostra nulla ma tira fuori e fa tirar fuori quelle energie positive che troppo spesso dimentichiamo o deleghiamo e invece fanno parte di noi, ce l’abbiamo dentro. Gli Uzeda lo fanno da musicisti, da artisti. Sta a ognuno vedere come può cavar fuori la lava che ha dentro, il fuoco compresso che è vita e nulla può trattenere se non la crosta che ci costruiamo sopra. Sono quelle sacche di resistenza da cui ogni tanto sfugge qualcosa. Magari qualcosa ustiona o colpisce, ma ciò che è essenziale resiste. Sempre. Forse siamo così mosci perché abbiamo perso di vista questo, quello che siamo, quello che dobbiamo cercare di essere. Questo mi pare trasmetta un concerto degli Uzeda. Ce n’era bisogno. Loro resistono, e infatti passano gli anni e non perdono un pelo della loro carica. Dei vulcani in azione. Girolamo Dal Maso
Pierre Bastien / Sug:gestiva
Roma, Ex Cartiera Latina, 3 novembre 2024
D’improvviso un’idea, un parallelo: la musica di Pierre Bastien sta alla ricerca metodologica del suono e delle fonti come il cinema di David Cronenberg al maniacale utilizzo del corpo. Venerato negli ambiti dell’elettronica (la pubblicazione del disco culto “Mecanoid” per la Rephlex di Aphex Twin) e della musica avant (dal debutto per l’oasi rock in opposition Recommended alla collaborazione coi Tomaga), il musicista parigino non finisce mai di stupire. Prova e riprova ne è questo intimo live all’interno di un padiglione dell’Ex Cartiera Latina nel suggestivo parco dell’Appia Antica, location che amplifica lo spirito cinematico della performance, considerato che Bastien trasmette in diretta su schermo il suo live (per assurdo sembra di rivedere il film sperimentale di Phill Niblock per Sun Ra), senza lesinare informazioni relativamente ai materiali utilizzati. Dei più bizzarri, invero: messi momentaneamente da parte i meccano, tra gli strumenti utilizzati si annoverano la classica pocket trumpet e una serie di congegni autocostruiti che stupiscono per funzionalità e struttura, persino una stampella viene riutilizzata con l’ausilio di corde in nylon, generando un suono prossimo a quello dello zither. Musica meccanica in cammino, diretta discendente di un sentire figlio della musique concrète ma non avversa a contaminazioni global e funzionali figure minimaliste. Sequenze eccitanti, rese ancora più avvincenti dall’introduzione di altri prototipi – come al culmine dell’esibizione – a testimonianza di un continuo indagare e interagire con fonti sia casalinghe che naturali. Un esempio solenne di spirito senza compromessi, smorzato solo dall’atto pubblico della condivisione. Maestro. Luca Collepiccolo
White Buffalo
Firenze, Viper Theatre, 25 ottobre 2024
Dopo aver visto decine di concerti nei club, negli stadi, nei teatri, nelle piazze e in ogni luogo immaginabile, e avendo raggiunto un’età quasi venerabile, pensavo sinceramente di non avere molte possibilità di emozionarmi ancora ad un concerto. E invece…
Venerdì 25 ottobre in una giornata piovosa trascorsa tra viaggi in treno, ombrelli rotti e traffico urbano, io e il mio esperto compagno di avventure Gianluca Gori ci avviciniamo finalmente al Viper Theatre di Firenze per assistere alla data di apertura del tour italiano dei White Buffalo (targato Bagana Music), la band di Jake Smith. Prima di esprimere qualsiasi riflessione o critica sul live dei White Buffalo, ci tengo a precisare che fino al 19 maggio 2023 questa band losangelina era per me un oggetto misterioso perso tra playlist online e recensioni fugaci. Ma quella giornata di maggio ebbi l'occasione di vederli e sentirli a Roma, al Circo Massimo, come gruppo di apertura di Bruce Springsteen. Il concerto, bagnato da una pioggia intensa e fastidiosa, aveva messo in mostra una performance letteralmente monumentale. Colpo di fulmine: da allora è iniziato il mio peregrinare per sentieri impervi tra notizie, registrazioni e streaming alla ricerca della musica dei White Buffalo, progetto musicale fondato dal cantautore Jake Smith nel 2002 a Los Angeles.
Il Viper è gremito, si chiacchiera, ci si saluta, si suda… e poi sul palco sale Jake, da solo con la sua chitarra. Il silenzio si fa palpabile, un vento caldo e potente travolge tutto con la sua voce profonda. L’apertura è di quelle che tolgono il respiro: Wish It Was True (contenuta nell’album Once Upon a Time in the West del 2012) lascia senza parole. Un brano enigmatico, potente, antico e attuale allo stesso tempo.
Nell’esibizione di questo piccolo branco di bufali bianchi si odono echi di Bob Dylan, per la loro abilità nel raccontare storie attraverso la musica; di Johnny Cash, per l’impatto emotivo e la profondità dei testi; di Neil Young, per l’approccio folk e rock e la capacità di evocare atmosfere magiche; e di Bruce Springsteen, per l’abilità nel creare ballate epiche e per la connessione con il pubblico che esse sono in grado di creare. Personalmente, alcune chicche che mi hanno particolarmente emozionato: Join the Murder, Oh Darling What Have I Done, The Whistler e la cover di Highwayman di Jimmy Webb. So, può sembrare tanto, forse troppo, ma oggi, con l'anagrafe che avanza e la voglia di musica autentica e sudata, i tre White Buffalo - Jake Smith alla voce e chitarra, lo straordinario Matt Lynott alla batteria e Christopher Alan Hoffee al basso e chitarra- rappresentano a loro modo il futuro di un’America smarrita, ferita e mai così lontana da se stessa. Per noi che abbiamo guardato al nuovo continente con passione e rassegnazione, amandone la vastità e le piccole cose, le contraddizioni e le certezze, oggi questa band che ha il coraggio di interpretare un classico come House of the Rising Sun senza risultare didascalica, riempie le nostre giornate con una colonna sonora che illumina il cammino verso ciò che ci attende.
Mentre la serata prende fuoco e i White Buffalo danno fondo a tutta la loro potenza, ci guardiamo attorno e ci rendiamo conto che in mezzo a barbe brizzolate, qualche chilo di troppo e volti maturi ci sono anche molti giovani che hanno scelto di abbandonare le strade sicure a quattro corsie per camminare tra i sassi e le sterpaglie della vita e le salite della musica no-mainstream. Guardo Gianluca e lo ringrazio per essere ancora qui, a camminare insieme e forse senza una direzione precisa. Ricordiamoci sempre però che non è la meta che conta ma il viaggio e lo percorre accanto a noi. Andrea Laurenzi
Michel Houellebecq al Festival “Radici” (anteprima)
Circolo dei lettori, Torino, 14 e 24-27 ottobre 2024
Al via questo weekend a Torino la seconda edizione del festival Radici. Il festival dell’identità (coltivata, negata, ritrovata): libri, musica e film per discutere, in tempi di cambiamenti spaventosi e repentini come quelli in cui ci troviamo a vivere, intorno al problema del rapporto con la nostra identità e dell’incontro con l’Altro. Insomma, i soliti spunti di riflessione triti e fumosi necessari per organizzare un festival, che sono però un’ottima scusa per portare nel capoluogo piemontese nomi del calibro di Irvine Welsh, Tiziano Scarpa, Arturo Brachetti, Alain De Benoist e Walter Siti. Lo scorso anno Torino aveva ospitato niente meno che Bret Easton Ellis, re indiscusso del minimalismo americano in uscita con Le schegge, romanzo da leggere con lo stereo acceso perché talmente infarcito di riferimenti ad album e brani degli anni Ottanta che ha generato un proliferare di playlist “da lettura” su Spotify (dalle 40 alle 120 tracce, verificare per credere). Quest’anno, il Circolo dei Lettori ha scelto come padrino del festival Michel Houellebecq, lo scrittore francese vivente più letto e tradotto nel mondo, che ha concesso, per l’anteprima di Radici, un’oretta scarsa di chiacchierata al pubblico torinese.
Si è trattato di un evento più unico che raro: Houellebecq non è solito prestarsi a incontri con i lettori, e il fatto che non avesse un libro in promozione rende la sua comparsata ancor più eccezionale, giustificando la lunga coda (i più intrepidi si sono appostati in via Bogino tre ore prima) per accaparrarsi i pochi posti disponibili in sala. Ha impressionato come uno scrittore dalla penna tanto decisa e lucida, avesse un tono così dimesso, monocorde, incespicante, ingarbugliandosi a volte nelle parole e altre volte riflettendo a lungo, attraverso silenzi e balbettii che ricordavano le apparizioni televisive di David Foster Wallace. Non c’era traccia della veemenza dei suoi protagonisti, né della violenza di certe sue affermazioni. Più che riflettere intorno al concetto di identità, l’incontro, mediato da Ottavia Casagrande, è parso quasi come un tentativo di farlo uscire allo scoperto, di rimuovere la maschera da écrivain maudit, di coglierlo in fallo su posizioni politiche e ideologiche che Houellebecq sostiene da cinquant’anni, come se non fosse uno degli autori notoriamente più controversi al mondo. Il tentativo è stato ovviamente disinnescato dalle risposte, snocciolate una in fila all’altra senza cadere nella trappola, senza battere ciglio, senza tentare (e come poteva essere altrimenti?) di schermirsi. D: Lei è un misogino? R: Mi definirei piuttosto come un macho. Se una donna piange, un misogino si arrabbia, un macho si intenerisce. D: A un anno di distanza dal 7 ottobre, lei è sempre un sostenitore di Israele? R: Certo. Se Israele smettesse di combattere verrebbe spazzata via. L’antisemitismo in Europa ha raggiunto livelli preoccupanti. E via di questo passo.
Houellebecq ha però dato qualche speranza ai suoi lettori. Diversamente da quanto annunciato dallo scrittore, Annientare potrebbe non essere il suo ultimo romanzo. In realtà, il memoir Qualche mese della mia vita, aveva già reso falsa questa affermazione: un libricino nato da un’esigenza, quella cioè di raccontare il ricatto subito da un gruppo di visual artist olandesi del collettivo Kirac (Keeping It Real Art Critics), che avevano girato un film porno con Houellebecq come protagonista, per poi diffondere il filmato e rendere pubblica la vicenda, mettendo in moto tutta la macchina giudiziaria e, di concerto, quella della stampa scandalistica. L’autore ha fatto suo malgrado una più approfondita esperienza dei tribunali (tra l’altro, D: Un consiglio a un giovane autore? R: Scegliersi un buon avvocato), e per la prima volta ha tentato di autobiografarsi. L’esperimento è stato definito “interessante”, e l’iter processuale potrebbe aver fornito allo scrittore francese nuovi spunti per un libro. Houellebecq tornerà con un nuovo romanzo? Ce lo auguriamo di cuore. Ian Poggio
Hard-Ons
Blah Blah – via Po, Torino, 12 0tt0bre 2024
L’alto tasso di amarcord che la serata
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