LIVE! VISTI E SENTITI
LIVE! VISTI E SENTITI
[nell'immagine: Alessandro Stefana, foto di Pietro Previti]
Alessandro “Asso” Stefana
Sala Assoli (Napoli), 6 Novembre 2024
Non so quanto di mestiere ci sia, ma uno degli aneddoti che si possono raccontare del primo concerto da solo di Alessandro “Asso” Stefana a Napoli è il suo candido stupore nei confronti di un pubblico che conosceva (e dava segno di apprezzare) un gruppo a lui molto caro e – sempre secondo lui – meno noto di quanto meriterebbe, la Penguin Cafe (con e senza) Orchestra. Ecco, partirei da questo candore, come una semplicità fanciulla, che caratterizza la musica e la persona di “Asso”, un senso di pudore e di rispetto che si percepisce dalla voce che introduce e commenta i brani, come fosse uno studente che deve discutere la sua tesa e sa (perché ha studiato parecchio) che ci sarebbero molte altre cose da dire e che, comunque, sono cose che parlano da sole se solo le si sa ascoltare. In effetti, la sua voce un po’ tremolante e l’incedere un po’ spezzato, con qualche gustosa sgrammaticatura, non sono il suo mezzo per comunicare. È la chitarra (con una piccola parentesi all’organetto) non solo il suo strumento ma anche la sua lingua. Una chitarra vagabonda ma assolutamente consapevole di sé. Nel suono che ci cava fuori, nel fingerpicking, nei giri armonici si avverte che c’è tutto se stesso e tutto quanto ha esplorato, con particolare attenzione al blues americano, tanto è vero che nelle canzoni la voce che si sente è quella di Roscoe Holbcomb, un minatore degli Appalachi (e chi sa un po’ di musica folk americana sa quanto questa provenienza sia decisiva) che cantava la sera dopo il lavoro. Una storia di marginalità che Stefana fa risuonare in tutto il suo splendore, con una dignità umile ed inesausta, come quella della canzone Moonshiner che, nonostante il titolo romantico, ha a che fare con le distillerie clandestine del proibizionismo. La proposta di Stefana (che è anche una presentazione del suo recente disco solista) si inserisce in una manifestazione (Epifonie) curata da Marco Stangherlin che fa del cuore di Napoli (in questo caso la Sala Assoli, impiantata nei Quartieri Spagnoli), ormai assaltata e trasformata dal flusso turistico, un luogo dove esplorare suoni e musiche fuori dai classici giri, con una attenzione alla sensibilità, alla qualità e alla ricerca, come una decisiva – per chi volesse – nota ai margini dell’attuale imperante overtourism. Girolamo Dal Maso
Le Guess Who?
Utrecht (NL), varie location 07/10 novembre 2024
Veramente arduo riportare in maniera sintetica ed asciutta i contenuti di un festival che da anni recita la parte del leone negli ambiti dell’avanguardia popolare occidentale e delle musiche dal globo tutte. Assieme all’americano Big Ears, l’olandese Le Guess Who? è uno dei nuovi manifesti alla diversità in musica. Con artisti provenienti da ben 66 paesi – di rigore ogni anno fronteggiare le autorità per ottenere i visti di alcuni musicisti – la rassegna sposa tanto le periferie che i centri nevralgici delle culture del nord e del sud del mondo. Tralasciando le ovvie sovrapposizioni che condizionano le scelte quotidiane, in quattro giorni l’offerta esponenziale rimane da brividi. Evitando accuratamente di citare i pezzi forti delle singole serate, lasciando da parte un approccio didascalico che ha ben poco a che fare con la natura del festival, di getto vi riporto impressioni e numeri sensazionali.
Se la nostalgia è ancora un sentimento valido, la memoria è messa a dura prova dal breve discorso di Brendan Canty prima dell’esibizione di James Brandon Lewis coi Messthetics. Torno indietro di quasi un quarto di secolo all’ultima esibizione dei Fugazi in terra romana: rivedere Canty e Joe Lally – che mi permetterei di definire “gli Sly & Robbie del post punk americano” – in questo contesto la dice lunga delle loro lungimiranti scelte. Con Anthony Pirog alla chitarra e Lewis alle ance il risultato è strabiliante, e ancora mi chiedo come la nuova direzione artistica di casa Impulse ! abbia trovato spunti commestibili in una musica che rimane così cocciutamente spigolosa. Da un surrogato di espressionismo dopo-punk ed ovvi trascorsi free jazz, il risultato che otteniamo è un nervoso free-funk che deve tanto alla no wave newyorkese quanto alle scorribande di James Blood Ulmer e della Decoding Sosciety di Ronald Shannon Jackson.
Di pari intensità è il contributo del batterista sudafricano Asher Gamedze, che anziché presentarsi con la formazione titolare dell’ultimo album su International Anthem ci regala la prima europea del quintetto ‘egiziano’ con – tra gli altri - Maurice Louca ai synth modulari e uno splendido Alan Bishop nel ruolo inedito di sassofonista (e in quello più logico di crooner). Jazz-rock modale con influssi immancabilmente medio-orientali per un teatro contemporaneo.
Tante le voci femminili presenti grazie alla curatela di Arooj Aftab, che ruba la scena con una delle performance capitali di tutta la manifestazione. Non fosse di per sé ammaliante, la sua proposta si arricchisce anche di autentici momenti di stand up comedy (non manca tra l’altro la pittoresca offerta di alcuni shot di rum agli astanti delle prime file). Impressionato dal fitto lavoro all’acustica del suo chitarrista, realizzo a sole 24 ore di distanza che si tratta di Gyan Riley, figlio d’arte di Terry. Se la definizione di “art pop globale” ha senso, quanto proposto dalla Aftab si ascrive di diritto alla categoria. C’è spazio nel suo set anche ad una comparsata di Aja Monet, poetessa in forte ascesa di stanza a New York. Anche la sua performance ha del commovente. Seguendo magistralmente la tradizione delle varie Sarah Webster Fabio e Jayne Cortez, la sua black poetry è un’indagine senza censure sulle brutture del mondo occidentale e sulla speranza riposta nei giovani. Soulful jazz e rime d’autore in cima ad una delle visioni più alte dell’intero festival.
La cordata afro-americana è ulteriormente rappresentata da uno strepitoso Kahil El Zabar. Cresciuto sotto l’ala protettrice dell’AACM, il percussionista di Chicago nell’ultimo decennio ha conosciuto una letterale seconda giovinezza travalicando con i suoi Ethnic Heritage Ensemble i confini dello spiritual jazz per affacciarsi allo sfavillante mondo della club music. Il live è portentoso ed è esattamente la declinazione in salsa tribale e proto hip-hop degli insegnamenti dei grandi associati come Lester Bowie & Co.
Un'altra leggenda dell’AACM si esibisce in solo ed in duo (col nipote alla chitarra). Di Wadada Leo Smith colgo proprio questa seconda performance in una delle cattedrali generosamente associate alla planimetria del festival. Un set difficile, in cui la tromba duetta con la sei corde elettrificata in figure per nulla accondiscendenti, ad un passo dall’improvvisazione più radicale. Sentimenti contrastanti alla fine del gioco.
Tra le rivelazioni della kermesse metto senz’altro Dawuna, che con la giusta dose di coraggio definirei un Curtis Mayfiled del dopo-bomba. Tolti gli arrangiamenti ingombranti, gli archi e i fiati, la sua musica scheletrica è fatta da strati di nastri analogici e acquerelli ambient, ridefinendo in toto l’estetica della black music nella scabrosa urgenza del do it yourself.
Non solo band o formazioni allargate in parata, ma anche numerosi solisti. E tra i momenti più piacevoli del festival non faccio fatica a ricordare il portoghese Rafael Toral, che esordisce con familiari giri di chitarra che da Robbie Basho portano direttamente a David Grubbs (l’uomo che lo ha rilanciato) per poi perdersi in un oceano di suono generato dal metodologico uso dei pedali. A tratti sembra di ascoltare un pump organ altre una distesa infiniti di celestiali droni. Più che minimalismo è massimalismo: Rafael Toral si prende di diritto una fetta di responsabilità nella ricreazione del termine.
Per la serie shock auditivo – mai mancato nella nomenclatura della rassegna – si iscrivono alla speciale categoria The Body e Dis Fig. Non esattamente la mia tazza di tè (soprattutto di questi tempi) ma per nulla trascurabile il loro wall of sound che scuote le coscienze facendo perno su post-metal, cultura industriale ed elettronica radicale.
La mia idea di profondità e presenza di suono è forse oggi rappresentata dai veterani Creation Rebel, recentemente ricostituitisi e depositari di alcune delle più memorabili pagine del catalogo On U Sound. Con re Mida Adrian Sherwood dietro al banco di regia la botta è ancora più grossa: dub is the place, dub is the space.
Allergico per natura alle classifiche, preferisco immaginare un podio virtuale occupato di diritto da Meshell Ndgeocello, che con una formazione da urlo cuce soul music futuribile pregna di riferimenti stilistici che da New Orleans arrivano all’hip-hop più organico dei ’90 passando per la Motorcity.
Per rimanere nell’ambito delle eccellenze e confermare la natura beatamente schizofrenica del festival annovero tra i protagonisti di questa edizione i Water Damage, puro surrogato di muscoloso post-punk statunitense condensato in un monumentale corpo minimalista. In soldoni, lo storico incontro tra Tony Conrad ed i Faust sonorizzato dagli Swans (guarda caso c’è l’ex-affiliato Thor Harris ad una delle due batterie). Menzione d’obbligo per l’ospite d’eccezione Patrick Shiroishi, geniale sassofonista capace di sguazzare nei più svariati contesti, dal post-metal all’ambient-jazz.
Chiudo con la miracolosa apparizione di un ritrovato Asa Chang con il fido campionatore casalingo Junray. Due giovani polistrumentisti con lui a ricordarci l’unicità e la magia di una proposta che su queste pagine abbiamo – giustamente – incensato in tempi non sospetti. Per quest’anno è tutto. A risentirci. Luca Collepiccolo
“Festival Aperto”
Reggio Emilia, 21 settembre, 12 ottobre, 8 novembre 2024
La sedicesima edizione della rassegna di arti contemporanee del capoluogo emiliano, intitolata quest'anno in modo essenziale e significativo Articolo 11, si è svolta tra concerti, teatro, danza e installazioni, animando gli spazi teatrali di Reggio Emilia per due mesi. Il festival si è aperto con Flamenco Criollo, un progetto del pianista di Santiago de Cuba, Aruán Ortiz, da anni residente a New York. Per l’occasione, Ortiz ha riunito un ensemble di musicisti provenienti da Marocco, Palestina, Cuba, Stati Uniti e Spagna. Si è cominciato con un blues africano dal sapore di jazz spirituale alla maniera di Pharoah Sanders; il gruppo includeva pianoforte, Rhodes, oud, violoncello, percussioni e voci. L’atmosfera oscillava tra un aggiornamento della lezione degli Irakere di Chucho Valdés e una versione più soft degli esperimenti ritmici di Steve Coleman con i Grupo AfroCuba De Matanzas. Le voci arabe su percussioni caraibiche hanno incarnato l’idea di una sintesi tra culture diverse, una proposta affascinante e necessaria, anche se a tratti l’esecuzione risultava un po' artificiosa. Ad esempio, un Gordon Grdina con l'oud ha saputo raggiungere esiti più maturi e coinvolgenti. Il percorso musicale si è sviluppato tra Cuba, Africa, musica araba e flamenco, evidenziando la compenetrazione dei generi e l’intersezione delle radici. La dimensione teatrale del flamenco ha messo in risalto le affinità nella pronuncia musicale con il vicino mondo arabo. Tuttavia, in alcuni momenti emergeva (forse troppo) il virtuosismo degli interpreti, tutti eccezionali: ma chi scrive non è riuscito a percepire un filo narrativo solido che collegasse questi momenti, che sembravano più simili a quadri isolati di una mostra. Il pubblico ha applaudito convinto, e con un filo di snobismo mi è venuto da pensare che fosse prevedibile: il pubblico vuole essere intrattenuto. In questi sketch non si avverte né caos né coerenza; si pesca dal jazz per la complessità degli accenti, ma il risultato è una fusione a freddo di mondi. Quando gli interpreti aprono le finestre alle strade polverose di Santiago, il ritmo cambia marcia e finalmente arriva una rumba irresistibile. Le cinque donne in scena — tre cantanti e due danzatrici — sanno catturare l’audience con grande maestria, e ci sono momenti di travolgente dialogo di mani, menti e corpi. Alla fine, però, resta l’impressione di uno spettacolo più pop di quanto ci si aspettasse, non sempre nel senso migliore del termine (e chi scrive non ha nulla contro il pop). Rispetto a lavori più strutturati, come l'ottimo Inside Rhythmic Falls del 2020, pubblicato dalla raffinata Intakt con Andrew Cyrille alla batteria, questo progetto non ha convinto del tutto. Dopo il debutto ad Amsterdam nel 2021, il gruppo non si riuniva da allora: evidente l’entusiasmo nel ritrovarsi e la generosità verso il pubblico, ma la performance resta da rivedere.
La mia personale esplorazione nel ricco programma del festival è proseguita il 12 ottobre con Nuvolario di OHT, accompagnato da Sentieri Selvaggi alla Cavallerizza. Qui, l'incontro tra una messinscena minimale e asciutta e la proiezione di frasi letterarie a tema nuvole si è fuso con l’esecuzione di Music For 18 Musicians di Steve Reich. Chi scrive non aveva mai avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo questa straordinaria composizione e, come alcuni amici mi hanno riferito all'uscita, l'inizio è stato commovente. Un gamelan quasi elettronico, dal respiro biologico, con ondate di marimba e pianoforte, un cuore novecentesco che pulsa regolare e sfasato; una formula semplice e al contempo intricata, sfuggente eppure a portata di mano, umana, troppo umana. L’influenza di un brano del genere su molta della musica odierna è incalcolabile: si pensi ai Battles o ai Ronin di Nik Bärtsch. Quanto è durato il pezzo? Difficile dirlo, ci si perde in questo delicato vortice che solletica i sensi. A un certo punto ci si accorge che i pianoforti sono quattro, mentre una nebbia di nuvole avvolge ormai lo schermo e la platea. Carlo Boccadoro, dopo un tempo indefinito, entra con le maracas; mille variazioni minime ma cruciali sul tema, come se scomponesse una cellula e ne osservasse ogni rifrazione. Resta una malinconia sottile alla fine, il battito degli archi, una vibrazione non minacciosa.
L'8 novembre, infine, è stata la volta di un omaggio ad Amelia Rosselli al Teatro Cavallerizza, uno spazio che meriterebbe più attenzione. Per la prima volta si sono incontrati la cantante Camilla Battaglia — già invitata in altre occasioni in duo con Luca Perciballi nel progetto Public Speaking — e il pianista americano Matt Mitchell, ben noto agli appassionati di avant-jazz. “Tu non sai chi sei e cosa cerchi/Non so cercarti e tu non sai chi sei e cosa cerchi.” Il pianismo angolare di Mitchell, straordinario nel trovare spigoli dove solo il suo talento riesce a illuminare, si intreccia come edera alla voce cristallina e personale della Battaglia. Sono canzoni peculiari, dove la decostruzione del tessuto lirico e la ripetizione di singole parole e versi assumono un ruolo centrale, “in un trasporto che tu non sempre puoi.” In uno dei momenti più riusciti, la voce si fa uccello e spicca il volo, mentre sciami di note allusive si levano dalle dita di Mitchell. In alcune di queste canzoni sospese e dilatate, la Battaglia usa anche l’elettronica tramite SuperCollider, mentre Mitchell esplora territori più free e astratti, mantenendo sempre alta la qualità narrativa e musicale. A tratti, il pensiero corre a cantanti come Patty Waters o Sara Serpa, con il loro modo di sconfinare dalla forma-canzone per poi rientrarvi. Come ha spiegato la stessa Battaglia, l’idea del progetto è celebrare l’importanza di un’opera poetica come La libellula, che parla di rigore e libertà, e rendere omaggio al legame tra musica e parole, centrale per Amelia Rosselli. “C’è molto sapere di non sapere in queste poesie, un’attitudine che ci arriva da lontano e che dobbiamo mantenere viva,” ricorda Camilla. Il tono generale è asciutto, intenso, riflessivo; il pubblico, purtroppo, è esiguo, ma quando due spettatori abbandonano la sala durante il set, lo interpreto come un buon segno. Mentre Mitchell continua imperterrito a accumulare cluster e digressioni imprevedibili, la Battaglia insiste sulla ripetizione di versi e parole, mostrando un’eccellente tecnica. Peccato solo che in questo duo il talento straordinario dei due interpreti non sempre trovi una forza comunicativa altrettanto potente. Il Festival Aperto si concluderà a fine novembre; per gli ultimi spettacoli, potete consultare il programma completo su https://www.iteatri.re.it/tipo/aperto/ Nazim Comunale
JazzONZE+
Lausanne (CH), Salle Paderewski - BCV Concert Hall - Jumeaux Jazz Club, 29 ottobre/3 novembre 2024
Pronti via, boom boom: la trentasettesima edizione del festival jazz losannese è partita di slancio, con la doppia esibizione nella stessa serata di martedì 29 dell’Avishai Cohen Trio. Casino de Montbenon due volte sold out, per il contrabbassista israeliano trapiantatosi diciottenne con successo a New York, facitore di musiche granitiche, proposte sempre con il giusto vigore e più di un tratto lirico, di solito recuperato dalle proprie radici. A onor del vero, non c’è molto di meglio nel catalogo attuale del mainstream e per quanto lungo la carriera i suoi concetti musicali non abbiano subito grandi sommovimenti, vederlo agire in presa diretta rimane esperienza piuttosto appagante. Nell’occasione c’era da promuovere “Brightlight”, pubblicato appena qualche giorno prima, e da lì sono state pescate varie tracce, senza rinunciare ad antiche hit come Remembering. In formazione adesso ci sono due giovani speranze, il pianista Guy Moskovic e la batterista Roni Kaspi, che non sono male, pur se al momento Shai Maestro si fa ancora rimpiangere. Il vicino di poltrona, che aveva visto anche il primo set, asseriva che sostanzialmente i due live si erano equivalsi, con qualche piccola modifica nella scaletta e un po’ di fatica in più a dialogare nel secondo: non avevamo motivo per non credergli. Il giorno appresso siamo andati alla BCV Concert Hall a testare la tenuta dal vivo di Anat Cohen, che su disco di solito rende bene. Per chi ama il gossip segnaliamo che lei è la sorella dell’altro celebre Avishai, il trombettista, mentre per chi si intende di musica risulterà abbastanza inutile dire che da qualche tempo ha formato con Vitor Gonçalves (pianoforte, fisarmonica, Rhodes), Tal Mashiach (contrabbasso), James Shipp (vibrafono, percussioni) un gruppo denominato Quartetinho, già responsabile nel 2022 di un omonimo album. Sorta di pifferaia magica, la Cohen ha soffiato nel clarinetto (e in un trittico di altri brani al clarone, preso in prestito in loco) con indubbia classe e ci ha guidato alla scoperta di una world-jazz music, la sua, che a un certo rigore formale barocco accoppia coloriture e vibrazioni affittate dal Sudamerica, Brasile in testa. Gonçalves ha dimostrato di saperci fare, tenendo in piedi l’intera band con un certo slancio. Al giovedì i flyer messi in circolazione due mesi prima annunciavano in cartellone, in orari non coincidenti, tanto Kamasi Washington quanto Meshell Ndegeocello, ma lo show del primo è stato riportato al 31 marzo 2025 ai Docks, mese che lo vedrà tornare in Europa per un lungo tour che toccherà anche l’Italia in aprile (22 Milano, 23 Roma, 24 Bologna). Non che lo attendessimo come un messia, però un po’ di curiosità c’era. Ci siamo dunque dovuti accontentare della Ndegeocello e della sua corposa formazione, un sestetto comprendente Justin Hicks (voce), Jake Sherman (organo), Jebin Bruni (tastiere), Christopher Bruce (chitarra), Kyle Miles (basso) e il batterista Abraham Rounds. Il menù non poteva che prevedere larghi scorci dal recente “No More Water: The Gospel Of James Baldwin”, con tanto di didascalie proiettate sul fondo del palco, e così è stato. Per quanto non siano mancati passaggi emotivamente significativi, nell’insieme il suo live è sembrato poco brillante e segnato dalla staticità, con la stessa leader più propensa a declamare seduta sullo sgabello che a imbracciare il suo basso elettrico. In estrema sintesi, non è stata una serata all’altezza delle aspettative, ma può capitare anche ai migliori di non essere in grande forma. Speravamo di rifarci la giornata seguente: siamo stati invece ulteriormente delusi, colpa del cartello appeso alla porta della BCV Concert Hall che annunciava l’annullamento, all’ultimo, del concerto della vocalist Cyrille Aimée e del suo quartetto per ragioni di salute dell’artista. Peccato, perché la francese, costruitasi da sé pezzo a pezzo partendo letteralmente dalla strada, possiede uno stile solido e preciso, che sta dentro la tradizione ma riesce anche a vivacizzarla. Nel tentativo di consolarsi, cambio radicale di genere e di location in tarda serata, con il tedesco Moses Yoofee allo Jumeaux Jazz Club. Produttore e tastierista quadrato e convinto, ha in gestione un power trio – completato da Roman Klobe-Barangā (basso elettrico) e Noah Fuerbringer (batteria) – che lo segue e talvolta lo anticipa convinto. Il set che ne è risultato surfa con abilità sulle onde di un electro-jazz sicuramente oggi di tendenza, ma lo fa con una durezza e spigolosità inusuali, senza perdersi in romanticherie e stasi fusion. Sprofondato in ritmi debitori di drum’n’bass e hip hop, Fuerbringer è un rombo di tuono efficace. Dopo un’ora e mezza il foltissimo pubblico non ne aveva ancora abbastanza, a conferma che Yoofee e i suoi erano riusciti a centrare l’obiettivo. Il sabato 2 novembre si annunciava pieno e cominciava a metà pomeriggio nell’auditorium dell’EJMA, con la giornalista Elisabeth Stoudmann (vedi all’antica voce “Vibrations”) e dal chitarrista e vocalist ghanese Kyekyeku, leader dei Super Opong Stars, a intrattenerci con la seconda parte dell’esperienza d’ascolto “Jazz&Afrique”, patrocinata dall’associazione Jazz History. Se nel 2023 il nesso era stato sviluppato centrando l’attenzione sul West-Africa, stavolta i due conduttori, al solito aiutati dalla proiezione di testi e immagini alle loro spalle, hanno giocato a ping pong. Una lanciando in orbita brani di jazz sudafricano, l’altro rispondendo con esempi di ethio-jazz e affini, per un’ora e venti abbondante di ottima musica e disquisizioni mai accademiche. In serata, ritorno alla Salle Paderewski per un doppio spettacolo. Ad aprire, il Louis Matute Large Ensemble, progetto allargato rispetto al quartetto che il giovane chitarrista svizzero aveva proposto nel 2021. Da un certo punto di vista Matute dimostra di essere cresciuto non poco, ma dall’altro il sestetto che dirige, comprendente anche il tenorsassofonista Léon Phal, non pare ancora muoversi in una direzione certa e sovente il gruppo procede in realtà a tre o a due, perdendo il vantaggio e la forza del collettivo. L’invito a salire in scena rivolto alla cantante francese Gabi Hartmann, per quattro brani di sapore latin e brasilero, non ha fatto altro che aumentare la dispersione delle idee. Insomma, la qualità ci sarebbe anche, ma il Matute Large Ensemble farebbe bene a individuare un bersaglio stilistico preciso al quale mirare. Dopo un cambio di palco laborioso e qualche problemino audio all’inizio della performance, è stata la volta della stella di giornata, quel Christian Scott che da un po’ si fa chiamare Chief Xian aTunde Adjuah. Dato che nelle sue vene scorre il sangue di New Orleans (è nipote di Donald Harrison Jr.), si è proposto con l’orgoglio e la forza che ne hanno sempre contraddistinto l’agire. Nella prima parte del live ha suonato un ibrido di sua progettazione, che unisce in sé il suono dell’arpa, della kora e dello n’goni per accompagnarsi al canto. Brani affrontati a volumi sostenuti, tanto che qualcuno tra il pubblico si è lamentato con vigore. “Lasciate ai fonici il loro mestiere” ha prontamente ribattuto il Capo, proseguendo come se nulla fosse. Anche le due trombe in seguito impiegate, rilucenti e strane nel design (una con la campana un po’ all’insù in stile Gillespie) portavano la sua firma, perché lui controlla ogni fase della filiera. Si va così dal produttore al consumatore senza intermediari, aggrediti da una generosa cascata di note dall’inizio alla fine per due ore tonde di fila, che non è poco di questi tempi. Ci sono ricordi del Davis elettrico nelle trame proposte da Chief Adjuah, a cominciare dalle lunghe tirate che permette al resto della band, in particolare al chitarrista Cecil Alexander e al tuttofare Morgan Guerine (sassofoni, EWI, tastiere, percussioni elettroniche), e dalle richieste di spingere continuamente rivolte a Max Mucha (contrabbasso) e al roboante batterista Elé Howell. La sua stretch music, con quel tirare dentro pulsioni afro, hard-bop infuocato, strappi funk, qualche barlume di spiritual jazz e spasmi electro dati in pasto al pubblico con fragore, non ha convinto proprio tutti, tanto che dopo un’ora qualcuno se n’è andato. La gran parte del teatro ne è stata comunque conquistata e alla fine gli ha tributato caldi applausi e urla di approvazione, riportandolo sul palco ben due volte. Chief Adjuah è così, un muscolare e un agonista che ci mette tutta la forza che ha (e dal vivo ne ha davvero tanta). Prendere o lasciare. Piercarlo Poggio
Uzeda
Kingston Live, San Nicola La Strada CE, 1 novembre 2024
Dopo qualche anno torno a sentire gli Uzeda. La location mi ha all’inizio un po’ sorpreso, un simpatico locale rintanato negli spazi chiusi e aperti di un vecchio palazzo, con un monumentale cereo prima dell’ingresso e i classici muri e volte in tufo all’interno, ma – almeno per le mie aspettative – decisamente compresso per la musica potente degli Uzedi. Mi domandavo, ad esempio, come avrebbe fatto a suonare, lui che non sta fermo un attimo, Agostino in quel mini palco tutto concentrato. Di pogare non se parlava proprio. E le grosse mura in tufo avrebbero retto l’urlo dei decibel? Non è che tutto sarebbe scoppiato come una pentola a pressione? In effetti tutto è scoppiato, esploso, ma in tutt’altro senso. La scaletta del concerto è ormai collaudata (niente nuovi dischi da promuovere) e tutto è filato liscio. Liscio come una colata di lava. La massa sonora che i quattro catanesi hanno saputo creare e muovere come un flusso è stata propria una colata, non quella degli altoforni ma quella dei vulcani che fuoriesce da dentro la terra e sulla terra scorre fino a raggiungere il mare. Qualcosa di fluido, insieme solido e liquido, mobile e compatto nello stesso tempo. Lo spazio ridotto ha esaltato al massimo la potenza di un suono che ha riempito ogni più piccolo anfratto, ogni screpolatura, infilandosi dentro le orecchie (qualcuno aveva degli opportuni tappi) e dentro tutto il corpo e la mente. Una botta prolungata di energia che ha esaltato il “pieno” della musica degli Uzeda. Non giocano al risparmio ma danno tutto e questo tutto è denso di tanta roba, non solo di riff, di urli, di ritmi travolgenti, di suono ma anche di senso, di vita, di comunicazione. Ciò che mi colpisce è la positività di questa energia, come le tossine negative della rabbia fossero tutte transustanziate da una carica positiva, come un abbraccio di vita, una vita forte, densa, magari non facile ma bella. È stato un bel concerto perché ha suonato la bellezza della vita, quella bellezza che spesso si rintana in luoghi appartati, fuori dai luoghi comuni, dal senso comune, come una luce impastata nel buio ma che non viene a patto con esso. Una forma di resistenza, per non cedere ai mali e ai malesseri di questo mondo e di tutti i mondi, per non farsi contagiare dai virus che ci vorrebbero tutti uguali a difendere la propria carcassa. Un concerto degli Uzeda (molto meglio dal vivo che su disco – anche se i loro dischi sono ottimi) non dimostra nulla ma tira fuori e fa tirar fuori quelle energie positive che troppo spesso dimentichiamo o deleghiamo e invece fanno parte di noi, ce l’abbiamo dentro. Gli Uzeda lo fanno da musicisti, da artisti. Sta a ognuno vedere come può cavar fuori la lava che ha dentro, il fuoco compresso che è vita e nulla può trattenere se non la crosta che ci costruiamo sopra. Sono quelle sacche di resistenza da cui ogni tanto sfugge qualcosa. Magari qualcosa ustiona o colpisce, ma ciò che è essenziale resiste. Sempre. Forse siamo così mosci perché abbiamo perso di vista questo, quello che siamo, quello che dobbiamo cercare di essere. Questo mi pare trasmetta un concerto degli Uzeda. Ce n’era bisogno. Loro resistono, e infatti passano gli anni e non perdono un pelo della loro carica. Dei vulcani in azione. Girolamo Dal Maso
Pierre Bastien / Sug:gestiva
Roma, Ex Cartiera Latina, 3 novembre 2024
D’improvviso un’idea, un parallelo: la musica di Pierre Bastien sta alla ricerca metodologica del suono e delle fonti come il cinema di David Cronenberg al maniacale utilizzo del corpo. Venerato negli ambiti dell’elettronica (la pubblicazione del disco culto “Mecanoid” per la Rephlex di Aphex Twin) e della musica avant (dal debutto per l’oasi rock in opposition Recommended alla collaborazione coi Tomaga), il musicista parigino non finisce mai di stupire. Prova e riprova ne è questo intimo live all’interno di un padiglione dell’Ex Cartiera Latina nel suggestivo parco dell’Appia Antica, location che amplifica lo spirito cinematico della performance, considerato che Bastien trasmette in diretta su schermo il suo live (per assurdo sembra di rivedere il film sperimentale di Phill Niblock per Sun Ra), senza lesinare informazioni relativamente ai materiali utilizzati. Dei più bizzarri, invero: messi momentaneamente da parte i meccano, tra gli strumenti utilizzati si annoverano la classica pocket trumpet e una serie di congegni autocostruiti che stupiscono per funzionalità e struttura, persino una stampella viene riutilizzata con l’ausilio di corde in nylon, generando un suono prossimo a quello dello zither. Musica meccanica in cammino, diretta discendente di un sentire figlio della musique concrète ma non avversa a contaminazioni global e funzionali figure minimaliste. Sequenze eccitanti, rese ancora più avvincenti dall’introduzione di altri prototipi – come al culmine dell’esibizione – a testimonianza di un continuo indagare e interagire con fonti sia casalinghe che naturali. Un esempio solenne di spirito senza compromessi, smorzato solo dall’atto pubblico della condivisione. Maestro. Luca Collepiccolo
White Buffalo
Firenze, Viper Theatre, 25 ottobre 2024
Dopo aver visto decine di concerti nei club, negli stadi, nei teatri, nelle piazze e in ogni luogo immaginabile, e avendo raggiunto un’età quasi venerabile, pensavo sinceramente di non avere molte possibilità di emozionarmi ancora ad un concerto. E invece…
Venerdì 25 ottobre in una giornata piovosa trascorsa tra viaggi in treno, ombrelli rotti e traffico urbano, io e il mio esperto compagno di avventure Gianluca Gori ci avviciniamo finalmente al Viper Theatre di Firenze per assistere alla data di apertura del tour italiano dei White Buffalo (targato Bagana Music), la band di Jake Smith. Prima di esprimere qualsiasi riflessione o critica sul live dei White Buffalo, ci tengo a precisare che fino al 19 maggio 2023 questa band losangelina era per me un oggetto misterioso perso tra playlist online e recensioni fugaci. Ma quella giornata di maggio ebbi l'occasione di vederli e sentirli a Roma, al Circo Massimo, come gruppo di apertura di Bruce Springsteen. Il concerto, bagnato da una pioggia intensa e fastidiosa, aveva messo in mostra una performance letteralmente monumentale. Colpo di fulmine: da allora è iniziato il mio peregrinare per sentieri impervi tra notizie, registrazioni e streaming alla ricerca della musica dei White Buffalo, progetto musicale fondato dal cantautore Jake Smith nel 2002 a Los Angeles.
Il Viper è gremito, si chiacchiera, ci si saluta, si suda… e poi sul palco sale Jake, da solo con la sua chitarra. Il silenzio si fa palpabile, un vento caldo e potente travolge tutto con la sua voce profonda. L’apertura è di quelle che tolgono il respiro: Wish It Was True (contenuta nell’album Once Upon a Time in the West del 2012) lascia senza parole. Un brano enigmatico, potente, antico e attuale allo stesso tempo.
Nell’esibizione di questo piccolo branco di bufali bianchi si odono echi di Bob Dylan, per la loro abilità nel raccontare storie attraverso la musica; di Johnny Cash, per l’impatto emotivo e la profondità dei testi; di Neil Young, per l’approccio folk e rock e la capacità di evocare atmosfere magiche; e di Bruce Springsteen, per l’abilità nel creare ballate epiche e per la connessione con il pubblico che esse sono in grado di creare. Personalmente, alcune chicche che mi hanno particolarmente emozionato: Join the Murder, Oh Darling What Have I Done, The Whistler e la cover di Highwayman di Jimmy Webb. So, può sembrare tanto, forse troppo, ma oggi, con l'anagrafe che avanza e la voglia di musica autentica e sudata, i tre White Buffalo - Jake Smith alla voce e chitarra, lo straordinario Matt Lynott alla batteria e Christopher Alan Hoffee al basso e chitarra- rappresentano a loro modo il futuro di un’America smarrita, ferita e mai così lontana da se stessa. Per noi che abbiamo guardato al nuovo continente con passione e rassegnazione, amandone la vastità e le piccole cose, le contraddizioni e le certezze, oggi questa band che ha il coraggio di interpretare un classico come House of the Rising Sun senza risultare didascalica, riempie le nostre giornate con una colonna sonora che illumina il cammino verso ciò che ci attende.
Mentre la serata prende fuoco e i White Buffalo danno fondo a tutta la loro potenza, ci guardiamo attorno e ci rendiamo conto che in mezzo a barbe brizzolate, qualche chilo di troppo e volti maturi ci sono anche molti giovani che hanno scelto di abbandonare le strade sicure a quattro corsie per camminare tra i sassi e le sterpaglie della vita e le salite della musica no-mainstream. Guardo Gianluca e lo ringrazio per essere ancora qui, a camminare insieme e forse senza una direzione precisa. Ricordiamoci sempre però che non è la meta che conta ma il viaggio e lo percorre accanto a noi. Andrea Laurenzi
Michel Houellebecq al Festival “Radici” (anteprima)
Circolo dei lettori, Torino, 14 e 24-27 ottobre 2024
Al via questo weekend a Torino la seconda edizione del festival Radici. Il festival dell’identità (coltivata, negata, ritrovata): libri, musica e film per discutere, in tempi di cambiamenti spaventosi e repentini come quelli in cui ci troviamo a vivere, intorno al problema del rapporto con la nostra identità e dell’incontro con l’Altro. Insomma, i soliti spunti di riflessione triti e fumosi necessari per organizzare un festival, che sono però un’ottima scusa per portare nel capoluogo piemontese nomi del calibro di Irvine Welsh, Tiziano Scarpa, Arturo Brachetti, Alain De Benoist e Walter Siti. Lo scorso anno Torino aveva ospitato niente meno che Bret Easton Ellis, re indiscusso del minimalismo americano in uscita con Le schegge, romanzo da leggere con lo stereo acceso perché talmente infarcito di riferimenti ad album e brani degli anni Ottanta che ha generato un proliferare di playlist “da lettura” su Spotify (dalle 40 alle 120 tracce, verificare per credere). Quest’anno, il Circolo dei Lettori ha scelto come padrino del festival Michel Houellebecq, lo scrittore francese vivente più letto e tradotto nel mondo, che ha concesso, per l’anteprima di Radici, un’oretta scarsa di chiacchierata al pubblico torinese.
Si è trattato di un evento più unico che raro: Houellebecq non è solito prestarsi a incontri con i lettori, e il fatto che non avesse un libro in promozione rende la sua comparsata ancor più eccezionale, giustificando la lunga coda (i più intrepidi si sono appostati in via Bogino tre ore prima) per accaparrarsi i pochi posti disponibili in sala. Ha impressionato come uno scrittore dalla penna tanto decisa e lucida, avesse un tono così dimesso, monocorde, incespicante, ingarbugliandosi a volte nelle parole e altre volte riflettendo a lungo, attraverso silenzi e balbettii che ricordavano le apparizioni televisive di David Foster Wallace. Non c’era traccia della veemenza dei suoi protagonisti, né della violenza di certe sue affermazioni. Più che riflettere intorno al concetto di identità, l’incontro, mediato da Ottavia Casagrande, è parso quasi come un tentativo di farlo uscire allo scoperto, di rimuovere la maschera da écrivain maudit, di coglierlo in fallo su posizioni politiche e ideologiche che Houellebecq sostiene da cinquant’anni, come se non fosse uno degli autori notoriamente più controversi al mondo. Il tentativo è stato ovviamente disinnescato dalle risposte, snocciolate una in fila all’altra senza cadere nella trappola, senza battere ciglio, senza tentare (e come poteva essere altrimenti?) di schermirsi. D: Lei è un misogino? R: Mi definirei piuttosto come un macho. Se una donna piange, un misogino si arrabbia, un macho si intenerisce. D: A un anno di distanza dal 7 ottobre, lei è sempre un sostenitore di Israele? R: Certo. Se Israele smettesse di combattere verrebbe spazzata via. L’antisemitismo in Europa ha raggiunto livelli preoccupanti. E via di questo passo.
Houellebecq ha però dato qualche speranza ai suoi lettori. Diversamente da quanto annunciato dallo scrittore, Annientare potrebbe non essere il suo ultimo romanzo. In realtà, il memoir Qualche mese della mia vita, aveva già reso falsa questa affermazione: un libricino nato da un’esigenza, quella cioè di raccontare il ricatto subito da un gruppo di visual artist olandesi del collettivo Kirac (Keeping It Real Art Critics), che avevano girato un film porno con Houellebecq come protagonista, per poi diffondere il filmato e rendere pubblica la vicenda, mettendo in moto tutta la macchina giudiziaria e, di concerto, quella della stampa scandalistica. L’autore ha fatto suo malgrado una più approfondita esperienza dei tribunali (tra l’altro, D: Un consiglio a un giovane autore? R: Scegliersi un buon avvocato), e per la prima volta ha tentato di autobiografarsi. L’esperimento è stato definito “interessante”, e l’iter processuale potrebbe aver fornito allo scrittore francese nuovi spunti per un libro. Houellebecq tornerà con un nuovo romanzo? Ce lo auguriamo di cuore. Ian Poggio
Hard-Ons
Blah Blah – via Po, Torino, 12 0tt0bre 2024
L’alto tasso di amarcord che la serata si portava in dote, unito al fatto che “I Like You A Lot Getting Older”, il nuovo disco che gli Hard-Ons hanno pubblicato giusto una decina di giorni fa e che suona come un centrifugato di Radio Birdman e Kiss per la domenica pomeriggio al centro commerciale, non lasciava presagire nulla più che un dai e vai senza pretese, un’occasione per timbrare il cartellino tra due chiacchiere con gli amici e una birra a portata di mano. E invece quella patina ingiallita che il tempo inesorabile ha depositato sul punk australiano degli anni ’80 si è presa una bella sverniciata, nel frullatore di via Po, tornando luccicante nonostante le non facili premesse. Prima però, all’ora di cena, sono saliti sul palco i tarantini SFC, sobillatori di un hardcore troppo contemporaneo e quindi zavorrato dall’essere oltremodo preciso e misurato, per quanto solido e potente. Il loro è un concerto ineccepibile sotto l’aspetto formale ma da rivedere sotto tutti i restanti punti di vista. Poi il cambio palco come ai bei tempi – cioè ad uso, fatica e nastro telato degli stessi musicisti (per cui lungo e laborioso) – e quindi finalmente gli Hard-Ons da Sidney, di ritorno dalle nostre parti dopo un tempo immemorabile. Dei membri originali sono rimasti il chitarrista Peter Black e il bassista Ray Ahn, mentre da qualche anno e un paio di lp il posto di Keish De Silva è stato suddiviso tra Tim Rogers, per quanto riguarda la voce, e Murray Ruse, per quanto concerne la batteria. In amorevole simpatia, con lo scapigliatissimo Rogers – un marcantonio à la Perry Farrell solo leggermente più presente a se stesso – che grattugia tutta la voce possibile sulle corde vocali, probabilmente in sofferenza dalle date del tour europeo di cui questa torinese è la decima e ultima, il quartetto si dimentica di stare intorno a quota sessanta e riesce a capovolgere persino le sorti estetiche del summenzionato nuovo album, sebbene gli estratti – Buzz Buzz Buzz, Happy Accidents, Finder's Fee, Operation Lightning e Ride To The Station, su un totale di diciassette pezzi e un’ora di concerto – siano stati selezionati col bilancino di precisione. Ironia, velocità d’esecuzione, assolo sgargianti ma anche sganassoni a pugno chiuso, sono ancora le migliori peculiarità di questi inguaribili cialtroni di seconda fascia del kangaroo rock, tra i pochissimi ancora in attività e quindi ancor più meritevoli d’affetto per la perseveranza che dell’Australia li ha riportati fino a qui, immaginiamo, a tirare su quei due soldi con i quali forse ci si sono pagati solo il viaggio. Andrea Amadasi
Bassolino
“Robot Festival - Anteprima”, Bologna, Palazzo Re Enzo, 27 settembre 2024
Lo avevamo previsto ai tempi dell’uscita, la scorsa primavera, che i solchi di “Città futura” non potevano assolutamente passare inosservati. E così è stato, basta vedere quanto critica e pubblico abbiano premiato il progetto con cui il pianista Dario Bassolino ha dato vita a una personalissima sintesi di funk, jazz, progressive e umori cinematici proiettandola tra le strade di una Napoli onirica, sospesa a cavallo tra gli anni Settanta e il decennio seguente. Nato come un concept, l’album viene riproposto anche dal vivo quasi fosse la colonna sonora di un lungometraggio immaginario, sorretto dagli incastri di una formazione cangiante che passa agevolmente dal trio ad una line up molto più corposa. Nella splendida cornice di Palazzo Re Enzo a Bologna, in occasione di una serata che ha anticipato la quindicesima edizione del Robot Festival, abbiamo assistito a un set che – a dispetto di un forte riverbero naturale dovuto agli ambienti “d’epoca” – ha incantato il pubblico dalla prima all’ultima nota. La voce di Linda Feki (titolare di una ammaliante scia di produzioni a nome LNDFK) ha guidato ‘E Parole, forse il brano più amato di “Città futura”, ma persino le parentesi strumentali più ardite hanno ricevuto applausi scroscianti da un pubblico non necessariamente avvezzo al jazz. Insomma, complimenti a Paolo Petrella, Marcello Giannini e Andrea De Fazio per aver saputo ricreare dal vivo un incastro di suoni e atmosfere che non era facile rendere così tanto coinvolgente, soprattutto per chi si aspetta un festival orientato verso altre geometrie. E quindi complimenti anche al Robot, che si conferma ancora una volta meravigliosamente imprevedibile. Carlo Babando
Paolo Polcari (Almamegretta) e Stuart Braithwaite (Mogwai)
“Napoli Spacca – Soundscapes City Performance”, Napoli, Maschio Angioino, 2 settembre 2024
“Napoli spacca” è un gioco di parole, spezzando e invertendo i pezzi di “spaccanapoli” la scia di vicoli che taglia in due il centro storico di Napoli, una lama residuale che lega la storia di Napoli, dalla sua pianta romana (uno dei decumani) all’overtourism attuale. “Napoli spacca” non è solo il titolo di un evento-concerto ma un progetto promosso dal comune di Napoli che speriamo possa svilupparsi e crescere ulteriormente dando voce (o in questo caso suono) a una dimensione della città che deborda dai soliti cliché. Il concerto serale è stato preceduto da un interessante incontro mattutino in cui musicisti ed esperti hanno delineato alcune delle suggestioni in campo, spaziando tra storia della musica, etnomusicologia, antropologia, sound art, industria musicale e altro ancora (è spuntato fuori pure un Osimehn nascosto nella cassa dei pedali per la chitarra di Braithwaite: la fantasia dei tassisti napoletani non ha limiti). Ma veniamo al concerto. Paghi neanche uno (l’evento era gratuito) e prendi due, anzi tre. Di fatto è stato come assistere a due concerti in uno: Almamegretta più Mogwai. Fosse stato solo per questo, già sarebbe molto. Polcari e Braithwaite erano in gran forma, con da una parte i ritmi elettronici postdub del napoletano e dall’altra la chitarra postrock con i suoi riff dilatati dello scozzese. Ma la cosa interessante non è stata però questa musica già sentita e conosciuta. Il progetto musicale, infatti, è nato da una serie di registrazioni sul campo che hanno fatto da base e sfondo al successivo lavoro dei musicisti che hanno “colorato” (questa la loro espressione) le cartoline sonore registrate con la loro musica e la loro sensibilità. E qui, a mio avviso, sta la parte originale del lavoro. Da una parte i suoni e le voci della città colti in modo randomico (dal porto a piazza Mercato, dalla metro ai vicoli del centro), dall’altra come punto di vista (o meglio di ascolto) due musiche “bastarde” che hanno già in sé il senso della storia e della tradizione e il suo mischiarsi con altro, andando oltre. Gli Almamegretta rappresentano, da questo punto di vista, l’incontro tra la tradizione napoletana e il mondo (già bastardo di suo) del dub giamaicano e inglese, una rilettura del passato e del presente (di allora, ovviamente) con l’elettronica più avant. Stessa cosa si può dire in tutt’altro ambito per i Mogwai, con la loro deflagrazione del rock chitarristico. Elettronica postdub e chitarra postrock sono state le lenti che hanno permesso di guardare a Napoli in un’ottica originale e, io direi, anche convincente. Il risultato sono stati dei pezzi caratterizzati da un andamento circolare, dei loop che più che imporsi ai frammenti “field recording” hanno creato uno “stile”, un modo di attraversare e passare la città, quello, appunto, del loop, del girovagare, del perdere tempo, del dilungarsi per lasciarsi entrare dentro qualcosa. Questo andamento lento – mi pare – è, forse, oggi l’antidoto più efficace contro un turismo mordi e fuggi, in cui il programma di visite è già fissato secondo standard mediatici, quelli imposti dalle fiction televisive di successo. In questi loop avvolgenti è possibile intravedere la città ora troppo placida, ora troppo violenta. Ad ogni modo, uno dei percorsi possibili. Speriamo continui e che se ne aprano pure altri. Girolamo Dal Maso
“Viva!” Festival
Locorotondo 1-2-3-4 agosto 2024
Da un po' di tempo si sta diffondendo anche nel nostro paese la piacevole abitudine di organizzare festival in location particolari che danno vita a quel fenomeno che potremmo definire “turismo musicale”. Poter abbinare alla propria passione per la musica un viaggio fuori porta è il top, così come poter rispondere alla domanda “Dove vai in vacanza?” con il nome di un festival. Gli esempi sono tanti. Dall’“Open Sound” nel Parco Nazionale del Pollino e a Matera alla “Prima Estate” al Lido di Camaiore, dal “BeColor” nel parco naturale della Sila fino al “Viva!”, nella splendida Valle d'Itria, che anche quest'anno si è confermato uno dei festival più interessanti del panorama nazionale e non solo. Il programma ampio e ben curato prevedeva quattro giornate tra incontri, dj set e live ma le attese erano tutte per gli headliner del weekend: gli Air con il live celebrativo dei 25 anni di “Moon Safari” e gli inossidabili Underworld che mancavano dall'Italia da molto tempo.
I francesi sono il set principale del venerdì. Arrivano sul main stage dopo un energico live electro tribal di Dardust e un dj set techno di Giulia Tess. A incuriosire, già prima del loro ingresso sul palco, è la scenografia. Un grande parallelepipedo bianco, asettico. Nell'epoca dell'eterno presente condiviso, già sappiamo che suoneranno proprio lì dentro, già conosciamo la disposizione dei musicisti, ma vederlo dal vivo fa comunque un certo effetto. Tutto si svolge all'interno di questo spazio, una sorta di monolocale arrivato da un ucronico futuro ballardiano. Quando il live inizia, con Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel sempre sorridenti e perfettamente complici, questa scelta appare molto efficace nella sua semplicità, creando uno spazio quasi intimo e fuori dal contesto in cui vedere, quasi voyeristicamente, le cose che accadono dentro. Mi ha ricordato L’effet de Serge, uno spettacolo teatrale di Philippe Quesne in cui in un appartamento ogni domenica si svolgono mini-performance surreali e poetiche. Che sia proprio il francese Quesne la fonte d'ispirazione per la scenografia?... Il live ripercorre tutto “Moon Safari” e qualche hit da altri lavori, come una splendida versione di Cherry Blossom Girl dilatata e sognante. Ascoltarlo dopo 25 anni fa un certo effetto. Un senso di nostalgia per un futuro in grado di umanizzare le macchine che in fin dei conti non si è avverato. C’è poi tutta la sensualità esotica di pezzi come La femme d'argent o Talisman, degni di fare da colonna sonora a una foresta dipinta da Henri Rousseau. La malinconia di You Make it Easy e l'estro di Sexy Boy rimangono intatti e ci riportano indietro nel tempo, quando stavamo scavallando il millennio e “Moon Safari” era colonna sonora di scoperte (anche) musicali che facevano gridare, con Laurent Garnier, Daft Punk e Cassius, “Vive la France!”. In versione live i pezzi sono più accattivanti e coinvolgenti che in studio, cosa che mi ha sorpreso non poco, avendo sempre pensato che un concerto degli Air fosse il classico esempio di performance da vedere seduti in teatro.
La giornata seguente è quella del grande evento-Underworld, un gruppo che ha contribuito a creare il suono dell'elettronica degli anni '90, ormai assente dalle nostre latitudini da tempo (per vederli recentemente li ho dovuti intercettare a Berlino e Bruxelles). Il loro live è un viaggio in cui lasciarsi trasportare senza tentennamenti, riescono a dosare perfettamente i momenti più ritmati con le zone ambient intimiste. Di solito la musica dance nei grandi eventi fa ballare migliaia di persone in un rito collettivo quasi ancestrale, puntando a creare una sorta di tribù contemporanea. Gli Underworld invece ti accompagnano in un viaggio personale, una danza tra gli altri più che con gli altri, un viaggio nel tuo mondo da condividere. Ma dei loro live la cosa che mi ha sempre colpito di più è il frontman Karl Hyde, classe '57. Ha un modo di muoversi quasi ipnotico, sciamanico. Balla, trasportato, fino a farsi trasposizione visiva della loro musica. Nel 2005 due video artisti, Douglas Gordon e Philippe Parreno, fecero un video d'arte filmando per l'arco di un’intera partita Zinedine Zidane. Della partita c'è solo lui decontestualizzato. Ho sempre immaginato di rifare l'operazione proprio filmando Hyde in un suo live. Magari senza musica. Sono convinto che reggerebbe senza annoiare. Nella serata hanno eseguito tutte le hit, da Two Months Off a Dark & Long (Dark Train) passando per King of Snake, Rez/Cowgirl, la più recente Denver Luna e l'immancabile Born Slippy, che infiamma l'arena.
L'ultimo atto del “Viva!” è un live sulla spiaggia per aspettare l'alba. Alle 5.30 del mattino sale on stage vista mare Giorgia Angiuli, che, nonostante l'orario, propone il live più techno dell'intero festival affiancando a computer e moog anche giocattoli e diamoniche da scuola media. Molto brava e coinvolgente: anche quest’estate scegliere un Festival come meta è stata la soluzione migliore per le mie vacanze… Massimo Lovisco
Be Color Festival
Marlene Kuntz / Motorpsycho / Kula Shaker
Camigliatello Silano (CS), 3 agosto 2024
La bellezza del posto è stordente. Il lago Cecita a Camigliatello, sui monti della Sila, ospita la seconda edizione della piccola Woodstock calabrese: il colpo d’occhio è meraviglioso. Se ne accorge anche Crispian Mills dei Kula Shaker che parlerà di “such a beautiful place in this part of the world”. Una felice intuizione degli organizzatori. L’orario di inizio, 14:30, ci fa perdere quasi per intero la timida esibizione di Her Skin, solo per voce e chitarra. Il DJ set “molto parlato” di Fabio Nirta allieta i cambi palco sotto un sole cocente. E sotto un solo cocente, vestiti di tutto punto, si presentano i Marlene Kuntz. È una tappa del tour per il trentennale di “Catartica”. Tra gli svantaggi dell’invecchiare c’è anche il fatto che certi dischi non ti colpiscono più alla stessa maniera di quando eri un ventenne. Al momento dell’uscita avevo molto amato il debutto della formazione cuneese. Mi aspettavo, perciò, una scossa dettata anche dalla nostalgia. I Marlene Kuntz ci provano, con una una buona dose di energia e molto mestiere, ma l’attesa botta non arriva anche se i die-hard fan presenti nelle prime file sembrano apprezzare. Emozionante il momento in ricordo dello scomparso Luca Bergia.
Non appena sul palco salgono i Motorpsycho il livello si impenna. Sarà che l’ambiente circostante ricorda un fiordo, sarà per il calore del pubblico, sta di fatto che il trio norvegese appare sin da subito a suo agio. Per un’ora e mezza il power trio di Trondheim sciorina un set fatto di brani tratti prevalentemente dai singoli in cui indie-rock, psichedelia, stoner e leggerezze pop vengono mischiate e dosate con maestria. C’è solo qualche sporadico calo di tensione, ma il concerto rimane sontuoso con due momenti-clou: la lunga e travolgente jam lisergica Mountain e il remake potente e riuscitissimo di Rock Bottom degli UFO. Quando è il momento dei Kula Shaker si volge verso il tramonto ma il sole è ancora alto nel cielo, a tratti abbagliante. In formazione originale, con il redivivo Jay Darlington all’organo, il quartetto inglese ha intenzione di non fare prigionieri e l’attacco con Hey Dude ne dà ampia dimostrazione. Da lì in avanti Mills e compagni si muovono tra episodi tiratissimi, brani dal sapore oriental-misticheggiante, ballate alternate a pezzi ballabili, aromi late-60’s/early 70’s in cui l’hammond di Jay alimentato dal Leslie gioca un ruolo rilevante. Il mix di canzoni vecchie e nuove è coinvolgente, i classici di “K” e le potenziali hit di “Natural Magick” (dall’arrembante Gaslighting ad Idontwannapaymytaxes passando per la title-track) si fondono magicamente. E quando il sole declina dietro i monti della Sila, Govinda - con il suo mix di spiritualità indiana e singalong del pubblico – risulta essere la chiusura ideale di un concerto strepitoso e di una giornata perfettamente riuscita. Roberto Calabrò
The Black Heart Procession
Moulien Club, San Nicola la Strada (CE), 1 agosto 2024
Ce la siamo sudata. E continueremo a farlo. Fuori Napoli, in quelli che una volta erano paesotti di campagna (ma che ormai sono città a tutti gli effetti) che avevano pure una loro certa nobiltà (nulla a che fare con i nobili della capitale, ma comunque ci tenevano a fare la loro bella figura), accanto a dignitosi e pigramente solenni palazzi si trovano i resti di masserie che si riconoscono per i loro grandi portali e i massicci muri in pietra di tufo. Una volta davano affaccio su grandi corti che, a loro volta, si affacciavano sulle campagne. Di tutto questo rimane, sparpagliato qua e là, qualche facciata che sa si desueto, incastrata (più che incastonata) tra palazzi che hanno letteralmente mangiato ed eroso lo spazio contadino o, in qualche caso, di qualche operosa fabbrica, spazi invasi e sopraffatti da una urbanità inesausta eppure da sempre esaurita. Il passaggio dalla pietra al cemento e dall’orizzontalità alla verticalità degli apatici e compressi condomini si è svolto abbastanza rapidamente, ma il territorio (che – è bene ricordarlo – è fatto dagli uomini) conserva orgoglioso e silente le sue cicatrici.
È in un posto del genere, mi pare, che – non si sa come – sono andati a cacciarsi i The Black Heart Procession il primo agosto per un concerto a suo modo memorabile. Memorabile secondo un tipo di memoria, di percezione del tempo, delle storie, dei luoghi e – soprattutto – degli uomini che ha un qualcosa di desueto, profondamente radicato in una visione del mondo e della musica che potremmo definire “romantica”, che attinge la sua forza dalla polvere impastata al sudore, fatta di cuori feriti che tornano sempre sugli stessi desolati posti, che va avanti a forza di fallimenti. Sudore tanto, tantissimo. A un certo punto il cantante ha sbuffato con un ghigno tra l’ironico e il rassegnato “sto cazzo di caldo”. Eh sì. Un “fucking hot” che ci assale da giorni e se uno fosse andato al concerto per distrarsi un po’ sarebbe (come di fatto è accaduto) caduto dalla padella alla brace. Anche i condizionatori, beffardi, facevano mostra di una spia che non è mai scesa sotto i 30. Ma che si ne frega. Questa è la nostra vita adesso e altra non ne abbiamo. La location è letteralmente (con tanto di scritta) una sala da ballo, in cui si susseguono – a quanto pare – eventi i più disparati. Appesi ai muri stavano locandine di serate per la parrocchia e saggi di pianoforte. La grande, ma non grandissima sala, sembra un mix tra una vecchia discoteca e un salone del castello delle cerimonie nella sua versione basic, con tanto di lampadari dorati a metà strada tra alberi di Natale e fontane cascanti. Il pubblico, fortunatamente abbastanza numeroso, avrà preso il posto occupato in altre serate da settantenni intenti a ballare il liscio o, in qualche pomeriggio, di bambine svogliate alle prese con le lezioni di danza. Ci siamo persi tra “Paris, Texas” e “Non è un paese per vecchi”, in un mondo imperfetto, ma è il nostro mondo. Altri non ne abbiamo. L’imperfezione è quello che abbiamo, quello che siamo e ci conviene giocarcela bene. Non saranno impeccabili e perfetti come Taylor Swift e non faranno salire il PIL del loro paese, ma i The Black Heart Procession hanno qualcosa che li rende speciali e rende speciale il rock che fanno. Dentro c’è la vita, una vita in cui la maggior parte di noi suda, caccia fuori sali e tossine. Pure, in alcuni momenti, un poco gradevole tanfo. Tant’è. Musica e sudore e tanto, tanto cuore, senza fronzoli, come le canzoni e il suono, tutta sostanza. Ballate degne del vecchio Nick Cave per un rock bastardo eppure dalla forte identità, attraversando il deserto emozionale e sonoro che passa tra Caleixo e Thin White Rope. Le condizioni non erano certo ottimali ma i quattro musicisti si sono buttati a capofitto nel loro ruolo con mestiere facendo da cassa di risonanza, con la loro musica, a emozioni e pensieri: c’era chi cantava i pezzi a memoria, chi ballava i lenti incuranti della pelle madida, chi ballava da solo, chi non ha perso una nota del concerto, chi girovagava per la sala col ventaglio, chi chiacchierava e beveva birra (il tastierista ha pensato bene di sostituirla con una bottiglia di whisky), chi non vedeva l’ora che finisse per uscire al fresco (il che è tutto dire)… Ognuno con la sua storia, per un paio d’ora tutte assieme. Quante storie, tutte diverse, di cui le canzoni sono state una cassa di risonanza, toccando corde che spesso preferiamo nascondere o evitare ma con cui dobbiamo fare i conti. Siamo animali che sudano, ma cavolo, ne vale proprio la pena. Girolamo Dal Maso
Umbria Jazz 2024
Perugia, vari luoghi, 12-21 luglio 2024
Dopo il periodo di crisi dovuto alla pandemia Covid-19, che ha visto anche un’edizione annullata, Umbria Jazz anno per anno ha ripreso sempre più a crescere, arrivando a ribadire gli antichi fasti. I numeri dell’edizione 2024 sono impressionanti, per presenze e incassi, anche grazie a una nutrita schiera di artisti pop, rock e affini (quasi sempre di qualità) che hanno attirato migliaia di fan. Al concerto di Lenny Kravitz all’Arena Santa Giuliana erano presenti oltre dodicimila paganti: una festa, come lo sono state le performance di altri musicisti popolari tipo Vinicio Capossela, Raye, Cha Wa, Lizz Wright, Toto, Laufey, Nile Rodgers & Chic, Veronica Swift e Djavan. Fra questi, spendiamo due righe solo per la cantante del Mali Fatoumata Diawara che col suo canto agile, gagliardo e cantilenante, che si rifà ampiamente alle tradizioni wassoulou della sua terra d’origine introducendo al contempo elementi occidentali, testimonia ex post il legame fra il canto africano e quello afro-americano jazzistico.
A parte le attrazioni popolari, Umbria Jazz è naturalmente strapiena di jazz, che v
Alessandro “Asso” Stefana
Sala Assoli (Napoli), 6 Novembre 2024
Non so quanto di mestiere ci sia, ma uno degli aneddoti che si possono raccontare del primo concerto da solo di Alessandro “Asso” Stefana a Napoli è il suo candido stupore nei confronti di un pubblico che conosceva (e dava segno di apprezzare) un gruppo a lui molto caro e – sempre secondo lui – meno noto di quanto meriterebbe, la Penguin Cafe (con e senza) Orchestra. Ecco, partirei da questo candore, come una semplicità fanciulla, che caratterizza la musica e la persona di “Asso”, un senso di pudore e di rispetto che si percepisce dalla voce che introduce e commenta i brani, come fosse uno studente che deve discutere la sua tesa e sa (perché ha studiato parecchio) che ci sarebbero molte altre cose da dire e che, comunque, sono cose che parlano da sole se solo le si sa ascoltare. In effetti, la sua voce un po’ tremolante e l’incedere un po’ spezzato, con qualche gustosa sgrammaticatura, non sono il suo mezzo per comunicare. È la chitarra (con una piccola parentesi all’organetto) non solo il suo strumento ma anche la sua lingua. Una chitarra vagabonda ma assolutamente consapevole di sé. Nel suono che ci cava fuori, nel fingerpicking, nei giri armonici si avverte che c’è tutto se stesso e tutto quanto ha esplorato, con particolare attenzione al blues americano, tanto è vero che nelle canzoni la voce che si sente è quella di Roscoe Holbcomb, un minatore degli Appalachi (e chi sa un po’ di musica folk americana sa quanto questa provenienza sia decisiva) che cantava la sera dopo il lavoro. Una storia di marginalità che Stefana fa risuonare in tutto il suo splendore, con una dignità umile ed inesausta, come quella della canzone Moonshiner che, nonostante il titolo romantico, ha a che fare con le distillerie clandestine del proibizionismo. La proposta di Stefana (che è anche una presentazione del suo recente disco solista) si inserisce in una manifestazione (Epifonie) curata da Marco Stangherlin che fa del cuore di Napoli (in questo caso la Sala Assoli, impiantata nei Quartieri Spagnoli), ormai assaltata e trasformata dal flusso turistico, un luogo dove esplorare suoni e musiche fuori dai classici giri, con una attenzione alla sensibilità, alla qualità e alla ricerca, come una decisiva – per chi volesse – nota ai margini dell’attuale imperante overtourism. Girolamo Dal Maso
Le Guess Who?
Utrecht (NL), varie location 07/10 novembre 2024
Veramente arduo riportare in maniera sintetica ed asciutta i contenuti di un festival che da anni recita la parte del leone negli ambiti dell’avanguardia popolare occidentale e delle musiche dal globo tutte. Assieme all’americano Big Ears, l’olandese Le Guess Who? è uno dei nuovi manifesti alla diversità in musica. Con artisti provenienti da ben 66 paesi – di rigore ogni anno fronteggiare le autorità per ottenere i visti di alcuni musicisti – la rassegna sposa tanto le periferie che i centri nevralgici delle culture del nord e del sud del mondo. Tralasciando le ovvie sovrapposizioni che condizionano le scelte quotidiane, in quattro giorni l’offerta esponenziale rimane da brividi. Evitando accuratamente di citare i pezzi forti delle singole serate, lasciando da parte un approccio didascalico che ha ben poco a che fare con la natura del festival, di getto vi riporto impressioni e numeri sensazionali.
Se la nostalgia è ancora un sentimento valido, la memoria è messa a dura prova dal breve discorso di Brendan Canty prima dell’esibizione di James Brandon Lewis coi Messthetics. Torno indietro di quasi un quarto di secolo all’ultima esibizione dei Fugazi in terra romana: rivedere Canty e Joe Lally – che mi permetterei di definire “gli Sly & Robbie del post punk americano” – in questo contesto la dice lunga delle loro lungimiranti scelte. Con Anthony Pirog alla chitarra e Lewis alle ance il risultato è strabiliante, e ancora mi chiedo come la nuova direzione artistica di casa Impulse ! abbia trovato spunti commestibili in una musica che rimane così cocciutamente spigolosa. Da un surrogato di espressionismo dopo-punk ed ovvi trascorsi free jazz, il risultato che otteniamo è un nervoso free-funk che deve tanto alla no wave newyorkese quanto alle scorribande di James Blood Ulmer e della Decoding Sosciety di Ronald Shannon Jackson.
Di pari intensità è il contributo del batterista sudafricano Asher Gamedze, che anziché presentarsi con la formazione titolare dell’ultimo album su International Anthem ci regala la prima europea del quintetto ‘egiziano’ con – tra gli altri - Maurice Louca ai synth modulari e uno splendido Alan Bishop nel ruolo inedito di sassofonista (e in quello più logico di crooner). Jazz-rock modale con influssi immancabilmente medio-orientali per un teatro contemporaneo.
Tante le voci femminili presenti grazie alla curatela di Arooj Aftab, che ruba la scena con una delle performance capitali di tutta la manifestazione. Non fosse di per sé ammaliante, la sua proposta si arricchisce anche di autentici momenti di stand up comedy (non manca tra l’altro la pittoresca offerta di alcuni shot di rum agli astanti delle prime file). Impressionato dal fitto lavoro all’acustica del suo chitarrista, realizzo a sole 24 ore di distanza che si tratta di Gyan Riley, figlio d’arte di Terry. Se la definizione di “art pop globale” ha senso, quanto proposto dalla Aftab si ascrive di diritto alla categoria. C’è spazio nel suo set anche ad una comparsata di Aja Monet, poetessa in forte ascesa di stanza a New York. Anche la sua performance ha del commovente. Seguendo magistralmente la tradizione delle varie Sarah Webster Fabio e Jayne Cortez, la sua black poetry è un’indagine senza censure sulle brutture del mondo occidentale e sulla speranza riposta nei giovani. Soulful jazz e rime d’autore in cima ad una delle visioni più alte dell’intero festival.
La cordata afro-americana è ulteriormente rappresentata da uno strepitoso Kahil El Zabar. Cresciuto sotto l’ala protettrice dell’AACM, il percussionista di Chicago nell’ultimo decennio ha conosciuto una letterale seconda giovinezza travalicando con i suoi Ethnic Heritage Ensemble i confini dello spiritual jazz per affacciarsi allo sfavillante mondo della club music. Il live è portentoso ed è esattamente la declinazione in salsa tribale e proto hip-hop degli insegnamenti dei grandi associati come Lester Bowie & Co.
Un'altra leggenda dell’AACM si esibisce in solo ed in duo (col nipote alla chitarra). Di Wadada Leo Smith colgo proprio questa seconda performance in una delle cattedrali generosamente associate alla planimetria del festival. Un set difficile, in cui la tromba duetta con la sei corde elettrificata in figure per nulla accondiscendenti, ad un passo dall’improvvisazione più radicale. Sentimenti contrastanti alla fine del gioco.
Tra le rivelazioni della kermesse metto senz’altro Dawuna, che con la giusta dose di coraggio definirei un Curtis Mayfiled del dopo-bomba. Tolti gli arrangiamenti ingombranti, gli archi e i fiati, la sua musica scheletrica è fatta da strati di nastri analogici e acquerelli ambient, ridefinendo in toto l’estetica della black music nella scabrosa urgenza del do it yourself.
Non solo band o formazioni allargate in parata, ma anche numerosi solisti. E tra i momenti più piacevoli del festival non faccio fatica a ricordare il portoghese Rafael Toral, che esordisce con familiari giri di chitarra che da Robbie Basho portano direttamente a David Grubbs (l’uomo che lo ha rilanciato) per poi perdersi in un oceano di suono generato dal metodologico uso dei pedali. A tratti sembra di ascoltare un pump organ altre una distesa infiniti di celestiali droni. Più che minimalismo è massimalismo: Rafael Toral si prende di diritto una fetta di responsabilità nella ricreazione del termine.
Per la serie shock auditivo – mai mancato nella nomenclatura della rassegna – si iscrivono alla speciale categoria The Body e Dis Fig. Non esattamente la mia tazza di tè (soprattutto di questi tempi) ma per nulla trascurabile il loro wall of sound che scuote le coscienze facendo perno su post-metal, cultura industriale ed elettronica radicale.
La mia idea di profondità e presenza di suono è forse oggi rappresentata dai veterani Creation Rebel, recentemente ricostituitisi e depositari di alcune delle più memorabili pagine del catalogo On U Sound. Con re Mida Adrian Sherwood dietro al banco di regia la botta è ancora più grossa: dub is the place, dub is the space.
Allergico per natura alle classifiche, preferisco immaginare un podio virtuale occupato di diritto da Meshell Ndgeocello, che con una formazione da urlo cuce soul music futuribile pregna di riferimenti stilistici che da New Orleans arrivano all’hip-hop più organico dei ’90 passando per la Motorcity.
Per rimanere nell’ambito delle eccellenze e confermare la natura beatamente schizofrenica del festival annovero tra i protagonisti di questa edizione i Water Damage, puro surrogato di muscoloso post-punk statunitense condensato in un monumentale corpo minimalista. In soldoni, lo storico incontro tra Tony Conrad ed i Faust sonorizzato dagli Swans (guarda caso c’è l’ex-affiliato Thor Harris ad una delle due batterie). Menzione d’obbligo per l’ospite d’eccezione Patrick Shiroishi, geniale sassofonista capace di sguazzare nei più svariati contesti, dal post-metal all’ambient-jazz.
Chiudo con la miracolosa apparizione di un ritrovato Asa Chang con il fido campionatore casalingo Junray. Due giovani polistrumentisti con lui a ricordarci l’unicità e la magia di una proposta che su queste pagine abbiamo – giustamente – incensato in tempi non sospetti. Per quest’anno è tutto. A risentirci. Luca Collepiccolo
“Festival Aperto”
Reggio Emilia, 21 settembre, 12 ottobre, 8 novembre 2024
La sedicesima edizione della rassegna di arti contemporanee del capoluogo emiliano, intitolata quest'anno in modo essenziale e significativo Articolo 11, si è svolta tra concerti, teatro, danza e installazioni, animando gli spazi teatrali di Reggio Emilia per due mesi. Il festival si è aperto con Flamenco Criollo, un progetto del pianista di Santiago de Cuba, Aruán Ortiz, da anni residente a New York. Per l’occasione, Ortiz ha riunito un ensemble di musicisti provenienti da Marocco, Palestina, Cuba, Stati Uniti e Spagna. Si è cominciato con un blues africano dal sapore di jazz spirituale alla maniera di Pharoah Sanders; il gruppo includeva pianoforte, Rhodes, oud, violoncello, percussioni e voci. L’atmosfera oscillava tra un aggiornamento della lezione degli Irakere di Chucho Valdés e una versione più soft degli esperimenti ritmici di Steve Coleman con i Grupo AfroCuba De Matanzas. Le voci arabe su percussioni caraibiche hanno incarnato l’idea di una sintesi tra culture diverse, una proposta affascinante e necessaria, anche se a tratti l’esecuzione risultava un po' artificiosa. Ad esempio, un Gordon Grdina con l'oud ha saputo raggiungere esiti più maturi e coinvolgenti. Il percorso musicale si è sviluppato tra Cuba, Africa, musica araba e flamenco, evidenziando la compenetrazione dei generi e l’intersezione delle radici. La dimensione teatrale del flamenco ha messo in risalto le affinità nella pronuncia musicale con il vicino mondo arabo. Tuttavia, in alcuni momenti emergeva (forse troppo) il virtuosismo degli interpreti, tutti eccezionali: ma chi scrive non è riuscito a percepire un filo narrativo solido che collegasse questi momenti, che sembravano più simili a quadri isolati di una mostra. Il pubblico ha applaudito convinto, e con un filo di snobismo mi è venuto da pensare che fosse prevedibile: il pubblico vuole essere intrattenuto. In questi sketch non si avverte né caos né coerenza; si pesca dal jazz per la complessità degli accenti, ma il risultato è una fusione a freddo di mondi. Quando gli interpreti aprono le finestre alle strade polverose di Santiago, il ritmo cambia marcia e finalmente arriva una rumba irresistibile. Le cinque donne in scena — tre cantanti e due danzatrici — sanno catturare l’audience con grande maestria, e ci sono momenti di travolgente dialogo di mani, menti e corpi. Alla fine, però, resta l’impressione di uno spettacolo più pop di quanto ci si aspettasse, non sempre nel senso migliore del termine (e chi scrive non ha nulla contro il pop). Rispetto a lavori più strutturati, come l'ottimo Inside Rhythmic Falls del 2020, pubblicato dalla raffinata Intakt con Andrew Cyrille alla batteria, questo progetto non ha convinto del tutto. Dopo il debutto ad Amsterdam nel 2021, il gruppo non si riuniva da allora: evidente l’entusiasmo nel ritrovarsi e la generosità verso il pubblico, ma la performance resta da rivedere.
La mia personale esplorazione nel ricco programma del festival è proseguita il 12 ottobre con Nuvolario di OHT, accompagnato da Sentieri Selvaggi alla Cavallerizza. Qui, l'incontro tra una messinscena minimale e asciutta e la proiezione di frasi letterarie a tema nuvole si è fuso con l’esecuzione di Music For 18 Musicians di Steve Reich. Chi scrive non aveva mai avuto l’opportunità di ascoltare dal vivo questa straordinaria composizione e, come alcuni amici mi hanno riferito all'uscita, l'inizio è stato commovente. Un gamelan quasi elettronico, dal respiro biologico, con ondate di marimba e pianoforte, un cuore novecentesco che pulsa regolare e sfasato; una formula semplice e al contempo intricata, sfuggente eppure a portata di mano, umana, troppo umana. L’influenza di un brano del genere su molta della musica odierna è incalcolabile: si pensi ai Battles o ai Ronin di Nik Bärtsch. Quanto è durato il pezzo? Difficile dirlo, ci si perde in questo delicato vortice che solletica i sensi. A un certo punto ci si accorge che i pianoforti sono quattro, mentre una nebbia di nuvole avvolge ormai lo schermo e la platea. Carlo Boccadoro, dopo un tempo indefinito, entra con le maracas; mille variazioni minime ma cruciali sul tema, come se scomponesse una cellula e ne osservasse ogni rifrazione. Resta una malinconia sottile alla fine, il battito degli archi, una vibrazione non minacciosa.
L'8 novembre, infine, è stata la volta di un omaggio ad Amelia Rosselli al Teatro Cavallerizza, uno spazio che meriterebbe più attenzione. Per la prima volta si sono incontrati la cantante Camilla Battaglia — già invitata in altre occasioni in duo con Luca Perciballi nel progetto Public Speaking — e il pianista americano Matt Mitchell, ben noto agli appassionati di avant-jazz. “Tu non sai chi sei e cosa cerchi/Non so cercarti e tu non sai chi sei e cosa cerchi.” Il pianismo angolare di Mitchell, straordinario nel trovare spigoli dove solo il suo talento riesce a illuminare, si intreccia come edera alla voce cristallina e personale della Battaglia. Sono canzoni peculiari, dove la decostruzione del tessuto lirico e la ripetizione di singole parole e versi assumono un ruolo centrale, “in un trasporto che tu non sempre puoi.” In uno dei momenti più riusciti, la voce si fa uccello e spicca il volo, mentre sciami di note allusive si levano dalle dita di Mitchell. In alcune di queste canzoni sospese e dilatate, la Battaglia usa anche l’elettronica tramite SuperCollider, mentre Mitchell esplora territori più free e astratti, mantenendo sempre alta la qualità narrativa e musicale. A tratti, il pensiero corre a cantanti come Patty Waters o Sara Serpa, con il loro modo di sconfinare dalla forma-canzone per poi rientrarvi. Come ha spiegato la stessa Battaglia, l’idea del progetto è celebrare l’importanza di un’opera poetica come La libellula, che parla di rigore e libertà, e rendere omaggio al legame tra musica e parole, centrale per Amelia Rosselli. “C’è molto sapere di non sapere in queste poesie, un’attitudine che ci arriva da lontano e che dobbiamo mantenere viva,” ricorda Camilla. Il tono generale è asciutto, intenso, riflessivo; il pubblico, purtroppo, è esiguo, ma quando due spettatori abbandonano la sala durante il set, lo interpreto come un buon segno. Mentre Mitchell continua imperterrito a accumulare cluster e digressioni imprevedibili, la Battaglia insiste sulla ripetizione di versi e parole, mostrando un’eccellente tecnica. Peccato solo che in questo duo il talento straordinario dei due interpreti non sempre trovi una forza comunicativa altrettanto potente. Il Festival Aperto si concluderà a fine novembre; per gli ultimi spettacoli, potete consultare il programma completo su https://www.iteatri.re.it/tipo/aperto/ Nazim Comunale
JazzONZE+
Lausanne (CH), Salle Paderewski - BCV Concert Hall - Jumeaux Jazz Club, 29 ottobre/3 novembre 2024
Pronti via, boom boom: la trentasettesima edizione del festival jazz losannese è partita di slancio, con la doppia esibizione nella stessa serata di martedì 29 dell’Avishai Cohen Trio. Casino de Montbenon due volte sold out, per il contrabbassista israeliano trapiantatosi diciottenne con successo a New York, facitore di musiche granitiche, proposte sempre con il giusto vigore e più di un tratto lirico, di solito recuperato dalle proprie radici. A onor del vero, non c’è molto di meglio nel catalogo attuale del mainstream e per quanto lungo la carriera i suoi concetti musicali non abbiano subito grandi sommovimenti, vederlo agire in presa diretta rimane esperienza piuttosto appagante. Nell’occasione c’era da promuovere “Brightlight”, pubblicato appena qualche giorno prima, e da lì sono state pescate varie tracce, senza rinunciare ad antiche hit come Remembering. In formazione adesso ci sono due giovani speranze, il pianista Guy Moskovic e la batterista Roni Kaspi, che non sono male, pur se al momento Shai Maestro si fa ancora rimpiangere. Il vicino di poltrona, che aveva visto anche il primo set, asseriva che sostanzialmente i due live si erano equivalsi, con qualche piccola modifica nella scaletta e un po’ di fatica in più a dialogare nel secondo: non avevamo motivo per non credergli. Il giorno appresso siamo andati alla BCV Concert Hall a testare la tenuta dal vivo di Anat Cohen, che su disco di solito rende bene. Per chi ama il gossip segnaliamo che lei è la sorella dell’altro celebre Avishai, il trombettista, mentre per chi si intende di musica risulterà abbastanza inutile dire che da qualche tempo ha formato con Vitor Gonçalves (pianoforte, fisarmonica, Rhodes), Tal Mashiach (contrabbasso), James Shipp (vibrafono, percussioni) un gruppo denominato Quartetinho, già responsabile nel 2022 di un omonimo album. Sorta di pifferaia magica, la Cohen ha soffiato nel clarinetto (e in un trittico di altri brani al clarone, preso in prestito in loco) con indubbia classe e ci ha guidato alla scoperta di una world-jazz music, la sua, che a un certo rigore formale barocco accoppia coloriture e vibrazioni affittate dal Sudamerica, Brasile in testa. Gonçalves ha dimostrato di saperci fare, tenendo in piedi l’intera band con un certo slancio. Al giovedì i flyer messi in circolazione due mesi prima annunciavano in cartellone, in orari non coincidenti, tanto Kamasi Washington quanto Meshell Ndegeocello, ma lo show del primo è stato riportato al 31 marzo 2025 ai Docks, mese che lo vedrà tornare in Europa per un lungo tour che toccherà anche l’Italia in aprile (22 Milano, 23 Roma, 24 Bologna). Non che lo attendessimo come un messia, però un po’ di curiosità c’era. Ci siamo dunque dovuti accontentare della Ndegeocello e della sua corposa formazione, un sestetto comprendente Justin Hicks (voce), Jake Sherman (organo), Jebin Bruni (tastiere), Christopher Bruce (chitarra), Kyle Miles (basso) e il batterista Abraham Rounds. Il menù non poteva che prevedere larghi scorci dal recente “No More Water: The Gospel Of James Baldwin”, con tanto di didascalie proiettate sul fondo del palco, e così è stato. Per quanto non siano mancati passaggi emotivamente significativi, nell’insieme il suo live è sembrato poco brillante e segnato dalla staticità, con la stessa leader più propensa a declamare seduta sullo sgabello che a imbracciare il suo basso elettrico. In estrema sintesi, non è stata una serata all’altezza delle aspettative, ma può capitare anche ai migliori di non essere in grande forma. Speravamo di rifarci la giornata seguente: siamo stati invece ulteriormente delusi, colpa del cartello appeso alla porta della BCV Concert Hall che annunciava l’annullamento, all’ultimo, del concerto della vocalist Cyrille Aimée e del suo quartetto per ragioni di salute dell’artista. Peccato, perché la francese, costruitasi da sé pezzo a pezzo partendo letteralmente dalla strada, possiede uno stile solido e preciso, che sta dentro la tradizione ma riesce anche a vivacizzarla. Nel tentativo di consolarsi, cambio radicale di genere e di location in tarda serata, con il tedesco Moses Yoofee allo Jumeaux Jazz Club. Produttore e tastierista quadrato e convinto, ha in gestione un power trio – completato da Roman Klobe-Barangā (basso elettrico) e Noah Fuerbringer (batteria) – che lo segue e talvolta lo anticipa convinto. Il set che ne è risultato surfa con abilità sulle onde di un electro-jazz sicuramente oggi di tendenza, ma lo fa con una durezza e spigolosità inusuali, senza perdersi in romanticherie e stasi fusion. Sprofondato in ritmi debitori di drum’n’bass e hip hop, Fuerbringer è un rombo di tuono efficace. Dopo un’ora e mezza il foltissimo pubblico non ne aveva ancora abbastanza, a conferma che Yoofee e i suoi erano riusciti a centrare l’obiettivo. Il sabato 2 novembre si annunciava pieno e cominciava a metà pomeriggio nell’auditorium dell’EJMA, con la giornalista Elisabeth Stoudmann (vedi all’antica voce “Vibrations”) e dal chitarrista e vocalist ghanese Kyekyeku, leader dei Super Opong Stars, a intrattenerci con la seconda parte dell’esperienza d’ascolto “Jazz&Afrique”, patrocinata dall’associazione Jazz History. Se nel 2023 il nesso era stato sviluppato centrando l’attenzione sul West-Africa, stavolta i due conduttori, al solito aiutati dalla proiezione di testi e immagini alle loro spalle, hanno giocato a ping pong. Una lanciando in orbita brani di jazz sudafricano, l’altro rispondendo con esempi di ethio-jazz e affini, per un’ora e venti abbondante di ottima musica e disquisizioni mai accademiche. In serata, ritorno alla Salle Paderewski per un doppio spettacolo. Ad aprire, il Louis Matute Large Ensemble, progetto allargato rispetto al quartetto che il giovane chitarrista svizzero aveva proposto nel 2021. Da un certo punto di vista Matute dimostra di essere cresciuto non poco, ma dall’altro il sestetto che dirige, comprendente anche il tenorsassofonista Léon Phal, non pare ancora muoversi in una direzione certa e sovente il gruppo procede in realtà a tre o a due, perdendo il vantaggio e la forza del collettivo. L’invito a salire in scena rivolto alla cantante francese Gabi Hartmann, per quattro brani di sapore latin e brasilero, non ha fatto altro che aumentare la dispersione delle idee. Insomma, la qualità ci sarebbe anche, ma il Matute Large Ensemble farebbe bene a individuare un bersaglio stilistico preciso al quale mirare. Dopo un cambio di palco laborioso e qualche problemino audio all’inizio della performance, è stata la volta della stella di giornata, quel Christian Scott che da un po’ si fa chiamare Chief Xian aTunde Adjuah. Dato che nelle sue vene scorre il sangue di New Orleans (è nipote di Donald Harrison Jr.), si è proposto con l’orgoglio e la forza che ne hanno sempre contraddistinto l’agire. Nella prima parte del live ha suonato un ibrido di sua progettazione, che unisce in sé il suono dell’arpa, della kora e dello n’goni per accompagnarsi al canto. Brani affrontati a volumi sostenuti, tanto che qualcuno tra il pubblico si è lamentato con vigore. “Lasciate ai fonici il loro mestiere” ha prontamente ribattuto il Capo, proseguendo come se nulla fosse. Anche le due trombe in seguito impiegate, rilucenti e strane nel design (una con la campana un po’ all’insù in stile Gillespie) portavano la sua firma, perché lui controlla ogni fase della filiera. Si va così dal produttore al consumatore senza intermediari, aggrediti da una generosa cascata di note dall’inizio alla fine per due ore tonde di fila, che non è poco di questi tempi. Ci sono ricordi del Davis elettrico nelle trame proposte da Chief Adjuah, a cominciare dalle lunghe tirate che permette al resto della band, in particolare al chitarrista Cecil Alexander e al tuttofare Morgan Guerine (sassofoni, EWI, tastiere, percussioni elettroniche), e dalle richieste di spingere continuamente rivolte a Max Mucha (contrabbasso) e al roboante batterista Elé Howell. La sua stretch music, con quel tirare dentro pulsioni afro, hard-bop infuocato, strappi funk, qualche barlume di spiritual jazz e spasmi electro dati in pasto al pubblico con fragore, non ha convinto proprio tutti, tanto che dopo un’ora qualcuno se n’è andato. La gran parte del teatro ne è stata comunque conquistata e alla fine gli ha tributato caldi applausi e urla di approvazione, riportandolo sul palco ben due volte. Chief Adjuah è così, un muscolare e un agonista che ci mette tutta la forza che ha (e dal vivo ne ha davvero tanta). Prendere o lasciare. Piercarlo Poggio
Uzeda
Kingston Live, San Nicola La Strada CE, 1 novembre 2024
Dopo qualche anno torno a sentire gli Uzeda. La location mi ha all’inizio un po’ sorpreso, un simpatico locale rintanato negli spazi chiusi e aperti di un vecchio palazzo, con un monumentale cereo prima dell’ingresso e i classici muri e volte in tufo all’interno, ma – almeno per le mie aspettative – decisamente compresso per la musica potente degli Uzedi. Mi domandavo, ad esempio, come avrebbe fatto a suonare, lui che non sta fermo un attimo, Agostino in quel mini palco tutto concentrato. Di pogare non se parlava proprio. E le grosse mura in tufo avrebbero retto l’urlo dei decibel? Non è che tutto sarebbe scoppiato come una pentola a pressione? In effetti tutto è scoppiato, esploso, ma in tutt’altro senso. La scaletta del concerto è ormai collaudata (niente nuovi dischi da promuovere) e tutto è filato liscio. Liscio come una colata di lava. La massa sonora che i quattro catanesi hanno saputo creare e muovere come un flusso è stata propria una colata, non quella degli altoforni ma quella dei vulcani che fuoriesce da dentro la terra e sulla terra scorre fino a raggiungere il mare. Qualcosa di fluido, insieme solido e liquido, mobile e compatto nello stesso tempo. Lo spazio ridotto ha esaltato al massimo la potenza di un suono che ha riempito ogni più piccolo anfratto, ogni screpolatura, infilandosi dentro le orecchie (qualcuno aveva degli opportuni tappi) e dentro tutto il corpo e la mente. Una botta prolungata di energia che ha esaltato il “pieno” della musica degli Uzeda. Non giocano al risparmio ma danno tutto e questo tutto è denso di tanta roba, non solo di riff, di urli, di ritmi travolgenti, di suono ma anche di senso, di vita, di comunicazione. Ciò che mi colpisce è la positività di questa energia, come le tossine negative della rabbia fossero tutte transustanziate da una carica positiva, come un abbraccio di vita, una vita forte, densa, magari non facile ma bella. È stato un bel concerto perché ha suonato la bellezza della vita, quella bellezza che spesso si rintana in luoghi appartati, fuori dai luoghi comuni, dal senso comune, come una luce impastata nel buio ma che non viene a patto con esso. Una forma di resistenza, per non cedere ai mali e ai malesseri di questo mondo e di tutti i mondi, per non farsi contagiare dai virus che ci vorrebbero tutti uguali a difendere la propria carcassa. Un concerto degli Uzeda (molto meglio dal vivo che su disco – anche se i loro dischi sono ottimi) non dimostra nulla ma tira fuori e fa tirar fuori quelle energie positive che troppo spesso dimentichiamo o deleghiamo e invece fanno parte di noi, ce l’abbiamo dentro. Gli Uzeda lo fanno da musicisti, da artisti. Sta a ognuno vedere come può cavar fuori la lava che ha dentro, il fuoco compresso che è vita e nulla può trattenere se non la crosta che ci costruiamo sopra. Sono quelle sacche di resistenza da cui ogni tanto sfugge qualcosa. Magari qualcosa ustiona o colpisce, ma ciò che è essenziale resiste. Sempre. Forse siamo così mosci perché abbiamo perso di vista questo, quello che siamo, quello che dobbiamo cercare di essere. Questo mi pare trasmetta un concerto degli Uzeda. Ce n’era bisogno. Loro resistono, e infatti passano gli anni e non perdono un pelo della loro carica. Dei vulcani in azione. Girolamo Dal Maso
Pierre Bastien / Sug:gestiva
Roma, Ex Cartiera Latina, 3 novembre 2024
D’improvviso un’idea, un parallelo: la musica di Pierre Bastien sta alla ricerca metodologica del suono e delle fonti come il cinema di David Cronenberg al maniacale utilizzo del corpo. Venerato negli ambiti dell’elettronica (la pubblicazione del disco culto “Mecanoid” per la Rephlex di Aphex Twin) e della musica avant (dal debutto per l’oasi rock in opposition Recommended alla collaborazione coi Tomaga), il musicista parigino non finisce mai di stupire. Prova e riprova ne è questo intimo live all’interno di un padiglione dell’Ex Cartiera Latina nel suggestivo parco dell’Appia Antica, location che amplifica lo spirito cinematico della performance, considerato che Bastien trasmette in diretta su schermo il suo live (per assurdo sembra di rivedere il film sperimentale di Phill Niblock per Sun Ra), senza lesinare informazioni relativamente ai materiali utilizzati. Dei più bizzarri, invero: messi momentaneamente da parte i meccano, tra gli strumenti utilizzati si annoverano la classica pocket trumpet e una serie di congegni autocostruiti che stupiscono per funzionalità e struttura, persino una stampella viene riutilizzata con l’ausilio di corde in nylon, generando un suono prossimo a quello dello zither. Musica meccanica in cammino, diretta discendente di un sentire figlio della musique concrète ma non avversa a contaminazioni global e funzionali figure minimaliste. Sequenze eccitanti, rese ancora più avvincenti dall’introduzione di altri prototipi – come al culmine dell’esibizione – a testimonianza di un continuo indagare e interagire con fonti sia casalinghe che naturali. Un esempio solenne di spirito senza compromessi, smorzato solo dall’atto pubblico della condivisione. Maestro. Luca Collepiccolo
White Buffalo
Firenze, Viper Theatre, 25 ottobre 2024
Dopo aver visto decine di concerti nei club, negli stadi, nei teatri, nelle piazze e in ogni luogo immaginabile, e avendo raggiunto un’età quasi venerabile, pensavo sinceramente di non avere molte possibilità di emozionarmi ancora ad un concerto. E invece…
Venerdì 25 ottobre in una giornata piovosa trascorsa tra viaggi in treno, ombrelli rotti e traffico urbano, io e il mio esperto compagno di avventure Gianluca Gori ci avviciniamo finalmente al Viper Theatre di Firenze per assistere alla data di apertura del tour italiano dei White Buffalo (targato Bagana Music), la band di Jake Smith. Prima di esprimere qualsiasi riflessione o critica sul live dei White Buffalo, ci tengo a precisare che fino al 19 maggio 2023 questa band losangelina era per me un oggetto misterioso perso tra playlist online e recensioni fugaci. Ma quella giornata di maggio ebbi l'occasione di vederli e sentirli a Roma, al Circo Massimo, come gruppo di apertura di Bruce Springsteen. Il concerto, bagnato da una pioggia intensa e fastidiosa, aveva messo in mostra una performance letteralmente monumentale. Colpo di fulmine: da allora è iniziato il mio peregrinare per sentieri impervi tra notizie, registrazioni e streaming alla ricerca della musica dei White Buffalo, progetto musicale fondato dal cantautore Jake Smith nel 2002 a Los Angeles.
Il Viper è gremito, si chiacchiera, ci si saluta, si suda… e poi sul palco sale Jake, da solo con la sua chitarra. Il silenzio si fa palpabile, un vento caldo e potente travolge tutto con la sua voce profonda. L’apertura è di quelle che tolgono il respiro: Wish It Was True (contenuta nell’album Once Upon a Time in the West del 2012) lascia senza parole. Un brano enigmatico, potente, antico e attuale allo stesso tempo.
Nell’esibizione di questo piccolo branco di bufali bianchi si odono echi di Bob Dylan, per la loro abilità nel raccontare storie attraverso la musica; di Johnny Cash, per l’impatto emotivo e la profondità dei testi; di Neil Young, per l’approccio folk e rock e la capacità di evocare atmosfere magiche; e di Bruce Springsteen, per l’abilità nel creare ballate epiche e per la connessione con il pubblico che esse sono in grado di creare. Personalmente, alcune chicche che mi hanno particolarmente emozionato: Join the Murder, Oh Darling What Have I Done, The Whistler e la cover di Highwayman di Jimmy Webb. So, può sembrare tanto, forse troppo, ma oggi, con l'anagrafe che avanza e la voglia di musica autentica e sudata, i tre White Buffalo - Jake Smith alla voce e chitarra, lo straordinario Matt Lynott alla batteria e Christopher Alan Hoffee al basso e chitarra- rappresentano a loro modo il futuro di un’America smarrita, ferita e mai così lontana da se stessa. Per noi che abbiamo guardato al nuovo continente con passione e rassegnazione, amandone la vastità e le piccole cose, le contraddizioni e le certezze, oggi questa band che ha il coraggio di interpretare un classico come House of the Rising Sun senza risultare didascalica, riempie le nostre giornate con una colonna sonora che illumina il cammino verso ciò che ci attende.
Mentre la serata prende fuoco e i White Buffalo danno fondo a tutta la loro potenza, ci guardiamo attorno e ci rendiamo conto che in mezzo a barbe brizzolate, qualche chilo di troppo e volti maturi ci sono anche molti giovani che hanno scelto di abbandonare le strade sicure a quattro corsie per camminare tra i sassi e le sterpaglie della vita e le salite della musica no-mainstream. Guardo Gianluca e lo ringrazio per essere ancora qui, a camminare insieme e forse senza una direzione precisa. Ricordiamoci sempre però che non è la meta che conta ma il viaggio e lo percorre accanto a noi. Andrea Laurenzi
Michel Houellebecq al Festival “Radici” (anteprima)
Circolo dei lettori, Torino, 14 e 24-27 ottobre 2024
Al via questo weekend a Torino la seconda edizione del festival Radici. Il festival dell’identità (coltivata, negata, ritrovata): libri, musica e film per discutere, in tempi di cambiamenti spaventosi e repentini come quelli in cui ci troviamo a vivere, intorno al problema del rapporto con la nostra identità e dell’incontro con l’Altro. Insomma, i soliti spunti di riflessione triti e fumosi necessari per organizzare un festival, che sono però un’ottima scusa per portare nel capoluogo piemontese nomi del calibro di Irvine Welsh, Tiziano Scarpa, Arturo Brachetti, Alain De Benoist e Walter Siti. Lo scorso anno Torino aveva ospitato niente meno che Bret Easton Ellis, re indiscusso del minimalismo americano in uscita con Le schegge, romanzo da leggere con lo stereo acceso perché talmente infarcito di riferimenti ad album e brani degli anni Ottanta che ha generato un proliferare di playlist “da lettura” su Spotify (dalle 40 alle 120 tracce, verificare per credere). Quest’anno, il Circolo dei Lettori ha scelto come padrino del festival Michel Houellebecq, lo scrittore francese vivente più letto e tradotto nel mondo, che ha concesso, per l’anteprima di Radici, un’oretta scarsa di chiacchierata al pubblico torinese.
Si è trattato di un evento più unico che raro: Houellebecq non è solito prestarsi a incontri con i lettori, e il fatto che non avesse un libro in promozione rende la sua comparsata ancor più eccezionale, giustificando la lunga coda (i più intrepidi si sono appostati in via Bogino tre ore prima) per accaparrarsi i pochi posti disponibili in sala. Ha impressionato come uno scrittore dalla penna tanto decisa e lucida, avesse un tono così dimesso, monocorde, incespicante, ingarbugliandosi a volte nelle parole e altre volte riflettendo a lungo, attraverso silenzi e balbettii che ricordavano le apparizioni televisive di David Foster Wallace. Non c’era traccia della veemenza dei suoi protagonisti, né della violenza di certe sue affermazioni. Più che riflettere intorno al concetto di identità, l’incontro, mediato da Ottavia Casagrande, è parso quasi come un tentativo di farlo uscire allo scoperto, di rimuovere la maschera da écrivain maudit, di coglierlo in fallo su posizioni politiche e ideologiche che Houellebecq sostiene da cinquant’anni, come se non fosse uno degli autori notoriamente più controversi al mondo. Il tentativo è stato ovviamente disinnescato dalle risposte, snocciolate una in fila all’altra senza cadere nella trappola, senza battere ciglio, senza tentare (e come poteva essere altrimenti?) di schermirsi. D: Lei è un misogino? R: Mi definirei piuttosto come un macho. Se una donna piange, un misogino si arrabbia, un macho si intenerisce. D: A un anno di distanza dal 7 ottobre, lei è sempre un sostenitore di Israele? R: Certo. Se Israele smettesse di combattere verrebbe spazzata via. L’antisemitismo in Europa ha raggiunto livelli preoccupanti. E via di questo passo.
Houellebecq ha però dato qualche speranza ai suoi lettori. Diversamente da quanto annunciato dallo scrittore, Annientare potrebbe non essere il suo ultimo romanzo. In realtà, il memoir Qualche mese della mia vita, aveva già reso falsa questa affermazione: un libricino nato da un’esigenza, quella cioè di raccontare il ricatto subito da un gruppo di visual artist olandesi del collettivo Kirac (Keeping It Real Art Critics), che avevano girato un film porno con Houellebecq come protagonista, per poi diffondere il filmato e rendere pubblica la vicenda, mettendo in moto tutta la macchina giudiziaria e, di concerto, quella della stampa scandalistica. L’autore ha fatto suo malgrado una più approfondita esperienza dei tribunali (tra l’altro, D: Un consiglio a un giovane autore? R: Scegliersi un buon avvocato), e per la prima volta ha tentato di autobiografarsi. L’esperimento è stato definito “interessante”, e l’iter processuale potrebbe aver fornito allo scrittore francese nuovi spunti per un libro. Houellebecq tornerà con un nuovo romanzo? Ce lo auguriamo di cuore. Ian Poggio
Hard-Ons
Blah Blah – via Po, Torino, 12 0tt0bre 2024
L’alto tasso di amarcord che la serata si portava in dote, unito al fatto che “I Like You A Lot Getting Older”, il nuovo disco che gli Hard-Ons hanno pubblicato giusto una decina di giorni fa e che suona come un centrifugato di Radio Birdman e Kiss per la domenica pomeriggio al centro commerciale, non lasciava presagire nulla più che un dai e vai senza pretese, un’occasione per timbrare il cartellino tra due chiacchiere con gli amici e una birra a portata di mano. E invece quella patina ingiallita che il tempo inesorabile ha depositato sul punk australiano degli anni ’80 si è presa una bella sverniciata, nel frullatore di via Po, tornando luccicante nonostante le non facili premesse. Prima però, all’ora di cena, sono saliti sul palco i tarantini SFC, sobillatori di un hardcore troppo contemporaneo e quindi zavorrato dall’essere oltremodo preciso e misurato, per quanto solido e potente. Il loro è un concerto ineccepibile sotto l’aspetto formale ma da rivedere sotto tutti i restanti punti di vista. Poi il cambio palco come ai bei tempi – cioè ad uso, fatica e nastro telato degli stessi musicisti (per cui lungo e laborioso) – e quindi finalmente gli Hard-Ons da Sidney, di ritorno dalle nostre parti dopo un tempo immemorabile. Dei membri originali sono rimasti il chitarrista Peter Black e il bassista Ray Ahn, mentre da qualche anno e un paio di lp il posto di Keish De Silva è stato suddiviso tra Tim Rogers, per quanto riguarda la voce, e Murray Ruse, per quanto concerne la batteria. In amorevole simpatia, con lo scapigliatissimo Rogers – un marcantonio à la Perry Farrell solo leggermente più presente a se stesso – che grattugia tutta la voce possibile sulle corde vocali, probabilmente in sofferenza dalle date del tour europeo di cui questa torinese è la decima e ultima, il quartetto si dimentica di stare intorno a quota sessanta e riesce a capovolgere persino le sorti estetiche del summenzionato nuovo album, sebbene gli estratti – Buzz Buzz Buzz, Happy Accidents, Finder's Fee, Operation Lightning e Ride To The Station, su un totale di diciassette pezzi e un’ora di concerto – siano stati selezionati col bilancino di precisione. Ironia, velocità d’esecuzione, assolo sgargianti ma anche sganassoni a pugno chiuso, sono ancora le migliori peculiarità di questi inguaribili cialtroni di seconda fascia del kangaroo rock, tra i pochissimi ancora in attività e quindi ancor più meritevoli d’affetto per la perseveranza che dell’Australia li ha riportati fino a qui, immaginiamo, a tirare su quei due soldi con i quali forse ci si sono pagati solo il viaggio. Andrea Amadasi
Bassolino
“Robot Festival - Anteprima”, Bologna, Palazzo Re Enzo, 27 settembre 2024
Lo avevamo previsto ai tempi dell’uscita, la scorsa primavera, che i solchi di “Città futura” non potevano assolutamente passare inosservati. E così è stato, basta vedere quanto critica e pubblico abbiano premiato il progetto con cui il pianista Dario Bassolino ha dato vita a una personalissima sintesi di funk, jazz, progressive e umori cinematici proiettandola tra le strade di una Napoli onirica, sospesa a cavallo tra gli anni Settanta e il decennio seguente. Nato come un concept, l’album viene riproposto anche dal vivo quasi fosse la colonna sonora di un lungometraggio immaginario, sorretto dagli incastri di una formazione cangiante che passa agevolmente dal trio ad una line up molto più corposa. Nella splendida cornice di Palazzo Re Enzo a Bologna, in occasione di una serata che ha anticipato la quindicesima edizione del Robot Festival, abbiamo assistito a un set che – a dispetto di un forte riverbero naturale dovuto agli ambienti “d’epoca” – ha incantato il pubblico dalla prima all’ultima nota. La voce di Linda Feki (titolare di una ammaliante scia di produzioni a nome LNDFK) ha guidato ‘E Parole, forse il brano più amato di “Città futura”, ma persino le parentesi strumentali più ardite hanno ricevuto applausi scroscianti da un pubblico non necessariamente avvezzo al jazz. Insomma, complimenti a Paolo Petrella, Marcello Giannini e Andrea De Fazio per aver saputo ricreare dal vivo un incastro di suoni e atmosfere che non era facile rendere così tanto coinvolgente, soprattutto per chi si aspetta un festival orientato verso altre geometrie. E quindi complimenti anche al Robot, che si conferma ancora una volta meravigliosamente imprevedibile. Carlo Babando
Paolo Polcari (Almamegretta) e Stuart Braithwaite (Mogwai)
“Napoli Spacca – Soundscapes City Performance”, Napoli, Maschio Angioino, 2 settembre 2024
“Napoli spacca” è un gioco di parole, spezzando e invertendo i pezzi di “spaccanapoli” la scia di vicoli che taglia in due il centro storico di Napoli, una lama residuale che lega la storia di Napoli, dalla sua pianta romana (uno dei decumani) all’overtourism attuale. “Napoli spacca” non è solo il titolo di un evento-concerto ma un progetto promosso dal comune di Napoli che speriamo possa svilupparsi e crescere ulteriormente dando voce (o in questo caso suono) a una dimensione della città che deborda dai soliti cliché. Il concerto serale è stato preceduto da un interessante incontro mattutino in cui musicisti ed esperti hanno delineato alcune delle suggestioni in campo, spaziando tra storia della musica, etnomusicologia, antropologia, sound art, industria musicale e altro ancora (è spuntato fuori pure un Osimehn nascosto nella cassa dei pedali per la chitarra di Braithwaite: la fantasia dei tassisti napoletani non ha limiti). Ma veniamo al concerto. Paghi neanche uno (l’evento era gratuito) e prendi due, anzi tre. Di fatto è stato come assistere a due concerti in uno: Almamegretta più Mogwai. Fosse stato solo per questo, già sarebbe molto. Polcari e Braithwaite erano in gran forma, con da una parte i ritmi elettronici postdub del napoletano e dall’altra la chitarra postrock con i suoi riff dilatati dello scozzese. Ma la cosa interessante non è stata però questa musica già sentita e conosciuta. Il progetto musicale, infatti, è nato da una serie di registrazioni sul campo che hanno fatto da base e sfondo al successivo lavoro dei musicisti che hanno “colorato” (questa la loro espressione) le cartoline sonore registrate con la loro musica e la loro sensibilità. E qui, a mio avviso, sta la parte originale del lavoro. Da una parte i suoni e le voci della città colti in modo randomico (dal porto a piazza Mercato, dalla metro ai vicoli del centro), dall’altra come punto di vista (o meglio di ascolto) due musiche “bastarde” che hanno già in sé il senso della storia e della tradizione e il suo mischiarsi con altro, andando oltre. Gli Almamegretta rappresentano, da questo punto di vista, l’incontro tra la tradizione napoletana e il mondo (già bastardo di suo) del dub giamaicano e inglese, una rilettura del passato e del presente (di allora, ovviamente) con l’elettronica più avant. Stessa cosa si può dire in tutt’altro ambito per i Mogwai, con la loro deflagrazione del rock chitarristico. Elettronica postdub e chitarra postrock sono state le lenti che hanno permesso di guardare a Napoli in un’ottica originale e, io direi, anche convincente. Il risultato sono stati dei pezzi caratterizzati da un andamento circolare, dei loop che più che imporsi ai frammenti “field recording” hanno creato uno “stile”, un modo di attraversare e passare la città, quello, appunto, del loop, del girovagare, del perdere tempo, del dilungarsi per lasciarsi entrare dentro qualcosa. Questo andamento lento – mi pare – è, forse, oggi l’antidoto più efficace contro un turismo mordi e fuggi, in cui il programma di visite è già fissato secondo standard mediatici, quelli imposti dalle fiction televisive di successo. In questi loop avvolgenti è possibile intravedere la città ora troppo placida, ora troppo violenta. Ad ogni modo, uno dei percorsi possibili. Speriamo continui e che se ne aprano pure altri. Girolamo Dal Maso
“Viva!” Festival
Locorotondo 1-2-3-4 agosto 2024
Da un po' di tempo si sta diffondendo anche nel nostro paese la piacevole abitudine di organizzare festival in location particolari che danno vita a quel fenomeno che potremmo definire “turismo musicale”. Poter abbinare alla propria passione per la musica un viaggio fuori porta è il top, così come poter rispondere alla domanda “Dove vai in vacanza?” con il nome di un festival. Gli esempi sono tanti. Dall’“Open Sound” nel Parco Nazionale del Pollino e a Matera alla “Prima Estate” al Lido di Camaiore, dal “BeColor” nel parco naturale della Sila fino al “Viva!”, nella splendida Valle d'Itria, che anche quest'anno si è confermato uno dei festival più interessanti del panorama nazionale e non solo. Il programma ampio e ben curato prevedeva quattro giornate tra incontri, dj set e live ma le attese erano tutte per gli headliner del weekend: gli Air con il live celebrativo dei 25 anni di “Moon Safari” e gli inossidabili Underworld che mancavano dall'Italia da molto tempo.
I francesi sono il set principale del venerdì. Arrivano sul main stage dopo un energico live electro tribal di Dardust e un dj set techno di Giulia Tess. A incuriosire, già prima del loro ingresso sul palco, è la scenografia. Un grande parallelepipedo bianco, asettico. Nell'epoca dell'eterno presente condiviso, già sappiamo che suoneranno proprio lì dentro, già conosciamo la disposizione dei musicisti, ma vederlo dal vivo fa comunque un certo effetto. Tutto si svolge all'interno di questo spazio, una sorta di monolocale arrivato da un ucronico futuro ballardiano. Quando il live inizia, con Nicolas Godin e Jean-Benoît Dunckel sempre sorridenti e perfettamente complici, questa scelta appare molto efficace nella sua semplicità, creando uno spazio quasi intimo e fuori dal contesto in cui vedere, quasi voyeristicamente, le cose che accadono dentro. Mi ha ricordato L’effet de Serge, uno spettacolo teatrale di Philippe Quesne in cui in un appartamento ogni domenica si svolgono mini-performance surreali e poetiche. Che sia proprio il francese Quesne la fonte d'ispirazione per la scenografia?... Il live ripercorre tutto “Moon Safari” e qualche hit da altri lavori, come una splendida versione di Cherry Blossom Girl dilatata e sognante. Ascoltarlo dopo 25 anni fa un certo effetto. Un senso di nostalgia per un futuro in grado di umanizzare le macchine che in fin dei conti non si è avverato. C’è poi tutta la sensualità esotica di pezzi come La femme d'argent o Talisman, degni di fare da colonna sonora a una foresta dipinta da Henri Rousseau. La malinconia di You Make it Easy e l'estro di Sexy Boy rimangono intatti e ci riportano indietro nel tempo, quando stavamo scavallando il millennio e “Moon Safari” era colonna sonora di scoperte (anche) musicali che facevano gridare, con Laurent Garnier, Daft Punk e Cassius, “Vive la France!”. In versione live i pezzi sono più accattivanti e coinvolgenti che in studio, cosa che mi ha sorpreso non poco, avendo sempre pensato che un concerto degli Air fosse il classico esempio di performance da vedere seduti in teatro.
La giornata seguente è quella del grande evento-Underworld, un gruppo che ha contribuito a creare il suono dell'elettronica degli anni '90, ormai assente dalle nostre latitudini da tempo (per vederli recentemente li ho dovuti intercettare a Berlino e Bruxelles). Il loro live è un viaggio in cui lasciarsi trasportare senza tentennamenti, riescono a dosare perfettamente i momenti più ritmati con le zone ambient intimiste. Di solito la musica dance nei grandi eventi fa ballare migliaia di persone in un rito collettivo quasi ancestrale, puntando a creare una sorta di tribù contemporanea. Gli Underworld invece ti accompagnano in un viaggio personale, una danza tra gli altri più che con gli altri, un viaggio nel tuo mondo da condividere. Ma dei loro live la cosa che mi ha sempre colpito di più è il frontman Karl Hyde, classe '57. Ha un modo di muoversi quasi ipnotico, sciamanico. Balla, trasportato, fino a farsi trasposizione visiva della loro musica. Nel 2005 due video artisti, Douglas Gordon e Philippe Parreno, fecero un video d'arte filmando per l'arco di un’intera partita Zinedine Zidane. Della partita c'è solo lui decontestualizzato. Ho sempre immaginato di rifare l'operazione proprio filmando Hyde in un suo live. Magari senza musica. Sono convinto che reggerebbe senza annoiare. Nella serata hanno eseguito tutte le hit, da Two Months Off a Dark & Long (Dark Train) passando per King of Snake, Rez/Cowgirl, la più recente Denver Luna e l'immancabile Born Slippy, che infiamma l'arena.
L'ultimo atto del “Viva!” è un live sulla spiaggia per aspettare l'alba. Alle 5.30 del mattino sale on stage vista mare Giorgia Angiuli, che, nonostante l'orario, propone il live più techno dell'intero festival affiancando a computer e moog anche giocattoli e diamoniche da scuola media. Molto brava e coinvolgente: anche quest’estate scegliere un Festival come meta è stata la soluzione migliore per le mie vacanze… Massimo Lovisco
Be Color Festival
Marlene Kuntz / Motorpsycho / Kula Shaker
Camigliatello Silano (CS), 3 agosto 2024
La bellezza del posto è stordente. Il lago Cecita a Camigliatello, sui monti della Sila, ospita la seconda edizione della piccola Woodstock calabrese: il colpo d’occhio è meraviglioso. Se ne accorge anche Crispian Mills dei Kula Shaker che parlerà di “such a beautiful place in this part of the world”. Una felice intuizione degli organizzatori. L’orario di inizio, 14:30, ci fa perdere quasi per intero la timida esibizione di Her Skin, solo per voce e chitarra. Il DJ set “molto parlato” di Fabio Nirta allieta i cambi palco sotto un sole cocente. E sotto un solo cocente, vestiti di tutto punto, si presentano i Marlene Kuntz. È una tappa del tour per il trentennale di “Catartica”. Tra gli svantaggi dell’invecchiare c’è anche il fatto che certi dischi non ti colpiscono più alla stessa maniera di quando eri un ventenne. Al momento dell’uscita avevo molto amato il debutto della formazione cuneese. Mi aspettavo, perciò, una scossa dettata anche dalla nostalgia. I Marlene Kuntz ci provano, con una una buona dose di energia e molto mestiere, ma l’attesa botta non arriva anche se i die-hard fan presenti nelle prime file sembrano apprezzare. Emozionante il momento in ricordo dello scomparso Luca Bergia.
Non appena sul palco salgono i Motorpsycho il livello si impenna. Sarà che l’ambiente circostante ricorda un fiordo, sarà per il calore del pubblico, sta di fatto che il trio norvegese appare sin da subito a suo agio. Per un’ora e mezza il power trio di Trondheim sciorina un set fatto di brani tratti prevalentemente dai singoli in cui indie-rock, psichedelia, stoner e leggerezze pop vengono mischiate e dosate con maestria. C’è solo qualche sporadico calo di tensione, ma il concerto rimane sontuoso con due momenti-clou: la lunga e travolgente jam lisergica Mountain e il remake potente e riuscitissimo di Rock Bottom degli UFO. Quando è il momento dei Kula Shaker si volge verso il tramonto ma il sole è ancora alto nel cielo, a tratti abbagliante. In formazione originale, con il redivivo Jay Darlington all’organo, il quartetto inglese ha intenzione di non fare prigionieri e l’attacco con Hey Dude ne dà ampia dimostrazione. Da lì in avanti Mills e compagni si muovono tra episodi tiratissimi, brani dal sapore oriental-misticheggiante, ballate alternate a pezzi ballabili, aromi late-60’s/early 70’s in cui l’hammond di Jay alimentato dal Leslie gioca un ruolo rilevante. Il mix di canzoni vecchie e nuove è coinvolgente, i classici di “K” e le potenziali hit di “Natural Magick” (dall’arrembante Gaslighting ad Idontwannapaymytaxes passando per la title-track) si fondono magicamente. E quando il sole declina dietro i monti della Sila, Govinda - con il suo mix di spiritualità indiana e singalong del pubblico – risulta essere la chiusura ideale di un concerto strepitoso e di una giornata perfettamente riuscita. Roberto Calabrò
The Black Heart Procession
Moulien Club, San Nicola la Strada (CE), 1 agosto 2024
Ce la siamo sudata. E continueremo a farlo. Fuori Napoli, in quelli che una volta erano paesotti di campagna (ma che ormai sono città a tutti gli effetti) che avevano pure una loro certa nobiltà (nulla a che fare con i nobili della capitale, ma comunque ci tenevano a fare la loro bella figura), accanto a dignitosi e pigramente solenni palazzi si trovano i resti di masserie che si riconoscono per i loro grandi portali e i massicci muri in pietra di tufo. Una volta davano affaccio su grandi corti che, a loro volta, si affacciavano sulle campagne. Di tutto questo rimane, sparpagliato qua e là, qualche facciata che sa si desueto, incastrata (più che incastonata) tra palazzi che hanno letteralmente mangiato ed eroso lo spazio contadino o, in qualche caso, di qualche operosa fabbrica, spazi invasi e sopraffatti da una urbanità inesausta eppure da sempre esaurita. Il passaggio dalla pietra al cemento e dall’orizzontalità alla verticalità degli apatici e compressi condomini si è svolto abbastanza rapidamente, ma il territorio (che – è bene ricordarlo – è fatto dagli uomini) conserva orgoglioso e silente le sue cicatrici.
È in un posto del genere, mi pare, che – non si sa come – sono andati a cacciarsi i The Black Heart Procession il primo agosto per un concerto a suo modo memorabile. Memorabile secondo un tipo di memoria, di percezione del tempo, delle storie, dei luoghi e – soprattutto – degli uomini che ha un qualcosa di desueto, profondamente radicato in una visione del mondo e della musica che potremmo definire “romantica”, che attinge la sua forza dalla polvere impastata al sudore, fatta di cuori feriti che tornano sempre sugli stessi desolati posti, che va avanti a forza di fallimenti. Sudore tanto, tantissimo. A un certo punto il cantante ha sbuffato con un ghigno tra l’ironico e il rassegnato “sto cazzo di caldo”. Eh sì. Un “fucking hot” che ci assale da giorni e se uno fosse andato al concerto per distrarsi un po’ sarebbe (come di fatto è accaduto) caduto dalla padella alla brace. Anche i condizionatori, beffardi, facevano mostra di una spia che non è mai scesa sotto i 30. Ma che si ne frega. Questa è la nostra vita adesso e altra non ne abbiamo. La location è letteralmente (con tanto di scritta) una sala da ballo, in cui si susseguono – a quanto pare – eventi i più disparati. Appesi ai muri stavano locandine di serate per la parrocchia e saggi di pianoforte. La grande, ma non grandissima sala, sembra un mix tra una vecchia discoteca e un salone del castello delle cerimonie nella sua versione basic, con tanto di lampadari dorati a metà strada tra alberi di Natale e fontane cascanti. Il pubblico, fortunatamente abbastanza numeroso, avrà preso il posto occupato in altre serate da settantenni intenti a ballare il liscio o, in qualche pomeriggio, di bambine svogliate alle prese con le lezioni di danza. Ci siamo persi tra “Paris, Texas” e “Non è un paese per vecchi”, in un mondo imperfetto, ma è il nostro mondo. Altri non ne abbiamo. L’imperfezione è quello che abbiamo, quello che siamo e ci conviene giocarcela bene. Non saranno impeccabili e perfetti come Taylor Swift e non faranno salire il PIL del loro paese, ma i The Black Heart Procession hanno qualcosa che li rende speciali e rende speciale il rock che fanno. Dentro c’è la vita, una vita in cui la maggior parte di noi suda, caccia fuori sali e tossine. Pure, in alcuni momenti, un poco gradevole tanfo. Tant’è. Musica e sudore e tanto, tanto cuore, senza fronzoli, come le canzoni e il suono, tutta sostanza. Ballate degne del vecchio Nick Cave per un rock bastardo eppure dalla forte identità, attraversando il deserto emozionale e sonoro che passa tra Caleixo e Thin White Rope. Le condizioni non erano certo ottimali ma i quattro musicisti si sono buttati a capofitto nel loro ruolo con mestiere facendo da cassa di risonanza, con la loro musica, a emozioni e pensieri: c’era chi cantava i pezzi a memoria, chi ballava i lenti incuranti della pelle madida, chi ballava da solo, chi non ha perso una nota del concerto, chi girovagava per la sala col ventaglio, chi chiacchierava e beveva birra (il tastierista ha pensato bene di sostituirla con una bottiglia di whisky), chi non vedeva l’ora che finisse per uscire al fresco (il che è tutto dire)… Ognuno con la sua storia, per un paio d’ora tutte assieme. Quante storie, tutte diverse, di cui le canzoni sono state una cassa di risonanza, toccando corde che spesso preferiamo nascondere o evitare ma con cui dobbiamo fare i conti. Siamo animali che sudano, ma cavolo, ne vale proprio la pena. Girolamo Dal Maso
Umbria Jazz 2024
Perugia, vari luoghi, 12-21 luglio 2024
Dopo il periodo di crisi dovuto alla pandemia Covid-19, che ha visto anche un’edizione annullata, Umbria Jazz anno per anno ha ripreso sempre più a crescere, arrivando a ribadire gli antichi fasti. I numeri dell’edizione 2024 sono impressionanti, per presenze e incassi, anche grazie a una nutrita schiera di artisti pop, rock e affini (quasi sempre di qualità) che hanno attirato migliaia di fan. Al concerto di Lenny Kravitz all’Arena Santa Giuliana erano presenti oltre dodicimila paganti: una festa, come lo sono state le performance di altri musicisti popolari tipo Vinicio Capossela, Raye, Cha Wa, Lizz Wright, Toto, Laufey, Nile Rodgers & Chic, Veronica Swift e Djavan. Fra questi, spendiamo due righe solo per la cantante del Mali Fatoumata Diawara che col suo canto agile, gagliardo e cantilenante, che si rifà ampiamente alle tradizioni wassoulou della sua terra d’origine introducendo al contempo elementi occidentali, testimonia ex post il legame fra il canto africano e quello afro-americano jazzistico.
A parte le attrazioni popolari, Umbria Jazz è naturalmente strapiena di jazz, che v
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