Kraftwerk: le origini
Kraftwerk: le origini
di Christian Zingales

Salad
Da sempre accantonati dagli artefici come espressioni preparatorie a quella che da “Autobahn” in poi verrà considerata la discografia ufficiale dei Kraftwerk, i quattro album prodotti dal 1970 al 1973 in realtà hanno una qualità musicale in sé ed esprimono l’intrigante messa a fuoco di una dialettica che cortocircuita materiali rock ed elettronica, formazione accademica e l’anarchico flusso della nascente scena kraut, modalità d’improvvisazione e una prima idea di pop, la dilatazione meditativa del raga e ganci più concisi e d’impatto.
Florian Schneider, nato a Ohningen nel 1947, e Ralf Hutter, nato a Krefeld nel 1946, si conoscono a fine ’60 all’Accademia delle Arti di Remscheid, e subito dopo condividono gli studi musicali al conservatorio Robert Schumann di Dusseldorf. Iniziano a partecipare alla scena della città, a sperimentare le prime idee e incidere i primi pezzi. Nasce il contatto con la RCA inglese, che nel 1970 pubblica l’album “Tone Float” sotto la ragione sociale Organisation, disco che arriva in Germania solo di importazione. Il progetto Kraftwerk era già abbozzato dai due ma la RCA voleva un nome anglosassone. Conny Plank ai controlli e formazione a cinque con Florian Schneider tra flauto, campane, triangolo, violino e tamburino, Ralf Hutter all’organo, Butch Hauf, Fred Monicks e Basil Hammoudi a percussioni e cristalleria assortita, il primo dei tre al basso e l’ultimo alla voce poi. I 20:38 della title-track aprono tra scampanellii, shaker, congas, sciabordii, un tessuto ritmico sospeso nel vuoto che via via trova cadenza in una trance sghemba, raggiunta a metà della stesura da un crescendo d’organo floydiano, e nella seconda parte Hutter va in fraseggio, seguito da Schneider al flauto, con il tessuto percussivo a questo punto assecondante, ed è un dialogo danzante e ben gestito quello che viene a compiersi, il ritmo che si rialza come in un erotico scambio di effusioni, su una piega latina. Milk Rock stacca decisamente, nel senso che un analogo ma più spiritato gioco tra affastellamenti ritmici e flauteria è centrato sul riff di un monolitico basso slabbrato, un macigno di frontale funk bianco (che, anno 2000, verrà replicato da David Holmes nel suo “Bow Down To The Exit Sign” in Living Room con Carl Hancock Rux alla voce, poi remixata a massimo effetto da Kevin Shields, giusto per dire dei segni da subito veicolati), l’organo che raggiunge a punteggiare il clima divampante, comunque sempre gestito con rigore, mai liberato del tutto, un’implosione in corso che non sfocia mai nell’esplosione e si stempera in coda in una chiosa d’organo quasi chiesastica. E infatti Silver Forest si apre e avanza su lugubri, distanti rintocchi di campane, lo diresti un interrogativo intrecciarsi di suoni. Rhythm Salad è una giunglesca, lineare costruzione ritmica, mentre la conclusiva Noitasinagro fa quadrato sovrapponendo chincaglieria ritmica, organo elegiaco, sparse corde di basso, il violino schneideriano e un lamentoso innesto vocale di Hammoudi. […]

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