KEVIN AYERS
KEVIN AYERS
Piergiorgio Pardo

KEVIN AYERS

CON LUI ci siamo lasciati che sarà stato settembre o ottobre del 2007, non ricordo più. C'erano un nuovo bellissimo album da tenersi stretto (“The Unfairground”) e un esteso articolo/retrospettiva che mi valse notti innamorate ad ascoltare e riascoltare, ma anche a leggere una biografia tra le più incredibili della storia del rock. Di quel lungo lavoro non intendiamo riproporre qui nulla, se non il piacere di incontrare Kevin ancora una volta, sia pure l'ultima. Un biglietto, «You can’t shine if You don’t burn», vicino al letto, e il corpo trovato senza vita nella sua casa a Montolieu, il villaggetto in Linguadoca dove si era rifugiato da quindici anni a questa parte.
Probabilmente ci si sarà dimenticati di lui ancor prima che si scoprano le circostanze reali di questa morte prematura; un evento senza troppi clamori, riportato appena dalle cronache, che in fondo ha colto una vecchia star minore, da un pezzo defilata e per di più all'età di 68 anni: il mondo oggi ha ben altro a cui pensare. Ma noi siamo qui per parlare di stile e, a dispetto di ogni superficialità, il suo è uno di quelli destinati a rimanere. C'è una cosa infatti che di Kevin non si è detta e non si dice mai: il fatto che sia uno dei musicisti, forse degli artisti in generale, che in misura maggiore sono in grado di rappresentare gli anni a cavallo fra fine sessanta e primi settanta (diciamo quelli compresi tra il '68 e il '75) e di tramandarne ai posteri lo spirito e l'immaginario. Tutti quegli anni e non solo Canterbury: ad ascoltare bene la sequenza fondamentale della sua discografia è difficile non rendersene conto. Con una precisazione, però. Quel settennio non rappresentò esso stesso una sintesi, quanto piuttosto un accostamento rapsodico e disordinato di stili e maniere, sino a costituire l'atto fondativo di quel post moderno che da più parti oggi si invoca. […]


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