John Updike - Saul Bellow
John Updike - Saul Bellow
di Maurizio Bianchini

[nell’immagine: a sinistra John Updike, a destra Saul Bellow]

SOLO INDEROGABILI ragioni di spazio hanno impedito a Corri, Coniglio di John Updike e Herzog di Saul Bellow, libri dei quali il tempo ha riconosciuto già il valore seminale, di essere inseriti nell’articolo sul G(rande) R(omanzo) A(mericano), cosa della quale siamo stati, et pour cause, gentilmente redarguiti da qualche lettore di BU. Siano perciò rese grazie a chi ci consente ora, rimettendoli sul mercato, sia pure in nome di una politica editoriale ondivaga e dissennata, disposta a celebrare a colpi di ristampe ogni anniversario possibile, di cogliere la palla al balzo e rimediare alla lacuna parlandone, piccola rivincita, più di quanto non si sia fatto con i prescelti della prima ora. Ad essere del tutto precisi, il romanzo appena ripubblicato di Updike (con tanto di nuova traduzione, di Daniela Fargione, e pregevole introduzione di Julian Barnes) sarebbe Sei ricco, coniglio, e cioè il terzo capitolo della quadrilogia di Harry Angstrom, a breve fruibile di nuovo nella sua interezza. Una scelta editoriale cervellotica cui abbiamo posto rimedio riportando i riflettori, brevi manu, sul primo della serie, il romanzo che ha forgiato una figura, Coniglio, in grado di ridefinire, col professor Herzog, il modo di guardare la realtà dal parte del romanzo americano e conseguentemente di quello occidentale e del mondo intero. È vero che la traduzione di Corri, Coniglio è invecchiata (chi chiama ormai asciugatoio un asciugamani?), ma non più, suppongo, di quanto sia accaduto all’inglese di Updike nei cinquantaquattro anni trascorsi dalla sua uscita. È lo stesso problema, in fondo, posto dalla nuova traduzione del Giovane Holden. È in un italiano più corrente; ci dà, lo si voglia o meno, la versione attualizzata di un libro scritto sessant’anni fa (e a quegli anni rimasto fermo e saldo, nell’originale). Dunque, qualcosa di sottilmente falso nel clima che la lingua evoca con i suoi tic e i suoi manierismi di stagione, al netto, s’intende, di errori e improprietà sempre emendabili. È come tradurre il Decameron in inglese prendendo a prestito il gergo dal Saturday Night Live, quasi che tutto quanto sia accaduto prima di noi avesse il solo scopo di essere tradotto nel modo di parlare di ora -che è poi già, in realtà, passato. […]

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