John Grant
John Grant
di Beppe Recchia
Sono passati quasi quindici anni da “Queen of Denmark”, esordio fulminante per un John Grant arrivato al successo fuori tempo massimo, già quarantenne, bruciato dall’insuccesso a fuoco lento dei suoi Czars e sull’orlo del baratro, se non ci fosse stato l’intervento salvifico di una collaborazione con i Midlake e con la Bella Union dell’ex-Cocteau Twins Simon Raymonde. Da quel momento, Grant ha offerto le sue melodie soft-rock e i suoi testi cupamente sardonici in una veste sempre più personale, codificando una canzone americana messa a nudo nelle sue illusioni e nelle sue psicosi: c’è stata la meravigliosa svolta elettronica di “Pale Green Ghosts” (2013), il portentoso live “John Grant with the BBC Philharmonic Orchestra Live In Concert” (2014), il più sfrontato “Grey Tickles, Black Pressure” (2015), il controverso e in odore di new wave “Love Is Magic” (2018), la piena maturità di “Boy From Michigan” (2021). Dai ricordi zuccherini di Marz al livore politico di The Only Baby, John Grant ha parlato e scritto della sua dipendenza, della sua sessualità, della sua sieropositività, della nazione folle da cui proviene e delle menzogne di cui si alimenta con una franchezza e una lucidità raramente ascoltate, ma dosate da un’arguzia e un umorismo asciutto. Da una decina d’anni di base a Reykjavik, dove Grant ha un piccolo studio in cui ordisce non solo i suoi lavori ufficiali, ma anche la miriade di fughe e deviazioni dal percorso – la più recente, una serie di date con Richard Hawley a reinterpretare le canzoni di Patsy Cline – ci troviamo a parlare del suo settimo disco, “The Art of The Lie”, in cui si mette ancora una volta a nudo, scavando da un pozzo che sembra davvero senza fondo. John Grant siede a terra, appoggiando la schiena a un divano, circondato da quattro ritratti femminili alle pareti: ci sono Ruth Gordon in “Harold & Maude”, Madeline Kahn in “Paper Moon”, Rosel Zech in “Veronika Voss” e Olivia Newton-John in “Xanadu”. Siamo in ottima compagnia. […]
(nell'immagine John Grant, foto di Hördur Sveinsson)
…segue per 4 pagine nel numero 313 di Blow Up, in edicola a giugno 2024
• Se non lo trovate in edicola potete ordinarlo direttamente dal nostro sito (BU#313) al costo di 12 euro (spese postali incluse) e vi verrà spedito immediatamente come ‘piego di libri’ (chi desidera una spedizione rapida ci contatti via email).
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
Sono passati quasi quindici anni da “Queen of Denmark”, esordio fulminante per un John Grant arrivato al successo fuori tempo massimo, già quarantenne, bruciato dall’insuccesso a fuoco lento dei suoi Czars e sull’orlo del baratro, se non ci fosse stato l’intervento salvifico di una collaborazione con i Midlake e con la Bella Union dell’ex-Cocteau Twins Simon Raymonde. Da quel momento, Grant ha offerto le sue melodie soft-rock e i suoi testi cupamente sardonici in una veste sempre più personale, codificando una canzone americana messa a nudo nelle sue illusioni e nelle sue psicosi: c’è stata la meravigliosa svolta elettronica di “Pale Green Ghosts” (2013), il portentoso live “John Grant with the BBC Philharmonic Orchestra Live In Concert” (2014), il più sfrontato “Grey Tickles, Black Pressure” (2015), il controverso e in odore di new wave “Love Is Magic” (2018), la piena maturità di “Boy From Michigan” (2021). Dai ricordi zuccherini di Marz al livore politico di The Only Baby, John Grant ha parlato e scritto della sua dipendenza, della sua sessualità, della sua sieropositività, della nazione folle da cui proviene e delle menzogne di cui si alimenta con una franchezza e una lucidità raramente ascoltate, ma dosate da un’arguzia e un umorismo asciutto. Da una decina d’anni di base a Reykjavik, dove Grant ha un piccolo studio in cui ordisce non solo i suoi lavori ufficiali, ma anche la miriade di fughe e deviazioni dal percorso – la più recente, una serie di date con Richard Hawley a reinterpretare le canzoni di Patsy Cline – ci troviamo a parlare del suo settimo disco, “The Art of The Lie”, in cui si mette ancora una volta a nudo, scavando da un pozzo che sembra davvero senza fondo. John Grant siede a terra, appoggiando la schiena a un divano, circondato da quattro ritratti femminili alle pareti: ci sono Ruth Gordon in “Harold & Maude”, Madeline Kahn in “Paper Moon”, Rosel Zech in “Veronika Voss” e Olivia Newton-John in “Xanadu”. Siamo in ottima compagnia. […]
(nell'immagine John Grant, foto di Hördur Sveinsson)
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000