Jessica Pratt
Jessica Pratt
di Giancarlo Turra

“Non sarebbe bello se fossimo più vecchi?/ Non dovremmo aspettare così a lungo/ e non sarebbe bello vivere assieme/ nel tipo di mondo cui apparteniamo?”. Nella primavera 1966 iniziava con queste parole “Pet Sounds”, dei capolavori del pop quello che, suo malgrado, ha richiesto più tempo per essere riconosciuto. Un capolavoro che sbuca fuori dove non penseresti, o forse sì. Per esempio, nell’ultimo album di Jessica Pratt.
Partiamo da un breve esercizio di osservazione dell’ovvio: da che l’attualità ha preso a essere un magma confuso e iper-accelerato, non esistono più opere in grado di tastare il polso al presente. A farla breve, quel “this is the sound of now” che, nei favolosi anni Sessanta, tornava utile sia come ariete promozionale che come fotografia dei tempi è diventato un’illusione. Benché la faccenda possa risultare sgradevole, ormai ce ne siamo fatti una ragione e, d’altra parte, ha poco senso rompersi le ossa cercando di riportare indietro le lancette della storia. Per fortuna, pur nel disordine di un’assurda giostra che rasenta l’entropia riusciamo comunque a scorgere dei segnali solidi e importanti che scavalcano l’esercizio formalista. Non occorre faticare per rintracciarli: basta cercare un disco dove una penna di livello elevato si congiunge alla scultura sonora e al tentativo di dare consistenza alla tortuosità dei flussi emotivi. Basta rimettere nello stereo “Here In The Pitch”, LP numero quattro dell’americana Jessica Pratt che, grazie a certi cortocircuiti che il pop crea dal nulla, ha visto la luce a cavallo tra la nefasta notizia della salute mentale sempre più traballante di Brian Wilson e l’ennesimo documentario sui Beach Boys. […]

…segue per 4 pagine nel numero 314/315 di Blow Up, in edicola a luglio e agosto 2024

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