Japan Pop 2016
Japan Pop 2016
di Federico Savini

[nell’immagine: Maywa Denki con, al centro, un otamatone jumbo]

SHUGO, SHUTA e Shintaro. Sembra il titolo di una filastrocca per bambini e forse non è un caso. Shugo Tokumaru, Shuta Hasunuma e Shintaro Sakamoto sono giunti, quest’anno, alla piena maturazione di percorsi stilistici che raccolgono, in poetiche personalissime, l’eredità di altrettante (e più) tradizioni nipponiche legate alla canzone. A come una canzone si può comporre, arrangiare e far viaggiare verso mondi lontani e immaginari.
Lontani come quell’Occidente a cui il Giappone ha guardato con timore reverenziale fin dai tempi delle “Navi nere” del Commodoro Perry, che nel 1853 risvegliò un’isola ancora medievale nel bel mezzo del XIX secolo. Inutile farla più lunga di così e rievocare il trauma ancor più grande di Hiroshima, basti dire che anche nell’arte l’intero corso del Novecento nipponico è stato segnato da un controverso rapporto con le culture “altre”, quella statunitense in particolare. Un susseguirsi di sbandamenti ed entusiasmi per una contaminazione ineludibile come tappa verso l’agognata modernità, che alimentò però anche dure reazioni di chiusura in un tradizionalismo oltranzista, nonché una sottaciuta competizione, non priva di velato sarcasmo neo-razziale, proprio con gli americani. Il proliferare neanche tanto sotterraneo, in Giappone, di stili musicali come l’exotica, l’elettro-pop, la toy-music e il glitch-pop ha avuto un ruolo in questa dinamica, e si può inquadrare come una sfida all’immagine che gli Occidentali hanno del Paese del Sol Levante, che in apparenza asseconda gli stereotipi ma nel contempo è riuscita a sviluppare delle vere e proprie “tradizioni” che non hanno eguali in Occidente, e proprio per questo ci intrigano con un mistero che ha qualcosa di alieno.
Exotica, elettronica e musica dall’estetica infantile si sono incrociate a più riprese nel corso degli ultimi cinquant’anni di esperimenti “pop” nipponici. Dalle fantasmatiche “vocette chipmunks” dei Folk Crusaders, che nel 1967 diedero avvio alla scuola psichedelica del Sol Levante, fino all’affermazione internazionale della Yellow Magic Orchestra, all’insegna di un elettro-pop lussureggiante che nasceva proprio dalle giungle timbriche dell’exotica di Haruomi Hosono, l’identità del Giappone musicale moderno ha preso forma anche attraverso la rielaborazione dei cliché ad uso e consumo degli occidentali. E proprio alla parabola di Hosono somiglia quella di Shintaro Sakamoto, che partendo dal rock psichedelico ha finito per abbracciare il languido ondeggiare plasticamente hawaiano dell’exotica, senza però approdare – come Hosono – poi anche all’elettronica. Elettronica che negli anni ‘80 è stata usata copiosamente anche per la musica dei “video game”, un settore che sanciva il primato internazionale dei giapponesi. Lo stesso vale nel limitrofo universo dei giocattoli, specie quelli automatici che fomentano da tempo immemore l’estro dei nipponici. I giapponesi videro nel potenziale musicale delle nuove tecnologie la via più veloce per affermarsi su larga scala, sviluppando poi una scuola ambient e glitch così riconoscibile e diffusa. Musica dai colori pastello e dall’afflato intimista, che cerca scampoli di umanità nel mezzo delle fibre digitali, quegli scampoli che nel percorso decennale di Shuta Hasunuma sono emersi sotto forma di un sinfonismo pop che non ha corrispettivi occidentali e oggi straborda di sentimento, fino a commuovere. […]

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