Isaac B. Singer
Isaac B. Singer
di Maurizio Bianchini

1.
Mi vado sempre più convincendo, con gli anni, che i libri si scambino segnali l’uno con l’altro, ignorati dalla critica, e, di conseguenza, dal pubblico. Provo a spiegarlo con un’esperienza ‘sul campo’, come si dice. Ho preso insieme, ripubblicati entrambi da Adelphi, Lezioni di letteratura russa di Nabokov e Ombre sullo Hudson considerato da molti, compreso chi scrive, il capolavoro di Isaac Singer. E mentre ero intento a sondare le acque più profonde del romanzo, ho preso a scartabellare, per concedermi una pausa, il sublime libro di iniziazione critica che sono le Lezioni, estasiandomi per la sottigliezza da miniaturista, o da serial killer, con cui il principe Vlad vivisezionava le pagine di Gogol o Čechov. Nel mezzo di uno dei tanti dialoghi stretti, feroci e smisurati di Ombre sull’Hudson, in cui era come se parti di Tolstoj e Dostoevskij fossero state estratte di peso dall’originale e ricomposte insieme, in una sintesi spericolata ma riuscita delle loro meditazioni sul dualismo tra la vita laica e quella spirituale (mi era frullato per la mente addirittura di ribattezzare Singer Lev Michailovič Tolstoevskij); mentre gli attori indimenticabili delle storie paradigmatiche dell’uno (Pierre Bezuchov, Levin, Anna Karenina, Nechiljudov) e delle apocalissi catartiche dell’altro (L’uomo del sottosuolo, Raskol’nikov, Stavrogin, il principe Myškin, Alëša), tornavano in scena, tanti anni dopo, nello stesso dramma, vestendo i panni del nostro tempo – e lamentandone le miserie, gli slanci, l’amore, le ossessioni, gli affetti, i legami, i tradimenti, al dunque non così diversi da quelli dei loro tempi, avevo ripensato alla macchia nera rappresentata dal ritratto che di Dostoevskij fa Nabokov nelle Lezioni di letteratura russa, imputandogli sciatteria, logorrea visionaria e pedanteria moralistica nel fare della narrativa il postino di fuorvianti messaggi sociali. Se è vero che si non si rende un buon servizio al romanzo ficcandolo nella camicia di forza dell’impegno e delle buone cause, non se ne fa uno migliore affidandolo in esclusiva alla cosmesi del “gio­co sacro, della superiore forma di felicità” dell’arte pura, glabra e neutra. Alcune cose di Zola sono difficili da leggere come altre di Nabokov. Ma Teresa Raquin è esaltante quanto Lolita. Il punto non è nell’engagement in sé – tutto va bene, nel romanzo, “purché funzioni” –, ma nel renderlo da “moto dell’anima” programma di scrittura e motore delle storie. E proprio questa è, forse, la lezione più profonda di Tolstoj: tenere gli occhi aperti sul mondo senza dimenticare che è proprio questo il fine, non tramutare in racconto i pregiudizi o trasformare la mobilità delle opinioni nel vangelo del partito preso. […]

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