Hubert Selby Jr.
Hubert Selby Jr.
di Stefano I. Bianchi
LA SCRITTURA è un dono; come ogni forma d’arte non l’impari a scuola perché non esiste una scuola che te la possa insegnare. La New York cerebrale della borghesia intellettuale di Woody Allen. La New York disanimata degli yuppies cinici e violenti di Bret Easton Ellis. La New York disadattata e disperata di Hubert Selby Jr., che aveva nel sangue il dono e la scrittura.
“Posso dire che la mia vita in gran parte è stata una storia horror. Ho fatto queste esperienze. Ho avuto un sacco di problemi. Molti sono stati fisici, altri emotivi. Non sono uno scrittore naturale; e neanche un lettore naturale; non sono un grande meccanico; non sono un atleta eccezionale; non sono un buon artigiano, non so disegnare, non ho alcun talento naturale. Ma ho sempre avuto l’ossessione di fare qualcosa nella mia vita prima di morire. Così comprai una macchina per scrivere e incominciai a buttar giù nero su bianco. Non avevo mai scritto niente prima d’allora, anche leggere avevo letto poco, e non avevo nemmeno un’idea chiara di cosa volevo scrivere. Sapevo solo una cosa: che dovevo assolutamente farlo. Quindi mi misi a sedere davanti alla macchina per scrivere ogni giorno per sei anni fino a che non imparai. Non posso dire che l’abilità non fosse già lì in qualche maniera, è ovvio. Immagino che fosse lì e che io dovessi solo sputare sangue per metterla in moto, animarla, nutrirla, amarla. Non so dire altro, so solo che fu un lavoro bestiale. Dato che ho questa vita che mi fa soffrire così tanto, questi demoni e questa miseria dentro di me, almeno posso farci qualcosa. Fu così. Diciamo che si trattò di una specie di catarsi.”
Molti hanno ipotizzato le prossimità di Selby definendolo di volta in volta erede di Jean Genet (non direi), Jack Kerouac (ben poco), John Fante (niente), William Burroughs (qualcosa), Henry Miller (non direi) e Céline (un po’ sì) o padre di Irvine Welsh (mah) e Charles Bukowski (zero). Selby fu invece uno scrittore così originale da rivelare un solo parallelo, ma nella musica: i Velvet Underground, dei quali si può considerare l’alter ego su carta. Non a caso era lo scrittore più amato da Lou Reed, che per tutta la vita non fece altro che raccontare le storie dei personaggi di Selby mettendole in musica.
“Era il mio eroe. Quando iniziai a scrivere le mie prime canzoni volevo fare nel rock’n’roll quello che Hubert Selby aveva fatto nella letteratura - raccontare tutto in maniera assolutamente onesta, integrale, senza alcuna mediazione.”
Il primo dei due elementi costitutivi dell’universo di Selby è la forma. Quando si presenta con “Ultima fermata a Brooklyn” la sua scrittura è un magma bollente composto da neologismi pescati nello slang, sgrammaticature, rivolte sintattiche, giochi grafici, concitazioni, rilassamenti, rimescolamenti, capovolte, capogiri. […]
…segue per 14 pagine nel numero 191 di Blow Up, in edicola ad Aprile 2014 al costo di 6 euro
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
“Posso dire che la mia vita in gran parte è stata una storia horror. Ho fatto queste esperienze. Ho avuto un sacco di problemi. Molti sono stati fisici, altri emotivi. Non sono uno scrittore naturale; e neanche un lettore naturale; non sono un grande meccanico; non sono un atleta eccezionale; non sono un buon artigiano, non so disegnare, non ho alcun talento naturale. Ma ho sempre avuto l’ossessione di fare qualcosa nella mia vita prima di morire. Così comprai una macchina per scrivere e incominciai a buttar giù nero su bianco. Non avevo mai scritto niente prima d’allora, anche leggere avevo letto poco, e non avevo nemmeno un’idea chiara di cosa volevo scrivere. Sapevo solo una cosa: che dovevo assolutamente farlo. Quindi mi misi a sedere davanti alla macchina per scrivere ogni giorno per sei anni fino a che non imparai. Non posso dire che l’abilità non fosse già lì in qualche maniera, è ovvio. Immagino che fosse lì e che io dovessi solo sputare sangue per metterla in moto, animarla, nutrirla, amarla. Non so dire altro, so solo che fu un lavoro bestiale. Dato che ho questa vita che mi fa soffrire così tanto, questi demoni e questa miseria dentro di me, almeno posso farci qualcosa. Fu così. Diciamo che si trattò di una specie di catarsi.”
Molti hanno ipotizzato le prossimità di Selby definendolo di volta in volta erede di Jean Genet (non direi), Jack Kerouac (ben poco), John Fante (niente), William Burroughs (qualcosa), Henry Miller (non direi) e Céline (un po’ sì) o padre di Irvine Welsh (mah) e Charles Bukowski (zero). Selby fu invece uno scrittore così originale da rivelare un solo parallelo, ma nella musica: i Velvet Underground, dei quali si può considerare l’alter ego su carta. Non a caso era lo scrittore più amato da Lou Reed, che per tutta la vita non fece altro che raccontare le storie dei personaggi di Selby mettendole in musica.
“Era il mio eroe. Quando iniziai a scrivere le mie prime canzoni volevo fare nel rock’n’roll quello che Hubert Selby aveva fatto nella letteratura - raccontare tutto in maniera assolutamente onesta, integrale, senza alcuna mediazione.”
Il primo dei due elementi costitutivi dell’universo di Selby è la forma. Quando si presenta con “Ultima fermata a Brooklyn” la sua scrittura è un magma bollente composto da neologismi pescati nello slang, sgrammaticature, rivolte sintattiche, giochi grafici, concitazioni, rilassamenti, rimescolamenti, capovolte, capogiri. […]
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000