HONG KONG CINEMA 1977-1013
HONG KONG CINEMA 1977-1013
Michelangelo Pasini, Roberto Curti, Matteo Di Giulio, Raffaele Meale, Stefano Locati, Michele Senesi
[nella foto: dal film Infernal Affairs]
I due volti di Hong Kong
Il cinema cantonese dopo il 1997
di Michelangelo Pasini
CI SONO MOMENTI nei quali ci si rende conto che è giunto il momento di tirare le somme. A volte arrivano in concomitanza di date o eventi particolarmente importanti, altre giungono in occasioni puramente simboliche. E la massiccia presenza di Motorway alla trentaduesima edizione degli Hong Kong Film Awards fa parte di questo secondo caso. Il mediocre film di Soi Cheang, che comunque non ha ottenuto particolari riconoscimenti, era in lizza per aggiudicarsi tra gli altri il premio come Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Montaggio. Alcune opere precedenti del regista, come Accident (2009) e Dog Bite Dog (2006), assai più meritevoli, non sono invece state considerate di più tanto dalla giuria. Posto che la vittoria (né tanto meno la nomination) di una pellicola agli Oscar di Hong Kong non è sinonimo di qualità, quello che è accaduto quest’anno ci costringe comunque ad un ragionamento. Perché nel 2012 un film praticamente senza sceneggiatura, con un ritmo deludente, dotato solo di qualche idea registica e poca atmosfera, ha goduto di così tanti riscontri? Sostenere che quello appena passato sia stato un anno così infelice per il cinema dell’ex colonia britannica da far emergere anche un film poco brillante come Motorway, è una risposta decisamente semplicistica. Le vere ragioni sono invece da ricercarsi, ancora una volta, in quel gigante la cui ascesa da diversi anni terrorizza mezzo mondo. La Cina.
Se fino a qualche anno fa a Hong Kong esisteva un cinema che adesso non c'è più, è (anche) a causa della crescita del colosso cinese e di tutto quel che ne concerne. Non parliamo tanto di un abbassamento qualitativo dei film (elemento comunque centrale ed innegabile), ma di un cambiamento che riguarda la produzione, la ricezione e le aspettative degli spettatori. Per capire come è mutata la settima arte nel “porto fragrante” è però necessario un piccolo passo indietro.
Hong Kong è entrato nell'immaginario collettivo per la sua sovrappopolazione (oltre sette milioni di persone in poco più di mille chilometri quadrati), per essere una delle locomotive economiche e finanziarie dell’estremo Oriente e per i film di kung-fu, con Bruce Lee come icona del genere. Ma il cinema di arti marziali è stata solo una delle tante eccellenze che storicamente hanno caratterizzato la produzione cantonese. Perché anche commedie, wuxia (volgarmente tradotto come “cappa e spada”, più volte incensato da Quentin Tarantino), polizieschi e film di gangster hanno fatto la fortuna di un'industria che ha da sempre affondato le proprie radici nel cinema di genere.
Numeri impressionanti, quelli dell'ex colonia britannica: basti pensare che tra la fine degli anni ‘40 e gli ultimi dei ‘60 a Hong Kong si producevano oltre duecento pellicole all'anno e sopravviveva uno star system autonomo e particolarmente sviluppato. Tutto questo in uno stato con superficie pari a un terzo della Valle d'Aosta. Fino a una decina di anni fa, il cinema cantonese era sinonimo di produzione in quantità da un'industria indubbiamente florida, ma anche di qualità, esportabile in tutto il mondo, con nomi quali John Woo, Wong Kar-wai, Johnnie To… Cosa ne è di quei registi che a fine anni ‘70 si rendono conto del momento di stasi attraversato dal cinema cantonese e danno vita alla new wave, una rivoluzione che si «forgia all’interno del cinema di genere, dove le forme e le convenzioni vengono contenutisticamente e stilisticamente riviste per incontrare le necessità di un pubblico moderno come quello degli anni ottanta»? Che ne è dei vent'anni successivi, in cui la dimensione squisitamente popolare del cinema di Hong Kong si fonde con una visionarietà e una spinta creativa fuori dal comune capace di dare vita a quello per molti critici e storici è stato il cinema più bello e libero del mondo? Il gigante cinese è passato assorbendo, inglobando e fagocitando tutto? Non esattamente. […]
…segue per 14 pagine nel numero 182/183 di Blow Up, in edicola nei mesi di Luglio/Agosto 2013 al costo di 8 euro: uscita speciale estate di 196 pagine!
• Se non lo trovate in edicola potete ordinarlo direttamente dal nostro sito (BU#182/183) al costo di 10 euro - spese postali incluse - e vi verrà spedito immediatamente via posta prioritaria. Se lo richiedete dopo il mese di riferimento dell’uscita vi verrà spedito, come ogni altro arretrato, con il primo invio mensile di abbonamenti e arretrati.
• Il modo migliore, più rapido, sicuro ed economico per avere Blow Up è l’abbonamento: risparmiate minimo 16 euro sul prezzo di copertina e avete la certezza di non perdere neanche uno dei numeri pubblicati garantendovi tutti gli eventuali allegati e i numeri speciali; in caso di eccessivo ritardo o smarrimento postale ve lo spediremo di nuovo.
Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
[nella foto: dal film Infernal Affairs]
I due volti di Hong Kong
Il cinema cantonese dopo il 1997
di Michelangelo Pasini
CI SONO MOMENTI nei quali ci si rende conto che è giunto il momento di tirare le somme. A volte arrivano in concomitanza di date o eventi particolarmente importanti, altre giungono in occasioni puramente simboliche. E la massiccia presenza di Motorway alla trentaduesima edizione degli Hong Kong Film Awards fa parte di questo secondo caso. Il mediocre film di Soi Cheang, che comunque non ha ottenuto particolari riconoscimenti, era in lizza per aggiudicarsi tra gli altri il premio come Miglior Film, Miglior Regia e Miglior Montaggio. Alcune opere precedenti del regista, come Accident (2009) e Dog Bite Dog (2006), assai più meritevoli, non sono invece state considerate di più tanto dalla giuria. Posto che la vittoria (né tanto meno la nomination) di una pellicola agli Oscar di Hong Kong non è sinonimo di qualità, quello che è accaduto quest’anno ci costringe comunque ad un ragionamento. Perché nel 2012 un film praticamente senza sceneggiatura, con un ritmo deludente, dotato solo di qualche idea registica e poca atmosfera, ha goduto di così tanti riscontri? Sostenere che quello appena passato sia stato un anno così infelice per il cinema dell’ex colonia britannica da far emergere anche un film poco brillante come Motorway, è una risposta decisamente semplicistica. Le vere ragioni sono invece da ricercarsi, ancora una volta, in quel gigante la cui ascesa da diversi anni terrorizza mezzo mondo. La Cina.
Se fino a qualche anno fa a Hong Kong esisteva un cinema che adesso non c'è più, è (anche) a causa della crescita del colosso cinese e di tutto quel che ne concerne. Non parliamo tanto di un abbassamento qualitativo dei film (elemento comunque centrale ed innegabile), ma di un cambiamento che riguarda la produzione, la ricezione e le aspettative degli spettatori. Per capire come è mutata la settima arte nel “porto fragrante” è però necessario un piccolo passo indietro.
Hong Kong è entrato nell'immaginario collettivo per la sua sovrappopolazione (oltre sette milioni di persone in poco più di mille chilometri quadrati), per essere una delle locomotive economiche e finanziarie dell’estremo Oriente e per i film di kung-fu, con Bruce Lee come icona del genere. Ma il cinema di arti marziali è stata solo una delle tante eccellenze che storicamente hanno caratterizzato la produzione cantonese. Perché anche commedie, wuxia (volgarmente tradotto come “cappa e spada”, più volte incensato da Quentin Tarantino), polizieschi e film di gangster hanno fatto la fortuna di un'industria che ha da sempre affondato le proprie radici nel cinema di genere.
Numeri impressionanti, quelli dell'ex colonia britannica: basti pensare che tra la fine degli anni ‘40 e gli ultimi dei ‘60 a Hong Kong si producevano oltre duecento pellicole all'anno e sopravviveva uno star system autonomo e particolarmente sviluppato. Tutto questo in uno stato con superficie pari a un terzo della Valle d'Aosta. Fino a una decina di anni fa, il cinema cantonese era sinonimo di produzione in quantità da un'industria indubbiamente florida, ma anche di qualità, esportabile in tutto il mondo, con nomi quali John Woo, Wong Kar-wai, Johnnie To… Cosa ne è di quei registi che a fine anni ‘70 si rendono conto del momento di stasi attraversato dal cinema cantonese e danno vita alla new wave, una rivoluzione che si «forgia all’interno del cinema di genere, dove le forme e le convenzioni vengono contenutisticamente e stilisticamente riviste per incontrare le necessità di un pubblico moderno come quello degli anni ottanta»? Che ne è dei vent'anni successivi, in cui la dimensione squisitamente popolare del cinema di Hong Kong si fonde con una visionarietà e una spinta creativa fuori dal comune capace di dare vita a quello per molti critici e storici è stato il cinema più bello e libero del mondo? Il gigante cinese è passato assorbendo, inglobando e fagocitando tutto? Non esattamente. […]
…segue per 14 pagine nel numero 182/183 di Blow Up, in edicola nei mesi di Luglio/Agosto 2013 al costo di 8 euro: uscita speciale estate di 196 pagine!
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000