Hip-Hop Japan
Hip-Hop Japan
di Federico Savini
“L’uomo civilizzato elimina con il pensiero le sue difficoltà, o perlomeno crede di farlo, l’uomo primitivo le scaccia con la danza”. A scriverlo è Harry Smith, nelle note introduttive dell’”Anthology of American Folk Music”, nel 1952. Ed è stato proprio lo scarso grado di “civilizzazione” del Bronx vent’anni più tardi a partorire l’ultima grande rivoluzione della musica popolare, il rap, che è riuscito meglio di ogni altra musica a fondere ballo e denuncia sociale, edonismo e politica. A orecchie opportunamente scolarizzate una cosa come The Message di Grandmaster Flash dovrebbe suonare “sbagliata”. Quell’electro-funk irresistibile cela l’impietosa cronaca della vita del ghetto in modo quasi fraudolento, diabolico. Sembra una contraddizione d’intenti ma evidentemente non lo è, e per accettarlo non basta pensare che si tratti di una “nuova musica”, occorre proprio una nuova cultura. Ma quella, in effetti, c’era già: non contemplava solo la musica e si chiamava hip-hop.
Le culture, però, come le musiche si può cercare di trapiantarle, e quando una simile rivoluzione espressiva colpisce al cuore un’altra cultura, lontana ma curiosissima di confrontarsi con l’Occidente, allora può accadere di tutto. L’evoluzione e il successo dell’hip-hop in Giappone, paese così alieno al mondo dei b-boys per estetica, cultura e contesto socio-economico, è un formidabile esempio di “glocalizzazione”, nonchè un intrigante rompicapo per sociologi e antropologi. Ma si tratta anche di un banco di prova musicale che sgretola ogni luogo comune sull’hip-hop.
Non so voi, ma a me dell’hip-hop sono sempre interessate le apparenti contraddizioni, a cominciare dalla presunta “purezza” di una scena che ostenta codici etici rigorosi, ma vede anche nell’affermazione economica una delle scappatoie più naturali per le rivendicazioni sociali. Quelle commerciali sono dunque delle “derive”? Tradimenti della missione civile originaria? Difficile dirlo in assoluto, anche perchè non esiste un unico e indisputato padre storico e intellettuale del rap (Kool Herc? i Last Poets? Gil Scott Heron?) ed è anche per questo che l’hip-hop è un fenomeno realmente popolare. […]
…segue per 16 pagine nel numero 212 di Blow Up, in edicola a Gennaio 2016 al costo di 6 euro
• Se non lo trovate in edicola potete ordinarlo direttamente dal nostro sito (BU#212) al costo di 10 euro - spese postali incluse - e vi verrà spedito immediatamente via posta prioritaria. Se lo richiedete dopo il mese di riferimento dell’uscita vi verrà spedito, come ogni altro arretrato, con il primo invio mensile di abbonamenti e arretrati.
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
“L’uomo civilizzato elimina con il pensiero le sue difficoltà, o perlomeno crede di farlo, l’uomo primitivo le scaccia con la danza”. A scriverlo è Harry Smith, nelle note introduttive dell’”Anthology of American Folk Music”, nel 1952. Ed è stato proprio lo scarso grado di “civilizzazione” del Bronx vent’anni più tardi a partorire l’ultima grande rivoluzione della musica popolare, il rap, che è riuscito meglio di ogni altra musica a fondere ballo e denuncia sociale, edonismo e politica. A orecchie opportunamente scolarizzate una cosa come The Message di Grandmaster Flash dovrebbe suonare “sbagliata”. Quell’electro-funk irresistibile cela l’impietosa cronaca della vita del ghetto in modo quasi fraudolento, diabolico. Sembra una contraddizione d’intenti ma evidentemente non lo è, e per accettarlo non basta pensare che si tratti di una “nuova musica”, occorre proprio una nuova cultura. Ma quella, in effetti, c’era già: non contemplava solo la musica e si chiamava hip-hop.
Le culture, però, come le musiche si può cercare di trapiantarle, e quando una simile rivoluzione espressiva colpisce al cuore un’altra cultura, lontana ma curiosissima di confrontarsi con l’Occidente, allora può accadere di tutto. L’evoluzione e il successo dell’hip-hop in Giappone, paese così alieno al mondo dei b-boys per estetica, cultura e contesto socio-economico, è un formidabile esempio di “glocalizzazione”, nonchè un intrigante rompicapo per sociologi e antropologi. Ma si tratta anche di un banco di prova musicale che sgretola ogni luogo comune sull’hip-hop.
Non so voi, ma a me dell’hip-hop sono sempre interessate le apparenti contraddizioni, a cominciare dalla presunta “purezza” di una scena che ostenta codici etici rigorosi, ma vede anche nell’affermazione economica una delle scappatoie più naturali per le rivendicazioni sociali. Quelle commerciali sono dunque delle “derive”? Tradimenti della missione civile originaria? Difficile dirlo in assoluto, anche perchè non esiste un unico e indisputato padre storico e intellettuale del rap (Kool Herc? i Last Poets? Gil Scott Heron?) ed è anche per questo che l’hip-hop è un fenomeno realmente popolare. […]
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000