HASIL ADKINS
HASIL ADKINS
Federico Savini
Outsiders #13
PER RICONOSCERE UNA CANZONE di Hasil Adkins di solito occorre dal secondo e mezzo ai tre secondi. Di quanti altri potreste dirlo? “Wild Man” Adkins è una delle più solide certezze che gli annali del rock (e le loro note a piè di pagina) ci abbiano regalato, anche perché parliamo di un “archetipo vivente”. La buonanima di Hasil è infatti stato, per gli anni che il Signore ha voluto concedergli, l’incarnazione esatta del “buon selvaggio americano”, e già che c’era il nostro ha trovato anche il tempo di farsi eleggere come padre ignobile di un intero sottogenere musicale: il fantomatico psychobilly, con tanto di certificazione vidimata in differita dai Cramps.
Un personaggio semileggendario, ad ogni modo, che può vantare una biografia degna di un bluesman degli anni ’20 e un profilo da outsider al di sopra di ogni sospetto. E se non fosse stato per le registrazioni casalinghe che riuscì (miracolosamente) a effettuare dalla metà degli anni ‘50, probabilmente avremmo solo congetture sulla musica che suonava da giovane, così la sua parabola artistica sarebbe stata del tutto simile a quella degli sfortunati bluesmen dell’anteguerra che videro una sala d’incisione solo negli anni del folk revival. Una riscoperta della musica delle radici, quella avvenuta negli anni ’60, che non toccò minimamente il buon Hasil: il nostro uomo era troppo giovane e la sua musica troppo sgangherata per irretire le fini teste pensanti del folk revival, ma soprattutto non è di blues e di filologia che stiamo parlando, ma della più primitiva e selvaggia forma di rock’n’roll che si fosse mai ascoltata prima. Prima dell’inizio degli anni ’80, s’intende, quando grazie ai Cramps e a un interesse crescente nei confronti della cultura pop più becera e del cinema di exploitation, prese forma un corpus iconografico perfetto per il neo-battezzato psychobilly e per buona parte del garage-rock a venire. Questo immaginario fatto di hot-rods fiammeggianti, film dell’orrore sanguinolenti e ragazzine discinte insidiate da alieni depravati calzava ad Hasil Adkins come un guanto. E il motivo è semplice: “The Haze” in questo mondo ci aveva sempre vissuto. Lui, il cantore disgraziato di un’umanità retrograda e tagliata fuori dal resto del mondo, improvvisamente stava un passo avanti a tutti…
…segue per 4 pagine nel numero 173 di Blow Up, in edicola nel mese di ottobre 2012 al costo di 6 euro.
• Se non lo trovate in edicola potete ordinarlo direttamente dal nostro sito (BU#173) al costo di 10 euro - spese postali incluse - e vi verrà spedito immediatamente via posta prioritaria. Se lo richiedete dopo il mese di riferimento dell’uscita vi verrà spedito, come ogni altro arretrato, con l’invio mensile di abbonamenti e arretrati.
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Ogni mese Blow Up propone monografie, interviste, articoli, indagini e riflessioni su dischi, libri, film, musicisti, autori letterari e cinematografici scritti dalle migliori penne della critica italiana.
PER RICONOSCERE UNA CANZONE di Hasil Adkins di solito occorre dal secondo e mezzo ai tre secondi. Di quanti altri potreste dirlo? “Wild Man” Adkins è una delle più solide certezze che gli annali del rock (e le loro note a piè di pagina) ci abbiano regalato, anche perché parliamo di un “archetipo vivente”. La buonanima di Hasil è infatti stato, per gli anni che il Signore ha voluto concedergli, l’incarnazione esatta del “buon selvaggio americano”, e già che c’era il nostro ha trovato anche il tempo di farsi eleggere come padre ignobile di un intero sottogenere musicale: il fantomatico psychobilly, con tanto di certificazione vidimata in differita dai Cramps.
Un personaggio semileggendario, ad ogni modo, che può vantare una biografia degna di un bluesman degli anni ’20 e un profilo da outsider al di sopra di ogni sospetto. E se non fosse stato per le registrazioni casalinghe che riuscì (miracolosamente) a effettuare dalla metà degli anni ‘50, probabilmente avremmo solo congetture sulla musica che suonava da giovane, così la sua parabola artistica sarebbe stata del tutto simile a quella degli sfortunati bluesmen dell’anteguerra che videro una sala d’incisione solo negli anni del folk revival. Una riscoperta della musica delle radici, quella avvenuta negli anni ’60, che non toccò minimamente il buon Hasil: il nostro uomo era troppo giovane e la sua musica troppo sgangherata per irretire le fini teste pensanti del folk revival, ma soprattutto non è di blues e di filologia che stiamo parlando, ma della più primitiva e selvaggia forma di rock’n’roll che si fosse mai ascoltata prima. Prima dell’inizio degli anni ’80, s’intende, quando grazie ai Cramps e a un interesse crescente nei confronti della cultura pop più becera e del cinema di exploitation, prese forma un corpus iconografico perfetto per il neo-battezzato psychobilly e per buona parte del garage-rock a venire. Questo immaginario fatto di hot-rods fiammeggianti, film dell’orrore sanguinolenti e ragazzine discinte insidiate da alieni depravati calzava ad Hasil Adkins come un guanto. E il motivo è semplice: “The Haze” in questo mondo ci aveva sempre vissuto. Lui, il cantore disgraziato di un’umanità retrograda e tagliata fuori dal resto del mondo, improvvisamente stava un passo avanti a tutti…
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TUTTLE Edizioni - P.iva 01637420512 - iscrizione rea n. 127533 del 14 Gennaio 2000