Gil Scott-Heron
Gil Scott-Heron
di Carlo Babando

Il poeta è maledetto ma solo perché lo ha deciso qualcuno, e tu non eri tipo da accettare imposizioni dall’alto. Neanche una questione di testa, come molti hanno voluto semplificare; era molto di più e forse molto di meno, perché sei finito nel peggiore dei modi, perché hai buttato nel cesso tutto ciò che avevi fatto e ancora peggio tutto ciò che avevi detto. Non ti perdoneremo mai Gil, questo è quanto.

Could you call on Lady Day,
Could you call on John Coltrane
Now ‘cause they'll
They'll wash your troubles
Your troubles your troubles
Your troubles away!
(Lady Day And John Coltrane; “Pieces Of A Man”)

La vicenda umana di Gilbert Scott-Heron è complicata, paradossale. Comincerebbe in Tennessee, ma invece ha più senso farla iniziare a Chicago nella primavera del 1949. Era nato il primo di aprile in una sala parto del Provident Hospital della Windy City: mica tanto da scherzare per la signorina Bobbie Scott e Giles Heron, visto che le cose tra loro due sarebbero precipitate di lì a poco e forse in larga parte proprio a causa di quel bambolotto. Lui decise che gli avrebbe dato il suo stesso nome, magari venendo a patti con il fatto che, a differenza sua e dei suoi sette fratelli, il bimbo non avrebbe dovuto accollarsi anche il secondo nome Saint-Elmo. Già, perché il neo papà aveva origini giamaicane e da quelle parti Sant’Elmo ha una certa importanza. Non un tipo da ridere Giles, ex pugile e avvezzo a misurarsi con praticamente ogni tipo di competizione atletica era finito per diventare il primo calciatore afroamericano ad entrare tra le fila del Celtic di Glascow. L’alba degli anni cinquanta e “Black Arrow”, come lo soprannominarono per la sua velocità sovrumana, si destreggiò con consumata eleganza sui perimetri d’erba di entrambe le sponde dell’oceano tanto da entrare nella mitologia del calcio scozzese. Il figlio non lo vedrà mai giocare ma ne assorbirà i racconti di partite ed esilaranti avventure con i compagni di squadra in quelle due o tre tonnellate di parole che l’uomo non risparmiava di buttare fuori dal petto ogni volta che qualcuno gli chiedesse del suo passato, cosa che peraltro non smise di fare fino alla veneranda età di ottantasei anni. Bobbie Scott invece non era una sportiva e probabilmente la si sarebbe potuta definire una tipa di poche parole: laureata al college in un momento non facilissimo se avevi la pelle color cioccolato e per di più eri anche una donna, di football e cose del genere se ne era vagamente interessata ma non spingendosi mai troppo oltre la pista da bowling. Andavano abbastanza d’accordo i due, anche se lui era una testa calda difficile da domare, soprattutto quando l’obiettivo era tramutarlo in un buon padre per tuo figlio. Si sa tuttavia che andare d’accordo non è mai abbastanza, e la famiglia restò unita meno di due anni, allorché Giles andò per la sua strada ad inseguire sogni di gloria nel campionato britannico mentre il piccolo Gilbert finì a vivere a casa di nonna, a South Cumberland Street, Jackson. Tennessee, per l’appunto. La madre di Bobbie, Lily Scott, era andata a prendersi il nipotino direttamente a Chicago per poi riportarselo giù al sud in treno; in teoria doveva essere una questione di qualche mese, giusto per capire se la situazione tra i ragazzi potesse sistemarsi, in realtà durò oltre un decennio. […]

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