Gerald Murnane
Gerald Murnane
di Fabio Zucchella

Da qualche anno, ormai, l’ottantenne Gerald Murnane si è volontariamente inabissato nella remota vastità della sua nativa Australia.
Scrittore per il quale la menzogna della fiction è l’unica realtà possibile, eccentrico outsider o ignorato maestro, Murnane è famoso per non essere famoso (come quell’altro Grande, William Gaddis). Fino a pochi anni fa non lo era neppure nel proprio paese d’origine: nel 1999, per dire, tutti i suoi libri erano fuori catalogo. Tanto che decise di smettere di scrivere – o meglio, di interrompere la scrittura di ciò che riteneva adatto alla pubblicazione (perché in realtà da cinquant’anni Murnane rifornisce il suo archivio personale di appunti, lettere, note, divagazioni, pezzi di romanzi scartati dagli editori, poesie, giochi di sua invenzione, diagrammi – insomma un’enorme mole di materiale che in futuro sarà la gioia dei suoi studiosi).
Si trattò di una pausa temporanea, superata pochi anni dopo a seguito di un inaspettato risveglio dell’interesse critico in Australia e soprattutto negli Stati Uniti (ah, l’oscillazione del gusto), dove una piccola schiera di ammiratori autorevoli l’ha sottoposto all’attenzione dei lettori più avveduti (da Teju Cole a John Coetzee e Ben Lerner). Dunque gli articoli sul “New Yorker”, il “New York Times” e la “Paris Review” – senza contare un editore come Farrar, Straus and Giroux, che due anni fa ha iniziato a ripubblicare alcuni titoli di Murnane (il primo romanzo, Tamarisk Row, del 1974, e l’ultimo, Border Districts, del 2017 – oltre alla straordinaria raccolta di racconti Stream System) favorendo la sua scoperta anche in questa parte dell’emisfero – operazione iniziata in realtà negli Stati Uniti nel 2011, quando la sempre meritoria Dalkey Archive Press aveva ristampato Barley Patch, un romanzo del 2009. […]

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