Funkin' Jazz
Funkin' Jazz
di Piercarlo Poggio

[nell'immagine: Herbie Hancock e la sua band, 1975]

Ancora oggi una fetta di estimatori del jazz, ortodosso o d’avanguardia poco importa, dà scarso credito al funk, preferendo non interloquisca con la musica che ama. Eppure le due entità sono state allacciate sin dall’inizio delle rispettive vicende, nutrendosi l’una dell’altra almeno a livello terminologico. Dizionari, enciclopedie e saggi sono concordi nel ritenere il funk, come lo conosciamo a partire dalla metà dei Sessanta, un concentrato malandrino di elementi gospel, soul, r’n’b e jazz, che pone l’accento sul downbeat – la prima battuta (“The One”) di ogni misura – e toglie importanza alla melodia per enfatizzare il groove ritmico veicolato da basso elettrico e batteria, a cui devono adeguarsi il resto degli strumenti e pure il cantato. La parola “funk” non nacque però nei Sixties: proveniva dalla tradizione orale afroamericana e la si incontra in ambito musicale già a inizio Novecento – Funky Butt si intitolava un brano del leggendario cornettista Buddy Bolden – e apparve nel jazz con una certa costanza a partire dagli anni Cinquanta, come si evince dalle composizioni di Horace Silver (Opus de Funk), Hank Mobley (Funk In Deep Freeze), Clark Terry (Funky) e Kenny Drew (Funk-Cosity). E non era un semplice vezzo linguistico se Alfred Lion, patron della Blue Note, ardiva di contrassegnare con l’aggettivo “funky” la musica di Silver, nell’intenzione di definirne il particolare stile pianistico, percussivo e dalla potente coloritura armonica. Un’attrazione naturale e reciproca dunque quella tra jazz e funk che, pur estendendosi anche nei decenni successivi, trovò il suo culmine in quei Settanta inclini in massimo grado alla sperimentazione e all’incontro tra i generi. Nel 1980 il chitarrista James Blood Ulmer, non si sa quanto consapevolmente, marchiò come meglio non avrebbe potuto quanto si era ascoltato nei dieci anni precedenti con un brano contenuto in “Are You Glad To Be In America?”: Jazz Is The Teacher (Funk Is The Preacher).

Dalla “borsa nuova di zecca” di James Brown agli “ex-crociati del jazz”
L’affioramento del funk nei Sessanta ebbe diramazioni molteplici, e a Memphis (Booker T. & The MG’s) come a New Orleans (il vocalist r’n’b Lee Dorsey e i Meters prodotti da Allen Toussaint), a Phoenix (Dyke And The Blazers con la loro Funky Broadway, 1967) e sulla West Coast (Charles Wright & The Watts 103rd Street Rhythm Band), non serviva il microscopio per scorgerne i primi sussulti. Lo sanno anche i sassi però che fu James Brown a inventare il funk o almeno a scolpirlo nei suoi tratti più riconoscibili nonché, non bisogna scordarlo, a renderlo bandiera degli afroamericani non integrati, pieni di rabbia dopo le uccisioni di Malcom X e Martin Luther King. Anche se, come documenta con accuratezza il film di David Leaf “The Night James Brown Saved Boston” (2008), furono proprio il funk e Brown stesso, esibendosi in concerto a Boston il 5 aprile 1968, ventiquattr’ore dopo l’assassinio del reverendo, a canalizzare la collera, calmare le acque e a far sì che la città non venisse messa a ferro e fuoco come già altre negli Stati Uniti. […]

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