Ennio Flaiano
Ennio Flaiano
di Matteo Moca

In un breve racconto del 1946, intitolato Uno sconosciuto e contenuto in Diario notturno, Ennio Flaiano mette in scena un dialogo tra due uomini che si incrociano con uno di questi convinto di conoscere l'altro. Cominciano allora una serie di domande per capire da dove nasce quella suggestione, se da un incontro fortuito in biblioteca, dal servizio militare o da un ritrovo del centro, ma non c'è corrispondenza e la sensazione è destinata a rimanere senza seguito, «una curiosa conoscenza che non può essere provata». In quel preciso momento però la narrazione sembra sublimarsi e dalla quotidianità puntare verso un assoluto perché alla domanda del giovane se tutto va bene, il protagonista dà una risposta che esula dal momento e prende un valore quasi sapienziale: «Certo, tutto bene. Ma gli anni passano e abbiamo dimenticato nomi e luoghi che pure ebbero una certa importanza. Ora è come se non fossimo più noi. È abbastanza triste, no?».
In questo particolare tipo di tristezza di cui parla il giovane Flaiano sembra condensarsi molto di più di una fugace macchinazione letteraria e nascondersi forse un atteggiamento che caratterizzerà una vita intera, spesa nella malinconia ma, soprattutto, in una dissimulazione perpetua che è tentativo di nascondere, o corteggiare, un'insufficienza, un rimpianto che non ha nulla di nostalgico ma che si piega piuttosto verso l'impossibilità di sapere veramente chi si è e quale il nostro compito nel mondo. Qui si cela forse la natura più pura della vita e dell'opera di Flaiano, un mistero che sfugge a qualsiasi tentativo di catalogazione e che, purtroppo, spesso viene appiattita in una lunga sequela di frasi fatte che non danno giustizia a uno dei pensieri più tragici e luminosi del Novecento italiano. Le sembianze dell'aforisma e l'andamento apologetico di tante sue pagine rischiano continuamente di confondere il lettore, in una distorsione percettiva che probabilmente lo scrittore per primo ha finito per alimentare: «non era – ha scritto Pietro Citati – un giornalista, come molti credevano: ma un vero scrittore che, per tutta la vita, chissà per quale ragione, si mascherò da giornalista: gli piaceva nascondersi, cambiare nome, fingere di essere un altro». Indossare una maschera pare essere stata l'attività prediletta di Flaiano e così ogni suo articolo, ogni suo racconto e ogni suo frammento sembrano offrirsi a questa messinscena che è una trappola che lo scrittore, con suo sommo divertimento, sembra ogni volta costruire, ma è anche dichiarazione di una impossibile appartenenza. Anche quando vinse il Premio Strega, nella sua edizione inaugurale del 1947, tornando a casa da solo lo scrittore si interroga su quanto fosse lecito assegnare a lui quel premio, sentendosi ancora fuori posto, malinconico nonostante la vittoria, convinto che forse nessuno aveva inteso il suo romanzo, Tempo di uccidere, e che «ogni successo, in fondo, è un malinteso» e che «il mio modesto successo ha tutta l'aria di essere anche l'ultimo». […]

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