David Thomson
David Thomson
di Maurizio Bianchini

QUELLA PROMESSA nel sottotitolo di La formula perfetta di David Thomson – “Una storia di Hollywood” – non è la solita storia di Hollywood – i cento film più belli scelti dai critici; i mille pettegolezzi e scandali riportati dalle quinte colonne; la macchina commerciale arraffasoldi; il sesso, l’alcol e i paradisi artificiali degli happy few; una città di 8 milioni di abitanti come set. È tutte queste cose nello stesso tempo, e altre ancora più sofisticate. È un percorso a volte intricato che prova a svelare come e perché un prodotto dell’industria culturale che anela all’arte, a volte, ma sempre a riempire di pubblico le sale di proiezione, abbia occupato un posto così importante nella vita di tanta gente semplicemente trasferendone sul grande schermo le proiezioni mentali e rendendo così, per la durata di un film, reale la materia di cui sono fatti i film. Che sia riuscito in buona misura nell’impresa basta a far gridare al miracolo.

1.
Per sgombrare il campo dagli equivoci: La formula perfetta (The Whole Equation in originale) non offre affatto la formula sacramentale di quello ‘stato di grazia’ che ha reso nel tempo un certo numero di film americani meccanismi perfetti di translitterazione onirica della realtà. E questo perché ognuno di quei film era la formula perfetta, sì, ma solo di sé stesso – l’equazione ad n incognite (“‘arte’, ‘verità’ e ‘integrità,’ ma anche ‘successo’, ‘profitto’ e ‘fama’”) felicemente risolta, e in cui s’incastra tutto: il mestiere, l’ispirazione e il caso; la produzione, il budget, la bravura degli attori, il set; il soggetto, la sceneggiatura, la regia e quanto non rientra in alcun genere (dal clima politico-sociale a quello atmosferico, alla predisposizione del pubblico a sognare ad occhi aperti). Così sono nati Via col vento, Il terzo uomo, Chinatown… Quarto potere. Tutto il resto, le formule che non hanno funzionato, non fino in fondo almeno, sono materia di studio accademica. […]

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