Bonnie Prince Billy
Bonnie Prince Billy
di Beppe Recchia

[nell'immagine: Bonnie Prince Billy, foto di Christian Hansen]

Will Oldham il musicista, Will Oldham l’attore, Will Oldham il buffone, Will Oldham il poeta. La sua traiettoria artistica resta ispida come la sua barba, anche se appena meno folta. Siamo stati noi ad esserci forse assuefatti alla sua presenza, alle sue esplorazioni dentro e fuori la sua personale reinterpretazione dei generi della musica americana. Mai lontano da queste pagine, in effetti, eppure era dalla pubblicazione di “Master and Everyone” del 2003 che non compariva in viva voce, quando, a ragione, veniva descritto come portavoce di una generazione che voleva esser senza faccia e che era distratta dal tempo. L’occasione è data dalla pubblicazione di “I Made A Place”, il primo disco di originali dai tempi di “Bonnie Prince Billy” del 2013, circolato però in maniera quasi clandestina, e addirittura otto anni dopo “Wolfroy Goes To Town”. Giusto per dare il senso della prospettiva, Angel Olsen al tempo era solo una corista. Se non è possibile raccontare tutti insieme i suoi ultimi dieci anni, lo si può cogliere nei suoi effetti, in una vita ormai stabile a Louisville nel Kentucky, tra i doveri di neo-genitore e la musica, sempre presente anche in casa. Ma in tante cose, nulla è cambiato in Will l’outsider. È una mattina di fine settembre, e l’unico argomento di cui non riusciremo a parlare, per mancanza di tempo, è la politica (ma basta cercare il video di People Living di un paio di anni fa che usava filmati degli scontri di Charlottesville per avere risposte più forti di tante parole).

La prima domanda è forse la più scontata. “I Made a Place” è il tuo primo album di canzoni originali dopo parecchi anni; a cosa si deve questa lunga attesa?
Comincerei col dirti che, benché sia considerato un musicista piuttosto prolifico, ogni disco è per me un vero impegno. Ci tengo moltissimo a concepirne il percorso, lo sviluppo della sua narrazione, dando per scontato forse un certo modo di fruirne. Ecco, proprio quest’ultimo aspetto è diventato per me il punto di crisi. Quando ho cominciato a fare questo mestiere, il modo in cui si ascoltavano i dischi era certamente molto diverso dal tipo di esperienza che oggi rappresenta “l’ascoltare musica”. Faccio davvero fatica a parlarne in termini di evoluzione ma la tendenza, innegabile, è così rapida e pervasiva da aver condizionato profondamente come la musica viene vissuta: una scelta di pochi - un modello di sfruttamento sarebbe meglio definirlo - immaginata da pochi per influenzare praticamente chiunque. […]

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