Bob Dylan - Forever Old
Bob Dylan - Forever Old
di Marco Sideri

[nell'immagine Bob Dylan, foto di Hedi Slimane]

Parlare di Bob
Bob Dylan è, non giriamoci intorno, BOB DYLAN (tutte maiuscolissime). Ha vinto il Nobel, conosciuto Kennedy, marciato per i diritti civili, cantato l’America, il disfacimento dell’America, l’amore, il disfacimento dell’amore e tutto quello che gira intorno ad America e amore (quindi, sottostimando, il 75% delle importazioni culturali europee del secolo scorso).
Parlare di BOB DYLAN è impresa piuttosto difficile. Per farlo, ti trovi davanti a un bivio, una versione critica e noiosa dell’incrocio giù in Mississippi dove il diavolo fece affari con Robert Johnson. Da una parte, si può usare il microscopio, ed è la strada che più di frequente viene scelta. Un momento, un disco, una canzone vengono vivisezionati fino all’infinitesimale. Chi ha pizzicato quella corda, che eco aveva lo studio, che tempo faceva quella notte.
È una tendenza assecondata dallo stesso Bob che pubblica (e vende) raccolte di spietata minuzia tramite le famose Bootleg Series, autobiografia artistica in espansione costante giocata su scatti laterali. Non i dischi, pubblicati con cadenza quasi woodyalleniana fin dai primi anni ’60 del ‘900; piuttosto una serie di istantanee sfocate e dettagli ingranditi che rendono l’opera dylaniana un flusso di coscienza unico. Volete ascoltare tutti i concerti di Bob con la neonata Band dell’anno 1966? Il box “The 1966 Live Recordings” vi permette di farlo, comodamente, con 36 bei CD per poco più di 100 euro. Vi piace Tangled Up In Blue (dovrebbe, forse è la canzone d’amore migliore di tutti i tempi)? Buon per voi: nel volume 14 delle Bootleg Series (“More Blood On The Tracks”, 2018) ne trovate 10 versioni. E via scavando.
Oppure, si può usare il cannocchiale. Guardare il cammino del Signor Dylan attraverso la musica americana dall’alto, vederlo infilarsi in autostrade e vie laterali, cambiare idea e tonalità, giocare con le rivoluzioni e i rivoluzionari, far arrabbiare i fedeli e poi riconquistarli con un colpo di chitarra o una fotografia arruffata. Prendere le distanze consente di palleggiare Dylan in modo armonico rispetto al suo comportamento. Significa utilizzare le briciole che lascia sul sentiero (dischi, bootleg, libri, film, lezioni e assenze) per disegnare qualcosa che non esiste. È un gioco rischioso, sempre sul filo del chissenefrega, per il semplice fatto che il grande assente, in questo tipo di analisi è Bob Dylan himself. Dylan non spiega. Non lo ha mai fatto: le interviste (poche) rilasciate nel corso degli anni sono al meglio insipide, affari controllatissimi da controspionaggio dove non si possono citare luoghi o particolari troppo personali e lui brilla per freddezza e medietà. Eppure tutti analizzano Bob. Penne venerabili (Greil Marcus), penne spazzatura (AJ Weberman che fondò una disciplina basata sul rovistare nei suoi rifiuti), penne letterate (che gli hanno dato il Nobel) e di celluloide (“Io non sono qui” di Todd Haynes, 2007, è forse il più bell’articolo che leggerete mai su Dylan).
Tutti vogliono parlare di Dylan, meno Dylan. Lui non è qui. […]

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