Bill Wells
Bill Wells
di Federico Savini

COSA SAREBBE il jazz senza la loop station? Cosa sarebbero le ninne nanne senza lo swing? Cosa sarebbe il glitch elettronico senza il calore del carillon? Cosa sarebbe la canzone naïf degli anni '50 senza una voce ebbra di disastro a interpretarla? Cosa sarebbero gli standard senza un interprete algido? Cosa sarebbe un trio se non implicasse dalle quattro persone in su? Cosa sarebbe l'indie-rock senza un arrangiatore d'altri tempi?
Non so voi, ma Bill Wells dev'essere uno che queste domande se l'è fatte un sacco di volte; se non altro a giudicare dalle risposte che si è dato. Il polistrumentista e compositore scozzese, classe 1963, è un po' il jolly dell'effervescente scena di Glasgow, e con il suo approccio che media disinvoltamente tra preparazione accademica e spericolatezze dell’inventiva, pone una questione fondamentale in merito alla musica cosiddetta “indie”; una questione che va ben al di là della dimensione scozzese. Quando, infatti, il termine “indie” aveva ancora una valenza “stilistica” - e non di mera collocazione discografica, com'è da una quindicina d'anni -, lo si utilizzava per definire una musica esteticamente figlia del punk, quindi sobria per non dire pauperistica negli arrangiamenti, lontana da ogni tentazione mainstream e più che mai da timbriche ed estetiche riconducibili all'idea di “folklore”, di qualsivoglia origine geografica; una musica figlia dell'individualismo borghese e dotata di un preventivo “filtro anti-kitsch” che marcasse la distanza da cartolinismi vintage e iconografie troppo riconoscibili (il Brasile così spesso evocato dalla musica di Bill Wells, per inciso, è sempre bossanovistico, quindi sofisticato e autoriale, non popolaresco). Rispetto al punk-rock strictu sensu, l’evo dell’indie introdusse un enorme ampliamento delle possibilità espressive, aprendo a sperimentazioni e possibilità che andavano ben oltre la velleitaria retorica settantasettina dei “tre accordi e via andare”; si tornò insomma alla stagione del “rock” - delle chitarre, degli ardori giovanili, della ribellione e del cantautorato -, senza impuntarsi su un nichilismo svuotato di obiettivi, ma con salda l’idea di mantenere le distanze da quelle derive “adulte” della musica rock - prog, aor, fusion & co. - che proprio il punk aveva osteggiato. L’indie-rock re-introdusse anche l’intimismo depressivo nel lessico delle musiche giovanili di tendenza - in questo senso la Scozia dei Pastels e dei Teenage Fanclub, dei Belle and Sebastian e dei Mogway è particolarmente rappresentativa -, si guardò bene dal concedere spazio agli arrangiamenti pomposi e non mise mai in discussione il dogma dell’autorialità che, da Dylan in avanti, ha segnato il corso della musica giovanile tutta (diversamente da quanto è sempre accaduto nel folk e nel jazz). […]

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