BILL NELSON
BILL NELSON
di Eddy Cilìa
Un uomo rinascimentale: omaggio a Bill Nelson
Quando questo numero di “Blow Up” raggiungerà le edicole Bill Nelson avrà da pochi giorni compiuto cinquant’anni, trenta dei quali trascorsi facendo dischi. Il primo, datato giustappunto 1968, è uno dei più clandestini che (non) si ricordino: un EP formato 7” in cui i Global Village reinterpretano Long Grey Mare dei Fleetwood Mac, You Don’t Love Me Baby di John Mayall e Dear Mr. Fantasy dei Traffic. In barba a ogni disquisizione sull’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica ne furono stampate, su acetato, tre copie, una per ciascuno dei componenti del gruppo. Nelson conserva gelosamente la sua, “cigolante come un vecchio 78 giri”. Chissà se sarà andato a riascoltarsela di recente, meditando magari su un possibile recupero nell’ambito di un’opera di riordino dei suoi immensi archivi che l’accordo con la DGM di Robert Fripp pare propiziare. L’ultimo disco del Nostro è invece arrivato nei negozi da poche settimane, si chiama Atom Shop ed esibisce in qualche frangente la freschezza di un debutto. Debuttanti veri sono gli Honeytone Cody, gruppo che schiera due rampolli su tre di casa Nelson e che ha licenziato qualche mese fa un mini CD, contribuendo così a fare del 1998, per l’ex-leader dei Be-Bop Deluxe, un annus mirabilis, benché il successo che lo baciò fino ai primi Ottanta seguiti da allora a eluderlo. Una situazione rispetto alla quale, potendo peraltro contare su un fandom fra i più appassionati, si direbbe avere sviluppato una serena indifferenza.
Non ci sono album di Bill Nelson fra quelli che potrebbero farmi compagnia sulla canonica isola deserta (potendone portare casse su casse, forse giusto Northern Dream). Trovo che abbia scritto un tot di belle canzoni ma non più di due in tre decenni, Panic In The World e Do You Dream In Colour, che meritino di esser dette classiche. Che abbia pubblicato troppo e troppo spesso senza discernimento. Eppure sono qui a tesserne un panegirico. Perché? E’ la sua attitudine che mi piace: la fame di vita che lo fa onnivoro e schizofrenico e lo ha indotto a percorrere in musica traiettorie fra le più bislacche, dal folk al techno-pop, a una peculiarissima ambient paracameristica, via glam. Non si sa mai a che casella metterlo. Anche l’etichetta più semplice, “musicista”, la sola che può accomunare l’eroe della chitarra e il compositore, risulta inapplicabile: perché è stato/è anche produttore, scopritore di talenti, regista di video, fotografo, artista grafico, e in special modo pittore, di straordinaria levatura. Parla chiaro in tal senso il piccolo catalogo di sue creazioni devote a Dalì e a Cocteau, lividamente (ballardianamente, azzarderei) crepuscolari e intrise di inquietanti simbolismi religiosi, esibito dal libretto di What Now, What Next?. Nulla di nuovo per quanti conoscono Bill Nelson, una possibile epifania per i neofiti.
Per gran parte della sua carriera musicale fuori sincrono rispetto all’attualità quel poco o tanto che basta a garantirsi l’insuccesso, Nelson è in realtà uomo non di questa ma di un’altra epoca, di un tempo in cui la cultura rifiutava la specializzazione portato della civiltà industriale e del sovraccarico di informazioni dell’era informatica e, aborrendo la dicotomia lettere/scienze, optava per un illuminato dilettantismo. E’ un uomo squisitamente rinascimentale, insomma, e mi sembra questo un buon motivo per amarlo. In confidenza ve ne svelo un altro paio, molto personali. Ho sempre avuto un debole per i dischi raccattati per pochi spiccioli fra bancarelle e fondi di magazzino e la (relativamente) cospicua discografia del Nostro che mi ritrovo in casa mi è costata così poco che mi vergogno a dirlo. Come ai trovatelli, a quei dischi si perdona talvolta più del lecito e del logico, anche per l’incongruo senso di colpa che si avverte nei confronti degli autori. E poi adoro avere a che dire di gente che non si sa da che parte prendere, che sfugge ogni volta che tenti di metterla a fuoco e ti costringe a soppesare le parole. Ottimo antidoto alla banalità (chiamarlo mestiere sarebbe un immeritato complimento) con cui troppo spesso si compita di musica.
Sono dunque trent’anni che William Nelson, nato a Wakefield, nel West Yorkshire, il 18 dicembre del 1948, incide dischi. Ventisette che ne pubblica e se già avete gettato l’occhio su un elenco che non ha nemmeno pretese di completezza (i mini ad esempio non sono stati inclusi) vi sarete innervositi. Pur sapendo di fare cosa sgradita al Nostro, che non ne ha mai ricavato un soldo e non ne possiede il master, vi consiglio di cercare innanzitutto il primo in ordine cronologico, Northern Dream, fragile reliquia che vi incanterà se i due Kevin (Ayers e Coyne) e il Nick (Drake) vogliono dire qualcosa per voi. Metabolizzate le influenze formative (Duane Eddy e Hank B. Marvin degli Shadows, poi Townshend e Hendrix), accantonati i Global Village, la collaborazione con gli psichedelici locali della Holyground (con apparizioni in LP che i soliti fessi chiamati collezionisti si disputano a cifre grottesche: A-Austr, Astral Navigations, Gagalactyca) e una sbandata mistica, Nelson schizza una dozzina di quadretti fra campagna inglese e California con tratto tanto sicuro quanto delicato. Partendo dal lunare folk-rock con echi beatlesiani di Photograph (A Beginning) l’album approda, per tramite del doppio passo di Smiles (qui blues desolato, là pimpante hard), ai languori protoglam di Chymepeace (An Ending). Più della destinazione è il viaggio a sedurre, con tappe chiamate End Of The Season (l’Incredible String Band osserva compiaciuta), Love’s A Way (Drake è davvero prossimo), Northern Dreamer (un po’ serenata, un po’ ninnananna), Sad Feelings (bucolico pop). E’ tale la freschezza che persino una scartina da pub come Bloo Blooz risulta gradevole.
Delle spese di registrazione e pressaggio del 33 giri si sono fatti carico i proprietari di Record Bar, lo spaccio di vinile di Wakefield. Delle 250 copie tirate una prende la strada di Londra, indirizzata a John Peel. Dimenticata da qualche parte al sole, fa una brutta fine. La storia di Bill Nelson potrebbe finire qui non fosse che Peel, rimasto con la curiosità di sapere com’era il disco, scrive e se lo fa rimandare. Dopo di che inizia a suonarlo regolarmente nel suo già popolarissimo programma su Radio One. Qualche conseguenza dell’evento: il musicista e il DJ diventano amici, tanto che anni dopo il secondo inviterà il primo al suo matrimonio; la EMI si accorge di Bill Nelson, che ne è contento; la fantomatica Smile scopre in Bill Nelson, che non ne sarà contento, una piccola miniera d’oro. Ristampato un numero infinito di volte (alcune decine di migliaia le copie vendute, presumibilmente) senza che all’autore venisse mai chiesto permesso, Northern Dream è oggi l’unico lavoro solista del Nostro pre-anni Novanta a non essere fuori catalogo. Brutta storia, che tuttavia non può esimermi dal consigliarvelo.
Quando la EMI lo avvicina Nelson, che ha registrato l’album facendo quasi tutto da solo (una situazione che diverrà abituale nello sviluppo di una carriera sul serio solistica), ha di nuovo un gruppo: lo ha battezzato Be-Bop Deluxe e schiera con lui un secondo chitarrista, Ian Parkin, il tastierista Richard Brown (alla batteria in Northern Dream, unico collaboratore presente in tutti i brani), il bassista Rob Bryan e il batterista Nicholas Chatterton-Dew. Appena profumata di psichedelia, lieve fragranza di incenso rimasta sugli abiti dopo lunga frequentazione di stanze fumanti di patchouli, la musica preferisce al pop di campagna del Sogno Nordico quello cittadino del vaudeville che già tanto ha influenzato Beatles e Kinks. Vi aggiunge sguaiatezze da sabato sera alcolico che anticipano pub e punk-rock, maschi riff puro metallo vergine e cosmetici all’ingrosso per travestiti tristi. Ah già, dimenticavo: l’ossessione di Nelson per la letterarura pulp in generale e per la fantascienza in particolare e la sua passione per le arti figurative. Sottigliezze tanto melodiche che estetiche convivono con l’atteggiamento camp del glam più Oscar Wilde che classe operaia: Bowie e i Mott The Hoople, Bolan e i Roxy Music piuttosto che Gary Glitter o gli Slade. Per una volta in vita sua il Nostro sarebbe al passo con i tempi. Sfortunatamente per lui è la EMI, dipartimento Harvest, a non essere ben sintonizzata. Tenta di convincerlo a rifare Northern Dream registrato meglio (come se altre ventidue piste potessero aggiungere qualcosa alla poesia delle due originali) e ottiene un rifiuto. Medita di ripubblicare comunque il disco ma poi rinuncia. Lasciati nel limbo per oltre un anno, i Be-Bop Deluxe decidono di fare da soli e si autoproducono il 45 giri Teenage Archangel/Jets At Dawn, esaurendo in breve le mille copie tirate. Uno strepitoso concerto al Marquee induce infine la EMI a rompere gli indugi e a metterli sotto contratto. Un anno e mezzo è stato perso e l’onda lunga del glam sta trasfigurando in risacca.
Axe Victim esce nel giugno del 1974. Cammin facendo il gruppo ha perso per strada Richard Brown, defezione grave ma trasformata in guadagno dalla maggiore compattezza che ne consegue. Parkin offre un buon contrappunto a un Nelson che si immedesima troppo nell’appena trovato ruolo di eroe della sei corde ma in compenso scrive canzoni fresche che, pur adeguandosi al canone del glam (varrà la pena di rimarcare che, fosse stata la EMI più sveglia, si starebbe parlando qui di archetipi, non di stereotipi), sanno esporre intriganti variazioni sul tema. La scansione viziosa di Third Floor Heaven, le chitarre acustiche di Night Creatures, l’elettrica in moviola e i cori di Adventures In A Yorkshire Landscape, l’orchestrazione retorica ma irresistibile di Darkness (L’immoraliste) un quarto di secolo dopo sanno ancora destare l’attenzione e indurre alla benevolenza.
Non vende granché, l’esordio a 33 giri dei Be-Bop Deluxe, e il leader per la prima e unica volta in una carriera che forse non immagina ancora così lunga si piega ai voleri della casa discografica e riorganizza la formazione, licenziando i vecchi compagni e ingaggiando come bassista il neozelandese Charles Tumahai (una stella in Australia con i Mississippi) e come batterista un turnista di buona fama quale Simon Fox. Con l’arrivo qualche mese dopo del tastierista Andy Clark il gruppo si assesta nuovamente in quartetto e non cambierà più.
Registrato in trio e prodotto con mano greve da Roy Thomas Baker, che assurgerà alla fama con i Queen, Futurama regala una delle canzoni più memorabili dei Be-Bop Deluxe, Maid In Heaven, ma per il resto convince poco. Meglio i successivi Sunburst Finish e Modern Music, entrambi prodotti, un bel po’ di anni prima degli Stone Roses, da John Leckie. Rispetto allo stile enunciato nei primi due LP non si segnalano scarti rilevanti né un’apprezzabile lievitazione della qualità di scrittura. A lievitare sono le vendite: il 45 giri Ships In The Night, tratto da Sunburst Finish, sfiora i Top 20 e a beneficiarne, curiosamente, è soprattutto Modern Music, che arriva al numero 12. E’ l’autunno del 1976 e Bill Nelson, oltre che guitar-hero, è ora pure una star, posizione che conserverà per un settennato quasi malgré lui. L’immobilismo non gli si addice e i venti di cambiamento che spazzano la Gran Bretagna nel fatidico ‘77 gonfiano le vele della sua ispirazione. Se Modern Music non era stato fedele al titolo, Drastic Plastic lo è: è il disco più bello dei Be-Bop Deluxe, il primo da portarsi a casa se non si vuole optare per una raccolta (Air Age Anthology è il titolo da puntare in caso contrario), e una piccola, grande rivoluzione.
Sospesa su un loop di batteria e trafitta da synth minacciosi, Electrical Language chiarisce immediatamente la portata dei mutamenti. Se il glam risuona ancora nei riff e negli assoli chitarristici (peraltro assai più sobri che in precedenza), le tastiere elettroniche che occupano spazi inauditi sanno di new wave e, di riflesso, di krautrock. Ove New Precision ha un procedere che la fa parente dei Talking Heads di 77, New Mysteries media Roxy Music e Ultravox!. Scenari fantascientifici vengono creati in Surreal Estate con l’ausilio di un set percussivo a base di pentole, padelle e bottiglie di vino accordate (!). Love In Flames incrocia tastiere debordanti e una chitarra che affonda il colpo, coniugando vecchia e nuova maniera. Non così bene come il capolavoro Panic In The World, che inaugura una seconda facciata che ha nel proseguio il torto di tornare a modelli già noti: è come se i T-Rex rileggessero insieme il Bowie di Young Americans e quello di Low. Indimenticabile.
Già perplessi per l’inopinata svolta e a malapena rassicurati da riscontri di classifica ancora confortanti (se Panic In The World non va da nessuna parte, Drastic Plastic si inerpica fino a un rispettabile ventiduesimo posto), alla Harvest prendono male la notizia che Nelson ha sciolto i Be-Bop Deluxe. Tenendo con sé il solo Andy Clark e completando l’organico con il fratello minore Ian al sax e Dave Mattacks (già con i Fairport Convention) alla batteria, il Nostro dà vita ai Red Noise. Il felice momento compositivo viene ribadito da due ottimi 45 giri, Revolt Into Style (frullato funky-electro-pop di gusto XTC) e Furniture Music (ipnotica wave dichiaratamente influenzata da Satie), e da un album, Sound On Sound, che sviluppa atmosfere algide e melodie calorose. Acuti come sempre (sono o non sono l’etichetta dei Pink Floyd?), in piena new wave quelli della Harvest non sanno che farsene e non lo promuovono, salvo poi ritenere deludente il suo piazzamento in classifica (si ferma al numero 33). Un secondo LP dei Red Noise viene registrato, ma prima che veda la luce Bill Nelson si ritrova senza una casa discografica. Alla EMI avranno presto occasione di rimpiangere la loro miopia.
Reinciso pressoché in solitudine, con una comparsata dei Red Noise in un brano e la collaborazione del fratello Ian e del fedele John Leckie e acidamente dedicato a quanti ne hanno ostacolato la realizzazione, Quit Dreaming And Get On The Beam esce nel 1981 per i tipi della Mercury e diventa il più grande successo di sempre del Nostro: numero sette nelle classifiche britanniche. A sospingerlo è l’orecchiabilissimo techno-pop di Do You Dream In Color, al cui confronto il resto del programma non fa una magnifica figura, pur ammannendo un altro gioiellino come A Kind Of Loving (nervoso scilinguagnolo funky) e un paio di interessanti ipotesi, U.H.F. e Youth Of Nation On Fire, su come avrebbero potuto suonare i Devo fossero nati nello Yorkshire. Che Bill Nelson sia autore fuori dai canoni è ad ogni buon conto ribadito dal 33 giri in omaggio con le prime copie (poi riedito a parte): Sounding The Ritual Echo traffica con l’ambient e anticipa di tre lustri la voga delle colonne sonore per film immaginari.
Intitolandola al suo idolo di sempre Jean Cocteau (già omaggiato sul primo Be-Bop Deluxe), Nelson ha nel frattempo fondato un’etichetta indipendente che, oltre a pubblicare una produzione personale da questo punto in avanti straripante, vorrebbe dare sbocco anche ad altri artisti. In realtà, tolto il debutto a 45 giri degli A Flock Of Seagulls (una dimostrazione di notevole intuito commerciale e pessimo gusto) e Wild And Moody di Yukihiro Takahashi, nel decennio in cui si consumerà la sua esistenza la Cocteau non stamperà niente di rilevante tolto Nelson stesso: più o meno una ventina di titoli contando solamente gli album! Non potendo dar conto di tutto, e dopo avere annotato che nulla è in catalogo attualmente ma a sapere cercare qualcosa troverete, mi limito a inquadrare alcuni momenti fondamentali degli anni Ottanta di Bill Nelson, in ordine cronologico.
The Love That Whirls, numero sedici in Gran Bretagna, a tutt’oggi l’ultima prodezza commerciale del Nostro, è copia specchiata di Quit Dreaming And Get On The Beam. Dispiega difatti esso pure techno-pop (il versante più new wave) di discreta fattura (con un brano, Flaming Desire, di qualità superiore) e uscì accoppiato a un altro LP strumentale, Das Kabinet. Una colonna sonora vera stavolta, per un adattamento teatrale dell’arcinota storia del Dottor Caligari, e una delle pagine più fascinose del Bill Nelson “serio”, divisa fra rumori, giostre rotiane, bordoni plananti, tumulti di percussioni e spasmodiche danze di plettri. Nella ristampa che l’unisce agli spartiti vergati per il balletto (ispirato a Cocteau) La belle et la bête, è il primo titolo di questo periodo meritevole di ricerche fra negozi e fiere dell’usato.
Le possibilità che avete di rintracciare una copia di Trial By Intimacy, box di quattro 33 giri dalla confezione che ne fa di per sé un oggetto d’arte, sono alquanto più basse. Dovesse passarvi fra le mani, sappiate che contiene fondali sonici per pellicole mai impressionate indecisi fra ambient, bozzetti neocameristici e techno-pop senza pop. Occasionalmente bellissimi: i Four Pieces For Imaginary Strings valgono da soli l’acquisto del cofanetto o perlomeno dell’album (sono usciti anche separati) che li contiene, Pavilions Of The Heart And Soul.
E’ un’altra colonna sonora vera invece, per una serie della BBC, Map Of Dreams. Se ascoltando What Now, What Next? doveste innamorarvi di Fellini’s Picnic, siate edotti che di simili miniature qui ce ne sono altre quindici. Ahivoi.
Il passaggio fra Ottanta e Novanta per Bill Nelson è traumatico. Il distributore statunitense della Cocteau, la Enigma, dichiara fallimento. La Cocteau stessa, a causa di una vertenza legale fra il Nostro e il manager Mark Rye, chiude i battenti. La moglie lo lascia. LO Stato gli chiede tasse arretrate per cifre impossibili. Una reunion dei Be-Bop Deluxe viene prima pianificata e poi accantonata. Nelson, proprietario appena dieci anni prima di una Rolls Royce e di una Porsche e di un antica, lussuosa villa nella campagna dello Yorkshire, per sopravvivere deve vendere casa e parte delle chitarre. Ma nemmeno in una situazione tanto drammatica la frenesia di comporre, registrare, pubblicare (e dipingere, e fotografare, e tuffarsi a corpo morto in passioni sempre nuove) gli dà requie. L’ispirazione è desta come non mai.
Composto per gran parte da brani scritti in origine per l’abortita rimpatriata dei Be-Bop Deluxe, Luminous è il migliore disco di canzoni di Bill Nelson dai tempi di Northern Dream. Fosse uscito per un’etichetta con i mezzi per promuoverlo, avrebbe potuto vendere parecchio. Ci fosse stato scritto sopra David Sylvian, oppure David Bowie (che un album così se lo sogna da tre lustri), la cosa avrebbe aiutato.
Il decennio che si appresta a congedarsi ha visto l’artista di Wakefield rimettere insieme con caparbietà i cocci della sua vita. Chiudere le pendenze con l’ex-manager e con il fisco, trovare nuovi sbocchi discografici, recuperare i diritti sul vecchio catalogo, risposarsi. Pubblicare dischi a pioggia, in splendida solitudine o con il suo primo vero gruppo dopo i Be-Bop Deluxe, i Channel Light Vessel, supercompagine con, fra gli altri, Roger Eno e Kate St. John titolare finora di due CD in bilico fra ambient e etnica.
Trascurato in patria (benché i Be-Bop Deluxe siano stati oggetto ultimamente di rivalutazione e ristampe) e in compenso piccola stella in Giappone, Bill Nelson continua ad alternare canzoni e composizioni strumentali, album pop e lavori sperimentali. Sempre attento a quanto gli accade intorno (After The Satellite Sings, due anni or sono, ha mostrato un’inattesa dimestichezza con la jungle) ma nello stesso tempo osservatore distaccato. Un artigiano fuori dal tempo che produce instancabilmente manufatti per clienti poco numerosi ma molto affezionati. Un uomo rinascimentale.
DISCOGRAFIA
(con i Be-Bop Deluxe)
1. Axe Victim (Harvest, 1974)
2. Futurama (Harvest, 1975)
3. Sunburst Finish (Harvest, 1976)
4. Modern Music (Harvest, 1976)
5. Live In The Air Age (Harvest, 1977)
6. Drastic Plastic (Harvest, 1978)
7. The Best And The Rest Of (Harvest, 1978)
8. Singles A’s And B’s (Harvest, 1981)
9. Raiding The Divine Archive (Harvest, 1987)
10. Radioland - BBC Radio One Live In Concert (Windsong International, 1994)
11. Air Age Anthology (EMI, 1997; 2CD)
12. Tramcar To Tomorrow (Hux, 1998)
(con i Red Noise)
13. Sound On Sound (Harvest, 1979)
(come Orchestra Arcana)
14. Iconography (Cocteau, 1986)
15. Optimism (Cocteau, 1988)
(con i Channel Light Vessel)
16. Automatic (All Saints, 1994)
17. Excellent Spirits (All Saints, 1996)
(con i Culturemix)
18. Culturemix With Bill Nelson (Resurgence, 1995)
(da solista)
19. Northern Dream (Smile, 1971)
20. Quit Dreaming And Get On The Beam (Mercury, 1981)
21. Sounding The Ritual Echo (Mercury, 1981)
22. Das Kabinet (Cocteau, 1981)
23. The Love That Whirls (Cocteau, 1982)
24. La belle et la bête (Cocteau, 1982)
25. The Summer Of The God’s Piano (Cocteau, 1984)
26. Chamber Of Dreams (Cocteau, 1984)
27. Pavilions Of The Heart And Soul (Cocteau, 1984)
28. Catalogue Of Obsessions (Cocteau, 1984)
29. Eaux d’artifice (Cocteau, 1984)
30. Confessions Of A Four-Track Mind (Cocteau, 1984)
31. Chameleon (Themes International, 1986)
32. Getting The Holy Ghost Across (Portrait, 1986)
33. Map Of Dreams (Cocteau, 1987)
34. Chance Encounters In The Garden Of Lights (Cocteau, 1987; 2CD)
35. The Strangest Things (Cocteau, 1989)
36. Duplex (Cocteau, 1989; 2CD)
37. Chimes And Rings (Cocteau, 1990)
38. Nudity (Cocteau, 1990)
39. Heartbreakland (Cocteau, 1990)
40. Details (Cocteau, 1990)
41. Altar Pieces (Orpheus Organization, 1990)
42. Luminous (Imaginary, 1991)
43. Blue Moons And Laughing Guitars (Virgin, 1992)
44. Crimsworth (Resurgence, 1995)
45. Practically Wired... Or How I Became Guitarboy (All Saints, 1995)
46. Buddha Head (Resurgence, 1995)
47. Electricity Made Us Angels (Resurgence, 1995)
48. Deep Dream Decoder (Resurgence, 1995)
49. Juke Box For Jet Boy (Resurgence, 1995)
50. After The Satellite Sings (Resurgence, 1996)
51. Weird Critters (Resurgence, 1997)
52. Magnificent Dream People (Populuxe/Resurgence, 1997)
53. What Now, What Next? (DGM, 1998; 2CD)
54. Atom Shop (DGM, 1998)
La discografia presa in considerazione è quella inglese. Le versioni su CD di 1, 2, 3, 4, 5 e 6 hanno brani aggiunti. 5 e 10 sono dal vivo. 7, 8, 9 e 11 sono raccolte. 12 è un’antologia di incisioni radiofoniche. 21 era in origine allegato a 20. 24 era in omaggio con 23. 22 e 24 sono stati ristampati insieme (Cocteau, 1985). 25, 26. 27 e 28 sono radunati nel cofanetto Trial By Intimacy. 29 e 30 formano il doppio Two-Fold Aspect Of Everything. 35, 36 e 53 sono antologie. 37, 38, 39 e 40 sono radunati nel cofanetto Demonstrations Of Affection. 41 è una cassetta stampata in 500 copie. 46, 47, 48 e 49 sono radunati nel cofanetto My Secret Studio, Volume 1 (49 è disponibile unicamente in tale veste). 51 e 52 formano il doppio Confessions Of A Hyperdreamer, My Secret Studio Volume 2 (51 è disponibile anche singolarmente).
[pubblicato su Blow Up #9, Gennaio-Febbraio 1999]
© Tuttle Edizioni 2008
Un uomo rinascimentale: omaggio a Bill Nelson
Quando questo numero di “Blow Up” raggiungerà le edicole Bill Nelson avrà da pochi giorni compiuto cinquant’anni, trenta dei quali trascorsi facendo dischi. Il primo, datato giustappunto 1968, è uno dei più clandestini che (non) si ricordino: un EP formato 7” in cui i Global Village reinterpretano Long Grey Mare dei Fleetwood Mac, You Don’t Love Me Baby di John Mayall e Dear Mr. Fantasy dei Traffic. In barba a ogni disquisizione sull’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica ne furono stampate, su acetato, tre copie, una per ciascuno dei componenti del gruppo. Nelson conserva gelosamente la sua, “cigolante come un vecchio 78 giri”. Chissà se sarà andato a riascoltarsela di recente, meditando magari su un possibile recupero nell’ambito di un’opera di riordino dei suoi immensi archivi che l’accordo con la DGM di Robert Fripp pare propiziare. L’ultimo disco del Nostro è invece arrivato nei negozi da poche settimane, si chiama Atom Shop ed esibisce in qualche frangente la freschezza di un debutto. Debuttanti veri sono gli Honeytone Cody, gruppo che schiera due rampolli su tre di casa Nelson e che ha licenziato qualche mese fa un mini CD, contribuendo così a fare del 1998, per l’ex-leader dei Be-Bop Deluxe, un annus mirabilis, benché il successo che lo baciò fino ai primi Ottanta seguiti da allora a eluderlo. Una situazione rispetto alla quale, potendo peraltro contare su un fandom fra i più appassionati, si direbbe avere sviluppato una serena indifferenza.
Non ci sono album di Bill Nelson fra quelli che potrebbero farmi compagnia sulla canonica isola deserta (potendone portare casse su casse, forse giusto Northern Dream). Trovo che abbia scritto un tot di belle canzoni ma non più di due in tre decenni, Panic In The World e Do You Dream In Colour, che meritino di esser dette classiche. Che abbia pubblicato troppo e troppo spesso senza discernimento. Eppure sono qui a tesserne un panegirico. Perché? E’ la sua attitudine che mi piace: la fame di vita che lo fa onnivoro e schizofrenico e lo ha indotto a percorrere in musica traiettorie fra le più bislacche, dal folk al techno-pop, a una peculiarissima ambient paracameristica, via glam. Non si sa mai a che casella metterlo. Anche l’etichetta più semplice, “musicista”, la sola che può accomunare l’eroe della chitarra e il compositore, risulta inapplicabile: perché è stato/è anche produttore, scopritore di talenti, regista di video, fotografo, artista grafico, e in special modo pittore, di straordinaria levatura. Parla chiaro in tal senso il piccolo catalogo di sue creazioni devote a Dalì e a Cocteau, lividamente (ballardianamente, azzarderei) crepuscolari e intrise di inquietanti simbolismi religiosi, esibito dal libretto di What Now, What Next?. Nulla di nuovo per quanti conoscono Bill Nelson, una possibile epifania per i neofiti.
Per gran parte della sua carriera musicale fuori sincrono rispetto all’attualità quel poco o tanto che basta a garantirsi l’insuccesso, Nelson è in realtà uomo non di questa ma di un’altra epoca, di un tempo in cui la cultura rifiutava la specializzazione portato della civiltà industriale e del sovraccarico di informazioni dell’era informatica e, aborrendo la dicotomia lettere/scienze, optava per un illuminato dilettantismo. E’ un uomo squisitamente rinascimentale, insomma, e mi sembra questo un buon motivo per amarlo. In confidenza ve ne svelo un altro paio, molto personali. Ho sempre avuto un debole per i dischi raccattati per pochi spiccioli fra bancarelle e fondi di magazzino e la (relativamente) cospicua discografia del Nostro che mi ritrovo in casa mi è costata così poco che mi vergogno a dirlo. Come ai trovatelli, a quei dischi si perdona talvolta più del lecito e del logico, anche per l’incongruo senso di colpa che si avverte nei confronti degli autori. E poi adoro avere a che dire di gente che non si sa da che parte prendere, che sfugge ogni volta che tenti di metterla a fuoco e ti costringe a soppesare le parole. Ottimo antidoto alla banalità (chiamarlo mestiere sarebbe un immeritato complimento) con cui troppo spesso si compita di musica.
Sono dunque trent’anni che William Nelson, nato a Wakefield, nel West Yorkshire, il 18 dicembre del 1948, incide dischi. Ventisette che ne pubblica e se già avete gettato l’occhio su un elenco che non ha nemmeno pretese di completezza (i mini ad esempio non sono stati inclusi) vi sarete innervositi. Pur sapendo di fare cosa sgradita al Nostro, che non ne ha mai ricavato un soldo e non ne possiede il master, vi consiglio di cercare innanzitutto il primo in ordine cronologico, Northern Dream, fragile reliquia che vi incanterà se i due Kevin (Ayers e Coyne) e il Nick (Drake) vogliono dire qualcosa per voi. Metabolizzate le influenze formative (Duane Eddy e Hank B. Marvin degli Shadows, poi Townshend e Hendrix), accantonati i Global Village, la collaborazione con gli psichedelici locali della Holyground (con apparizioni in LP che i soliti fessi chiamati collezionisti si disputano a cifre grottesche: A-Austr, Astral Navigations, Gagalactyca) e una sbandata mistica, Nelson schizza una dozzina di quadretti fra campagna inglese e California con tratto tanto sicuro quanto delicato. Partendo dal lunare folk-rock con echi beatlesiani di Photograph (A Beginning) l’album approda, per tramite del doppio passo di Smiles (qui blues desolato, là pimpante hard), ai languori protoglam di Chymepeace (An Ending). Più della destinazione è il viaggio a sedurre, con tappe chiamate End Of The Season (l’Incredible String Band osserva compiaciuta), Love’s A Way (Drake è davvero prossimo), Northern Dreamer (un po’ serenata, un po’ ninnananna), Sad Feelings (bucolico pop). E’ tale la freschezza che persino una scartina da pub come Bloo Blooz risulta gradevole.
Delle spese di registrazione e pressaggio del 33 giri si sono fatti carico i proprietari di Record Bar, lo spaccio di vinile di Wakefield. Delle 250 copie tirate una prende la strada di Londra, indirizzata a John Peel. Dimenticata da qualche parte al sole, fa una brutta fine. La storia di Bill Nelson potrebbe finire qui non fosse che Peel, rimasto con la curiosità di sapere com’era il disco, scrive e se lo fa rimandare. Dopo di che inizia a suonarlo regolarmente nel suo già popolarissimo programma su Radio One. Qualche conseguenza dell’evento: il musicista e il DJ diventano amici, tanto che anni dopo il secondo inviterà il primo al suo matrimonio; la EMI si accorge di Bill Nelson, che ne è contento; la fantomatica Smile scopre in Bill Nelson, che non ne sarà contento, una piccola miniera d’oro. Ristampato un numero infinito di volte (alcune decine di migliaia le copie vendute, presumibilmente) senza che all’autore venisse mai chiesto permesso, Northern Dream è oggi l’unico lavoro solista del Nostro pre-anni Novanta a non essere fuori catalogo. Brutta storia, che tuttavia non può esimermi dal consigliarvelo.
Quando la EMI lo avvicina Nelson, che ha registrato l’album facendo quasi tutto da solo (una situazione che diverrà abituale nello sviluppo di una carriera sul serio solistica), ha di nuovo un gruppo: lo ha battezzato Be-Bop Deluxe e schiera con lui un secondo chitarrista, Ian Parkin, il tastierista Richard Brown (alla batteria in Northern Dream, unico collaboratore presente in tutti i brani), il bassista Rob Bryan e il batterista Nicholas Chatterton-Dew. Appena profumata di psichedelia, lieve fragranza di incenso rimasta sugli abiti dopo lunga frequentazione di stanze fumanti di patchouli, la musica preferisce al pop di campagna del Sogno Nordico quello cittadino del vaudeville che già tanto ha influenzato Beatles e Kinks. Vi aggiunge sguaiatezze da sabato sera alcolico che anticipano pub e punk-rock, maschi riff puro metallo vergine e cosmetici all’ingrosso per travestiti tristi. Ah già, dimenticavo: l’ossessione di Nelson per la letterarura pulp in generale e per la fantascienza in particolare e la sua passione per le arti figurative. Sottigliezze tanto melodiche che estetiche convivono con l’atteggiamento camp del glam più Oscar Wilde che classe operaia: Bowie e i Mott The Hoople, Bolan e i Roxy Music piuttosto che Gary Glitter o gli Slade. Per una volta in vita sua il Nostro sarebbe al passo con i tempi. Sfortunatamente per lui è la EMI, dipartimento Harvest, a non essere ben sintonizzata. Tenta di convincerlo a rifare Northern Dream registrato meglio (come se altre ventidue piste potessero aggiungere qualcosa alla poesia delle due originali) e ottiene un rifiuto. Medita di ripubblicare comunque il disco ma poi rinuncia. Lasciati nel limbo per oltre un anno, i Be-Bop Deluxe decidono di fare da soli e si autoproducono il 45 giri Teenage Archangel/Jets At Dawn, esaurendo in breve le mille copie tirate. Uno strepitoso concerto al Marquee induce infine la EMI a rompere gli indugi e a metterli sotto contratto. Un anno e mezzo è stato perso e l’onda lunga del glam sta trasfigurando in risacca.
Axe Victim esce nel giugno del 1974. Cammin facendo il gruppo ha perso per strada Richard Brown, defezione grave ma trasformata in guadagno dalla maggiore compattezza che ne consegue. Parkin offre un buon contrappunto a un Nelson che si immedesima troppo nell’appena trovato ruolo di eroe della sei corde ma in compenso scrive canzoni fresche che, pur adeguandosi al canone del glam (varrà la pena di rimarcare che, fosse stata la EMI più sveglia, si starebbe parlando qui di archetipi, non di stereotipi), sanno esporre intriganti variazioni sul tema. La scansione viziosa di Third Floor Heaven, le chitarre acustiche di Night Creatures, l’elettrica in moviola e i cori di Adventures In A Yorkshire Landscape, l’orchestrazione retorica ma irresistibile di Darkness (L’immoraliste) un quarto di secolo dopo sanno ancora destare l’attenzione e indurre alla benevolenza.
Non vende granché, l’esordio a 33 giri dei Be-Bop Deluxe, e il leader per la prima e unica volta in una carriera che forse non immagina ancora così lunga si piega ai voleri della casa discografica e riorganizza la formazione, licenziando i vecchi compagni e ingaggiando come bassista il neozelandese Charles Tumahai (una stella in Australia con i Mississippi) e come batterista un turnista di buona fama quale Simon Fox. Con l’arrivo qualche mese dopo del tastierista Andy Clark il gruppo si assesta nuovamente in quartetto e non cambierà più.
Registrato in trio e prodotto con mano greve da Roy Thomas Baker, che assurgerà alla fama con i Queen, Futurama regala una delle canzoni più memorabili dei Be-Bop Deluxe, Maid In Heaven, ma per il resto convince poco. Meglio i successivi Sunburst Finish e Modern Music, entrambi prodotti, un bel po’ di anni prima degli Stone Roses, da John Leckie. Rispetto allo stile enunciato nei primi due LP non si segnalano scarti rilevanti né un’apprezzabile lievitazione della qualità di scrittura. A lievitare sono le vendite: il 45 giri Ships In The Night, tratto da Sunburst Finish, sfiora i Top 20 e a beneficiarne, curiosamente, è soprattutto Modern Music, che arriva al numero 12. E’ l’autunno del 1976 e Bill Nelson, oltre che guitar-hero, è ora pure una star, posizione che conserverà per un settennato quasi malgré lui. L’immobilismo non gli si addice e i venti di cambiamento che spazzano la Gran Bretagna nel fatidico ‘77 gonfiano le vele della sua ispirazione. Se Modern Music non era stato fedele al titolo, Drastic Plastic lo è: è il disco più bello dei Be-Bop Deluxe, il primo da portarsi a casa se non si vuole optare per una raccolta (Air Age Anthology è il titolo da puntare in caso contrario), e una piccola, grande rivoluzione.
Sospesa su un loop di batteria e trafitta da synth minacciosi, Electrical Language chiarisce immediatamente la portata dei mutamenti. Se il glam risuona ancora nei riff e negli assoli chitarristici (peraltro assai più sobri che in precedenza), le tastiere elettroniche che occupano spazi inauditi sanno di new wave e, di riflesso, di krautrock. Ove New Precision ha un procedere che la fa parente dei Talking Heads di 77, New Mysteries media Roxy Music e Ultravox!. Scenari fantascientifici vengono creati in Surreal Estate con l’ausilio di un set percussivo a base di pentole, padelle e bottiglie di vino accordate (!). Love In Flames incrocia tastiere debordanti e una chitarra che affonda il colpo, coniugando vecchia e nuova maniera. Non così bene come il capolavoro Panic In The World, che inaugura una seconda facciata che ha nel proseguio il torto di tornare a modelli già noti: è come se i T-Rex rileggessero insieme il Bowie di Young Americans e quello di Low. Indimenticabile.
Già perplessi per l’inopinata svolta e a malapena rassicurati da riscontri di classifica ancora confortanti (se Panic In The World non va da nessuna parte, Drastic Plastic si inerpica fino a un rispettabile ventiduesimo posto), alla Harvest prendono male la notizia che Nelson ha sciolto i Be-Bop Deluxe. Tenendo con sé il solo Andy Clark e completando l’organico con il fratello minore Ian al sax e Dave Mattacks (già con i Fairport Convention) alla batteria, il Nostro dà vita ai Red Noise. Il felice momento compositivo viene ribadito da due ottimi 45 giri, Revolt Into Style (frullato funky-electro-pop di gusto XTC) e Furniture Music (ipnotica wave dichiaratamente influenzata da Satie), e da un album, Sound On Sound, che sviluppa atmosfere algide e melodie calorose. Acuti come sempre (sono o non sono l’etichetta dei Pink Floyd?), in piena new wave quelli della Harvest non sanno che farsene e non lo promuovono, salvo poi ritenere deludente il suo piazzamento in classifica (si ferma al numero 33). Un secondo LP dei Red Noise viene registrato, ma prima che veda la luce Bill Nelson si ritrova senza una casa discografica. Alla EMI avranno presto occasione di rimpiangere la loro miopia.
Reinciso pressoché in solitudine, con una comparsata dei Red Noise in un brano e la collaborazione del fratello Ian e del fedele John Leckie e acidamente dedicato a quanti ne hanno ostacolato la realizzazione, Quit Dreaming And Get On The Beam esce nel 1981 per i tipi della Mercury e diventa il più grande successo di sempre del Nostro: numero sette nelle classifiche britanniche. A sospingerlo è l’orecchiabilissimo techno-pop di Do You Dream In Color, al cui confronto il resto del programma non fa una magnifica figura, pur ammannendo un altro gioiellino come A Kind Of Loving (nervoso scilinguagnolo funky) e un paio di interessanti ipotesi, U.H.F. e Youth Of Nation On Fire, su come avrebbero potuto suonare i Devo fossero nati nello Yorkshire. Che Bill Nelson sia autore fuori dai canoni è ad ogni buon conto ribadito dal 33 giri in omaggio con le prime copie (poi riedito a parte): Sounding The Ritual Echo traffica con l’ambient e anticipa di tre lustri la voga delle colonne sonore per film immaginari.
Intitolandola al suo idolo di sempre Jean Cocteau (già omaggiato sul primo Be-Bop Deluxe), Nelson ha nel frattempo fondato un’etichetta indipendente che, oltre a pubblicare una produzione personale da questo punto in avanti straripante, vorrebbe dare sbocco anche ad altri artisti. In realtà, tolto il debutto a 45 giri degli A Flock Of Seagulls (una dimostrazione di notevole intuito commerciale e pessimo gusto) e Wild And Moody di Yukihiro Takahashi, nel decennio in cui si consumerà la sua esistenza la Cocteau non stamperà niente di rilevante tolto Nelson stesso: più o meno una ventina di titoli contando solamente gli album! Non potendo dar conto di tutto, e dopo avere annotato che nulla è in catalogo attualmente ma a sapere cercare qualcosa troverete, mi limito a inquadrare alcuni momenti fondamentali degli anni Ottanta di Bill Nelson, in ordine cronologico.
The Love That Whirls, numero sedici in Gran Bretagna, a tutt’oggi l’ultima prodezza commerciale del Nostro, è copia specchiata di Quit Dreaming And Get On The Beam. Dispiega difatti esso pure techno-pop (il versante più new wave) di discreta fattura (con un brano, Flaming Desire, di qualità superiore) e uscì accoppiato a un altro LP strumentale, Das Kabinet. Una colonna sonora vera stavolta, per un adattamento teatrale dell’arcinota storia del Dottor Caligari, e una delle pagine più fascinose del Bill Nelson “serio”, divisa fra rumori, giostre rotiane, bordoni plananti, tumulti di percussioni e spasmodiche danze di plettri. Nella ristampa che l’unisce agli spartiti vergati per il balletto (ispirato a Cocteau) La belle et la bête, è il primo titolo di questo periodo meritevole di ricerche fra negozi e fiere dell’usato.
Le possibilità che avete di rintracciare una copia di Trial By Intimacy, box di quattro 33 giri dalla confezione che ne fa di per sé un oggetto d’arte, sono alquanto più basse. Dovesse passarvi fra le mani, sappiate che contiene fondali sonici per pellicole mai impressionate indecisi fra ambient, bozzetti neocameristici e techno-pop senza pop. Occasionalmente bellissimi: i Four Pieces For Imaginary Strings valgono da soli l’acquisto del cofanetto o perlomeno dell’album (sono usciti anche separati) che li contiene, Pavilions Of The Heart And Soul.
E’ un’altra colonna sonora vera invece, per una serie della BBC, Map Of Dreams. Se ascoltando What Now, What Next? doveste innamorarvi di Fellini’s Picnic, siate edotti che di simili miniature qui ce ne sono altre quindici. Ahivoi.
Il passaggio fra Ottanta e Novanta per Bill Nelson è traumatico. Il distributore statunitense della Cocteau, la Enigma, dichiara fallimento. La Cocteau stessa, a causa di una vertenza legale fra il Nostro e il manager Mark Rye, chiude i battenti. La moglie lo lascia. LO Stato gli chiede tasse arretrate per cifre impossibili. Una reunion dei Be-Bop Deluxe viene prima pianificata e poi accantonata. Nelson, proprietario appena dieci anni prima di una Rolls Royce e di una Porsche e di un antica, lussuosa villa nella campagna dello Yorkshire, per sopravvivere deve vendere casa e parte delle chitarre. Ma nemmeno in una situazione tanto drammatica la frenesia di comporre, registrare, pubblicare (e dipingere, e fotografare, e tuffarsi a corpo morto in passioni sempre nuove) gli dà requie. L’ispirazione è desta come non mai.
Composto per gran parte da brani scritti in origine per l’abortita rimpatriata dei Be-Bop Deluxe, Luminous è il migliore disco di canzoni di Bill Nelson dai tempi di Northern Dream. Fosse uscito per un’etichetta con i mezzi per promuoverlo, avrebbe potuto vendere parecchio. Ci fosse stato scritto sopra David Sylvian, oppure David Bowie (che un album così se lo sogna da tre lustri), la cosa avrebbe aiutato.
Il decennio che si appresta a congedarsi ha visto l’artista di Wakefield rimettere insieme con caparbietà i cocci della sua vita. Chiudere le pendenze con l’ex-manager e con il fisco, trovare nuovi sbocchi discografici, recuperare i diritti sul vecchio catalogo, risposarsi. Pubblicare dischi a pioggia, in splendida solitudine o con il suo primo vero gruppo dopo i Be-Bop Deluxe, i Channel Light Vessel, supercompagine con, fra gli altri, Roger Eno e Kate St. John titolare finora di due CD in bilico fra ambient e etnica.
Trascurato in patria (benché i Be-Bop Deluxe siano stati oggetto ultimamente di rivalutazione e ristampe) e in compenso piccola stella in Giappone, Bill Nelson continua ad alternare canzoni e composizioni strumentali, album pop e lavori sperimentali. Sempre attento a quanto gli accade intorno (After The Satellite Sings, due anni or sono, ha mostrato un’inattesa dimestichezza con la jungle) ma nello stesso tempo osservatore distaccato. Un artigiano fuori dal tempo che produce instancabilmente manufatti per clienti poco numerosi ma molto affezionati. Un uomo rinascimentale.
DISCOGRAFIA
(con i Be-Bop Deluxe)
1. Axe Victim (Harvest, 1974)
2. Futurama (Harvest, 1975)
3. Sunburst Finish (Harvest, 1976)
4. Modern Music (Harvest, 1976)
5. Live In The Air Age (Harvest, 1977)
6. Drastic Plastic (Harvest, 1978)
7. The Best And The Rest Of (Harvest, 1978)
8. Singles A’s And B’s (Harvest, 1981)
9. Raiding The Divine Archive (Harvest, 1987)
10. Radioland - BBC Radio One Live In Concert (Windsong International, 1994)
11. Air Age Anthology (EMI, 1997; 2CD)
12. Tramcar To Tomorrow (Hux, 1998)
(con i Red Noise)
13. Sound On Sound (Harvest, 1979)
(come Orchestra Arcana)
14. Iconography (Cocteau, 1986)
15. Optimism (Cocteau, 1988)
(con i Channel Light Vessel)
16. Automatic (All Saints, 1994)
17. Excellent Spirits (All Saints, 1996)
(con i Culturemix)
18. Culturemix With Bill Nelson (Resurgence, 1995)
(da solista)
19. Northern Dream (Smile, 1971)
20. Quit Dreaming And Get On The Beam (Mercury, 1981)
21. Sounding The Ritual Echo (Mercury, 1981)
22. Das Kabinet (Cocteau, 1981)
23. The Love That Whirls (Cocteau, 1982)
24. La belle et la bête (Cocteau, 1982)
25. The Summer Of The God’s Piano (Cocteau, 1984)
26. Chamber Of Dreams (Cocteau, 1984)
27. Pavilions Of The Heart And Soul (Cocteau, 1984)
28. Catalogue Of Obsessions (Cocteau, 1984)
29. Eaux d’artifice (Cocteau, 1984)
30. Confessions Of A Four-Track Mind (Cocteau, 1984)
31. Chameleon (Themes International, 1986)
32. Getting The Holy Ghost Across (Portrait, 1986)
33. Map Of Dreams (Cocteau, 1987)
34. Chance Encounters In The Garden Of Lights (Cocteau, 1987; 2CD)
35. The Strangest Things (Cocteau, 1989)
36. Duplex (Cocteau, 1989; 2CD)
37. Chimes And Rings (Cocteau, 1990)
38. Nudity (Cocteau, 1990)
39. Heartbreakland (Cocteau, 1990)
40. Details (Cocteau, 1990)
41. Altar Pieces (Orpheus Organization, 1990)
42. Luminous (Imaginary, 1991)
43. Blue Moons And Laughing Guitars (Virgin, 1992)
44. Crimsworth (Resurgence, 1995)
45. Practically Wired... Or How I Became Guitarboy (All Saints, 1995)
46. Buddha Head (Resurgence, 1995)
47. Electricity Made Us Angels (Resurgence, 1995)
48. Deep Dream Decoder (Resurgence, 1995)
49. Juke Box For Jet Boy (Resurgence, 1995)
50. After The Satellite Sings (Resurgence, 1996)
51. Weird Critters (Resurgence, 1997)
52. Magnificent Dream People (Populuxe/Resurgence, 1997)
53. What Now, What Next? (DGM, 1998; 2CD)
54. Atom Shop (DGM, 1998)
La discografia presa in considerazione è quella inglese. Le versioni su CD di 1, 2, 3, 4, 5 e 6 hanno brani aggiunti. 5 e 10 sono dal vivo. 7, 8, 9 e 11 sono raccolte. 12 è un’antologia di incisioni radiofoniche. 21 era in origine allegato a 20. 24 era in omaggio con 23. 22 e 24 sono stati ristampati insieme (Cocteau, 1985). 25, 26. 27 e 28 sono radunati nel cofanetto Trial By Intimacy. 29 e 30 formano il doppio Two-Fold Aspect Of Everything. 35, 36 e 53 sono antologie. 37, 38, 39 e 40 sono radunati nel cofanetto Demonstrations Of Affection. 41 è una cassetta stampata in 500 copie. 46, 47, 48 e 49 sono radunati nel cofanetto My Secret Studio, Volume 1 (49 è disponibile unicamente in tale veste). 51 e 52 formano il doppio Confessions Of A Hyperdreamer, My Secret Studio Volume 2 (51 è disponibile anche singolarmente).
[pubblicato su Blow Up #9, Gennaio-Febbraio 1999]
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