20 ESSENTIALS: Madchester 1987-1991
20 ESSENTIALS: Madchester 1987-1991
di Christian Zingales con Roberto Municchi, Beppe Recchia e Marco Sideri

[nella foto: Stone Roses]

Fu una specie di abbaglio, una definizione comoda quantomeno come i larghi e sbracati jeans baggy con cavallo parecchio basso e pantagrueliche T shirt annesse dei pacifici post-hooligan che rappresentavano la scena, ma appunto Madchester fu cappello sotto il quale sulle prime vennero fatte confondere situazioni non solo di non stretta o nulla provenienza geografica, ma poi cose che musicalmente avevano poco a che spartire tra loro. Perché c’era l’onda calda e generosa generata dalla seconda summer of love dell’88 e però i nomi che l’hype inizia a giocarsi in quella fine ’80 avevano la loro dimensione in contesti sonori differenti, fossero band di matrice strettamente indie o innesti più sostanziali tra indie rock e dance o addirittura ibridi soul o creature elettroniche. Madchester non fu, come allora in presa diretta sembrava poter essere o meglio divenire, la sgargiante mappatura di una città nel suo naturale sfogo post neworderiano e post factoryano, con un club come l’Hacienda al suo apogeo e una droga come l’Ecstasy che pareva dettare i dogmi di una nuova civiltà, in una scena che accordava in un mosaico di irregolari, picassiane forme, le melodie elettriche Sixties degli Stones Roses, il funk rock bianco debosciato degli Happy Mondays, la techno fusion degli 808 State e altri florilegi di natura libera. Né fu, uscendo dai confini mancuniani, il post-88 in blocco. Perché se idealmente si può raccontare quella stagione inglese in cui l’Ecstasy prendeva il posto della Thatcher tirando un filo rosso che unisce Stone Roses e Soul II Soul, 808 State e i Primal Scream della gara weatheralliana che va dall’apparire di Loaded a “Screamadelica”, oggi è chiaro col senno di poi come i percorsi fossero diversi e ramificati in una miriade di correnti e sottocorrenti, e in che misura l’influenza dance sia stata, in forme più o meno marcate, anche un lasciapassare obbligato per moltitudini, il sine qua non di parecchio rock prima indie e poi anche major, in una parabola che arriverà a coinvolgere certi pattern ritmici e ammiccamenti degli U2 di “Achtung Baby”, per citare uno dei casi più emersi. In questo transito Madchester va a delinearsi come un colore, una tonalità, una seppiatura di passaggio, con diversi epigoni di Roses e Mondays o con band di accattivante ordinarietà come i Charlatans e gli Inspiral Carpets. Un pacchetto in realtà di gran lunga più tradizionalistico rispetto alle prime impressioni dell’epoca e all’imprinting nominale mutuato da quel Madchester Rave On EP dei Mondays, in uno slancio che va a confondere i suoi connotati in quel miraggio che fu il concerto di Spike Island del ’90 dei Roses, con il supporto di DJ come Paul Oakenfold e Frankie Bones, gestito in modo travagliato allora e pronto ad essere idealizzato come “la Woodstock della baggy generation”. Una scena che riportata alle sue fondamenta strutturali si poneva effettivamente come un piccolo ponte arcobaleno che collegava l’indie inglese circa C-86 di metà ’80 con il brit pop dei ’90, che sarà trainato da band come Blur e Oasis a perpetrare di fatto, in una normalizzazione irreversibile, modi e attitudine della famosa esplosione Madchester e baggy. […]

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